La via francigena di Madeleine
L’ho trovata che camminava sul bordo di una rotonda in tangenziale: i capelli corti e bianchi, il fisico asciutto e uno zaino compatto da cui pendevano i bastoni da trekking.
Ho rallentato guardando dallo specchio retrovisore: una donna, che giovane non era, e che di sabato mattina con trenta gradi d’afa si stava addentrando in una zona industriale, deserta all’apparenza e piena di potenziali brutti incontri alla sostanza. Si guardava intorno spaesata con in mano un cellulare.
Sono tornata indietro. Se seguo certi impulsi poi mi pento, ma se non li seguo poi mi tormento. Mannaggia a me.
Si muove in fretta: il tempo di fare inversione di marcia e a momenti era già sparita tra i capannoni.
– Signora, ha bisogno di un passaggio? –
Non è italiana.
Mi ricordo di me stessa in posti lontani, come quella volta in India in cui mi perdetti e per fortuna passò una ragazza olandese in motorino, risparmiandomi sedici chilometri a piedi lungo una strada arroventata e deserta.
Provo a rifarle la domanda in inglese e capisco che non parla bene neppure quello: è francese.
Vuole raggiungere a piedi un paese delle vicinanze, e secondo la guida che sta consultando sul cellulare dovrebbe esserci un sentiero dietro la cascina X all’angolo con la fattoria Y, subito dopo “la fabbrica”. Sì, ma quale? Dietro questa zona industriale c’è un campo ricoperto di pannelli fotovoltaici. Dall’altra parte c’è l’autostrada.
Il paese che la donna vuole raggiungere è un posto tedioso e bigio nella canicola, eppure lei sembra determinata: no prvoblèm, camminare, ha già percorso 25 kilomettres da stamattina all’alba.
Continua ad avanzare come una formichina ubriaca mentre io la tallono con l’auto. Quando la vedo girare intorno a un pilone osservandolo da vicino, le chiedo se ha dell’acqua e mi maledico per non averla io.
Certo che ce l’ha. Ha anche il tè. Mi mostra la sua borraccetta tecnologica infilata nello zaino minimal e mi dà una pacchina sul gomito che sporge dal finestrino, come a dire “Ohi bimba, che te pensi che so’ rimbambita?”.
Provo a controllare sul mio navigatore: il sentiero sembra esserci, un’ora e mezzo di cammino, ma non si capisce da dove parta. Forse è scomparso sotto un silos. Quando le dico che il sentiero c’è, e forse inizia dopo quella fabbrica laggiù, lei si ringalluzzisce, batte le mani e mi ringrazia dicendo che sono stata la sua benedizione. Parte decisa augurandomi buona vita, tanta fortuna e chissà che un giorno non ci si riveda, quando saremo due tigri nel vento.
Insomma, mi scarica.
Giro l’auto, ripercorro il labirinto di strade parallele della zona industriale e torno verso la rotonda dove finalmente intercetto un segno di vita: è quello strano mezzo con gli spazzoloni che pulisce le strade. A meno che non si tratti di una stazione mobile di spaccio abilmente camuffata.
Suono il clacson, ma l’omino baffuto alla guida non ha nessuna voglia di fermarsi, quindi praticamente gli taglio la strada, lo obbligo a inchiodare e scendo di corsa. Lui abbassa due centimetri di finestrino e io gli chiedo se per caso conosce il sentiero che dalla zona industriale porta a quel maledetto paese.
– Sì, l’autostrada! – dice lui puntando il dito verso il rumore di auto che si rincorrono a gran velocità. Quando capisce che non sono pericolosa controlla gentilmente sul suo navigatore, che non mostra nessun sentiero pedonale in zona.
Riparto affannata compiendo inversioni a U confuse tra i parcheggi vuoti. L’asfalto è così rovente che riverbera miraggi, tengo il finestrino abbassato e l’aria condizionata al massimo, congelandomi i piedi. La trovo a un bivio di due strade sterrate che sembrano portare in direzione opposta a dove vuole andare.
Temo di spaventarla, di farla sentire perseguitata, ma Madeleine non sembra preoccuparsi. Almeno, non per lei. Sembra più preoccupata per la mia sindrome ansiosa di salvatrice di animali, sassi, semi, quadri, vagabondi. Mi ripete che sono molto gentile e io mi giustifico dicendo che mi sono trovata anch’io in una situazione simile e che sono stata a mia volta aiutata. Il paese che vuole raggiungere è di strada per me, ci mettiamo cinque minuti. Fa caldo e sono quasi le undici, non c’è manco un albero striminzito fino alle montagne, solo coltivazioni di roba geneticamente modificata, topi giganti a causa delle radiazioni, fossi aridi pieni di scorie di amianto, trattori morti.
Lei sorride bonaria e mi spiega che non sale su un mezzo di trasporto da due mesi. Cammina e basta. Ha fatto tutto il giro a piedi delle coste francesi, 1700 chilometri, ha attraversato il Nepal, l’Africa, l’India. Quando è stanca si sdraia sul suo stuoino all’ombra e dorme, poi riparte. Dopo questa tappa si dirigerà a sud verso la Liguria e poi la Toscana.
Le chiedo cosa ha visto nei dintorni e scopro che ha sfiorato i posti più interessanti senza visitarli. Sembra interessata soltanto a camminare. Pronuncia la parola frvreedom con gli occhi che le brillano dietro gli occhiali e agitando le braccia verso il cielo che è effettivamente tanto blu, oggi. Si vede l’intera catena delle Alpi Cozie all’orizzonte e lei grida gioiosa Monviso! indicandomi la vetta più alta. Capisco che si sente leggera e che non vuole che nessuno la fermi.
Non ho paura, mi dice.
Conosco questa bene quella sensazione, e provo anche un po’ di invidia. Forse sono io che dovrei abbandonare l’auto e seguirla, senza parlare più.
Ma conosco anche quella solitudine così profonda e stratificata negli anni da diventare compatta come una roccia, sulla quale infine ci si arrampica per guardare tutto dall’alto con un certo esaltato distacco:
– Madeleine, tutto bello eh? Ma non è un po’ noioso? Che ne dici di una piccola avventura? Sto andando a Z a ristrutturare un appartamento con una bella vista. Puoi visitare quel posto lì, è particolare. Poi torno indietro e ti mollo al tuo imperdibile paese tra poche ore. Una piccola deviazione, ma un grande diversivo: auto, chiacchiere, gente strana. Pensa che il valligiano muratore che dovrebbe già essere là ad aspettarmi veste sempre uguale, estate e inverno: maglietta a maniche corte, pantaloni al ginocchio e scarponcini come i tuoi. Va vestito così anche in bicicletta a febbr…-
Ha deciso di venire con me. In due secondi ha piazzato lo zaino sui sedili posteriori della mia auto, che sono coricati causa trasporto materiali da costruzione, e si è seduta sul sedile del passeggero sporco di polvere di cemento.
– Un po’ di avventura ogni tanto è OK – dice.
Partiamo.
Imbocco l’autostrada e Madeleine, dopo il gesto energico e risolutivo, ora è silenziosa e tesa. So a cosa sta pensando: a tutti i rischi, anche quelli improbabili, a cui non ha pensato prima. Cerco di non mostrarmi troppo sollecita e mi concentro sulla guida. Lei osserva le montagne per orientarsi e capire in che direzione la sto portando. Quando dopo pochi minuti superiamo l’uscita per il posto dove era diretta, sembra rendersi conto dell’inutile fatica che stava per affrontare e torna di buon umore. Ancora cauta mi fa alcune domande sul percorso e sul tempo che ci vorrà. Mi ripete che deve tornare indietro per il primo pomeriggio, perché deve incontrare degli amici del Belgio, e nel dire questo sventola il suo telefono cellulare.
Ma non ci sono amici di sorta ad aspettarla, e lo sappiamo entrambe. Per oggi, per un solo giorno nell’arco di due vite, la sua amica sarò io.
Ha sessantasette anni. Prima di diventare molto vecchia vuole collezionare bellissime memorie, così ci ripenserà quando non potrà più muoversi. Viaggiare da sola è sempre stata una sua passione. A ventisette anni ha percorso a piedi l’Europa intera. Poi ha avuto una figlia e per venticinque anni si è fermata, facendo quello che fanno tutti: lavorare e preoccuparsi delle vacanze estive dei bambini perché gli adulti lavorano e non sanno dove metterli. Non era la sua vita, ma l’ha fatta perché ha ritenuto che fosse giusto per la bambina. Sua figlia però adesso è grande, è una professoressa.
Madeleine dice questo con un certo distacco, non c’è traccia di orgoglio. Ho la sensazione che non la approvi lo stile di vita di sua figlia, o che ne sia in qualche modo delusa. Non osa farmi domande, quindi deduco che non sia ancora molto a suo agio. Percepisco che ogni chilometro macinato su ruote, lontano dalla sua meta, la preoccupa. Non era in programma, non era “la regola”.
Mi è capitato spesso di incontrare persone che invocano libertà da tutto quello che loro chiamano “schemi” ma che in realtà soffrono forte a ogni cambio di programma, anche se non lo ammetterebbero mai. Essere diversi, avere esigenze diverse dalla maggior parte degli altri, non significa necessariamente essere più liberi.
Raggiungiamo finalmente la mia meta. Madeleine lascia sulla mia auto tutto ciò che ha e mi segue per il labirinto di scale della mia nuova casa, ma lo fa tre passi indietro. Per fortuna sono stata capace di descrivere bene l’appartamento e il personaggio che dovremmo trovarci all’interno, quindi quando apro la porta e la scena è esattamente quella, lei si mette a ridere e vedo che si rilassa completamente.
Io invece perdo immediatamente dieci punti di stima da parte del muratore: raccolgo la gente per strada. Straniera. Roba da matti.
Siccome ci sono dei lavori pesanti da fare, devo liberarmi di Madeleine che nel frattempo si è accomodata soave su un bidone di vernice e ora trinca acqua di rubinetto in bicchieri velati di polvere di stucco come se fosse champagne. Ha anche assistito alla scena che le avevo coloritamente anticipato, del muratore che si mescola il caffè solubile con la matitona da falegname, visto che sono senza cucchiaini. Se è per questo, sono anche senza water, ho giusto un rubinetto e un bollitore.
Che poi non si capisce il muratore cosa mescoli il caffè a fare, visto che non ho lo zucchero.
Madeleine sembra ricordarsi all’improvviso della sua missione: camminare. Parte per visitare il paese montano dove parlano la sua lingua, anche se in versione un po’ antiquata. Non sembra sapere molto dell’Occitania, ma decide che scenderà non per la strada ma per i boschi, e che ci ritroveremo più tardi davanti alla chiesa.
Io mi trascino in casa il prezioso zaino che lei ha abbandonato nella mia auto, con il sollievo di non doverselo portare sempre sulla schiena. Sembra averlo completamente dimenticato, forse perché adesso il suo film è che siamo nel mondo dei puffi, ma io sono preoccupata che glielo rubino. Il muratore mi osserva senza aiutarmi, continua a non capire il senso di ciò che faccio: nel suo, di film, sono una squinternata svampita.
Tutti hanno un film. Io, mi accorgo, vado al seguito. Non sono per nulla certa che questa sia libertà.
Ritrovo Madeleine all’orario prestabilito: mi saluta da lontano e ha un’espressione felice e vaghissima. Vuole offrirmi un gelato, ma la gelateria è chiusa e so che ha i soldi contati. Ci rimettiamo in marcia, lei con le mani piene di ortensie raccolte, io con schegge di intonaco tra i capelli. Ho il brutto sospetto di avere una costola incrinata perché a furia di fare la brillante con il muratore che ha la mia età ed è in ottima forma, adesso lui mi lancia i sacchi di malta da 25 chili dal camion.
Madeleine sorride guardando il panorama. Mi racconta un po’ del posto dove vive, nel nord della Francia, dove ha parenti che vogliono sempre fare le “riunioni di famiglia” che lei odia, così come non sopporta i bambini. Sono invitata a stare da lei ogni volta che voglio, ma solo nei mesi invernali: per il resto del tempo cammina.
Si parla di vecchiaia imminente, di uomini, che nella vita di Madeleine ora occupano solo il 20% esatto del suo tempo libero. Per il resto il suo amante è lo zaino, che non pretende, non critica, non ha fame, sonno e altre esigenze in momenti inopportuni. C’è questa sensazione non detta di vita che si sarebbe voluti spendere in modo diverso, ma oramai è andata e si acchiappa al volo tutto quel che si può, con molto rimpianto e un po’ di senso di rivalsa tardiva.
Quando arriviamo al passaggio a livello del paese che voleva raggiungere, lei mi mostra eccitata un piccolo adesivo appiccicato storto sul palo dello STOP. Siamo sulla strada giusta. E io finalmente capisco: Madeleine stava percorrendo una delle famose vie francigene che dalla Francia portano ad Assisi e poi a Roma. Non avevo idea che passassero proprio da quelle parti.
L’adesivo riporta la lettera Tau dell’alfabeto greco su fondo arancione, con una colomba che, in base a come è orientata, segnala la svolta oppure il proseguire dritti, oppure ancora che si sta imboccando la via sbagliata.
Ecco cosa cercava Madeleine quando girava intorno al palo in zona industriale. Io l’avevo interpretato come un sintomo di disidratazione. Quanto è facile pensare quello che preferiamo degli altri, senza mai porci un dubbio.
Adesso che ho capito, comprendo anche la parola “pavrosce” che Madeleine insisteva a ripetermi affinché non mi preoccupassi troppo di dove dormiva: le parrocchie lungo il percorso offrono ristoro, docce, ricarica device.
Ci dirigiamo quindi in centro, alla ricerca della chiesa principale. Parcheggio facilmente. Il centro è deserto e in piazza ci sono le giostre, ma sono ferme e scintillano nella calura del pomeriggio.
Ci sediamo al bar, ordiniamo due birre che il barista accompagna gentilmente con delle patatine. Arriva un gatto, che si sdraia pigramente ai nostri piedi.
Madeleine mi guarda e dice:
– Tu sei così calma, tutto è possibile con te. Hai molto spazio, dentro. –
È un bellissimo complimento, mi dispiace molto di non meritalo neppure un po’. Mi dico infine che forse il caos totale di pensieri che viaggiano su binari paralleli nella mia testa e che si annullano a vicenda, può corrispondere in qualche modo a un vuoto. Del centro di un ciclone, per esempio.
Madeleine mi contempla sorridente per un’ora di chiacchiere e quando le giostre iniziano pigramente ad animarsi, ha un’illuminazione artistica: vuole fotografarmi mentre io, col vento nei capelli, piloto solitaria uno degli aeroplanini che girano in tondo.
Quella giostra era una delle mie preferite da bambina, è rimasta identica. Ricordo ancora la sensazione di grande potere quando mitragliavo gli avversari e li vedevo perdere quota a uno a uno vincendo ore di giri gratis. Ho capito solo quarant’anni anni dopo che era un favore fatto a una bambina infervorata da un giostraio che ricordo vagamente, con le occhiaie e lo sguardo stanco sul volto pesante. Sembrava uno che odiava i bambini, non sorrideva o parlava mai. Grazie, giostraio. Se può farti piacere, sappi che ogni tanto ti penso.
Una volta, da adulta, ho provato a salire di nuovo su quella giostra con un amico. La giostra ha preso fuoco e ci hanno fatto scendere i pompieri con la gru.
Alla fine decidiamo di chiedere al barista che ci scatti una foto ricordo insieme. Parlando con lui ho scoperto che sa di questi pellegrinaggi ed è in grado di indirizzare la signora alla prossima tappa, nel caso ne avesse bisogno. Per me è tempo di andare e per Madeleine di raccogliersi e tornare alla sua missione. Le consegno il suo zaino, che pesa solo dieci chili e contiene l’essenziale, ma a portarselo sulla gobba per decine di chilometri al giorno diventa comunque di piombo.
Madeleine mi abbraccia fortissimo, facendomi scricchiolare la costola già sofferente. Mi dice che mi manderà un messaggio una volta arrivata ad Assisi, nel frattempo viaggerò chiusa stretta nel suo cuore. Ci guardiamo un’ultima volta e lei ha gli occhi umidi. Mi dico che ogni tanto, in fondo, faccio la cosa giusta.
La lascio lì, che sventola la mano davanti alla giostra degli autoscontri.
Parto piano.
Per chi vuole saperne di più sulle vie francigene, QUI
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