Quando il tuo cane parla e fa domande a cui non sai rispondere
Bunny è famosa sul Web. Non solo perché è un bell’esemplare di Shepherd Poodle dal musetto espressivo che parla alla sua family tramite dei pulsanti preregistrati. Ci sono altri cani e gatti che stanno affascinando milioni di persone sui Social con quella che oramai è diventata una moda – insegna a parlare al tuo pet – e anche un ottimo business, visto che i pulsanti registrabili hanno prezzi stratosferici.
Per chi studia il comportamento animale, il fatto che un cane possa arrivare a memorizzare oltre 1000 parole, più di quelle che sono in grado di usare certi umani, è risaputo. Non si tratta soltanto di concetti basilari come “pappa”, “pupù”, “nanna” “si-no”. In poche settimane arrivano facilmente a verbalizzare associazioni non del tutto scontate come “uccello-cibo” e “cibo-pancia”, anche quando nessun volatile intero e crudo, nella loro vita addomesticata, ha mai realmente seguito quel percorso.
Se osservare i brevi filmati quotidiani di tutti questi animali mi lasciava inizialmente qualche dubbio sulla possibile casualità delle frasi che componevano, premendo i pulsanti a volte con la zampa, altre con il naso e in alcuni casi sedendocisi sopra come per sbaglio, uno studio più attento mi ha convinta del contrario. Non solo si esprimono: la personalità dell’animale emerge in modo dirompente proprio attraverso la scelta delle parole, il ritmo e le eventuali ripetizioni. In questo filmato per esempio c’è Bastian, un cane dall’indole dominante ed energica che approfitta della pulsantiera per innescare vivaci trattative con la sua umana. Chiede ripetutamente un premio in cibo (treat) rinforzando la richiesta con un sì! finale. Alla risposta: “No, bocconcini basta per oggi” oppone un: “No! No! No! Non basta!” e nasce il sospetto che se conoscesse parole colorite non esiterebbe a usarle in modo appropriato.
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Sebbene Bastian possegga un discreto vocabolario e all’occasione possa comporre frasi intere, preferisce insistere su un concetto alla volta, da buon comunicatore selettivo. E poi si sa, gli umani tendono a essere un po’ lenti di comprendonio. Grazie a lui ho capito una cosa importante, confermata in numerosi filmati anche da altri suoi colleghi parlanti: in generale ai cani e ai gatti non piace la musica. Possono sopportarla stando quieti o addirittura dormendo, ma la pulsantiera parla chiaro.
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Al gatto che vive con Bastian non è mai stato insegnato nulla, ma anche lui è perfettamente in grado di identificare e usare un pulsante, se proprio è necessario. Lo fa in modo pigro e guardando altrove, come se si trattasse di un’incombenza noiosa. Rimane la questione aperta su come facciano a riconoscere il tasto che corrisponde al concetto che vogliono esprimere, in mezzo a decine di altri: fiuto? Riconoscimento del simbolo grafico? Incredibile memoria topografica esercitata dal divano?
Anche un altro gatto, Justin, usa la pulsantiera con nonchalance tutta felina: perché miagolare o saltare sul letto del proprio umano alle cinque di mattina come tutti, quando basta svegliarlo premendo un pulsante e usando la sua stessa voce?
Le richieste sono più o meno quelle che ci si aspetterebbe, con qualche sorpresa: “prendimi in braccio”, “spazzolami” “uccellini alla finestra” “uccellini cibo” “ahia (ouch)” “sono arrabbiato” “non ti voglio più bene” “tutto finito, ti voglio bene di nuovo”.
Il fatto che Justin comunichi i suoi sentimenti, ma anche e soprattutto che si preoccupi di avvisare quando cambiano, sorprende. In questo filmato, dopo avere battuto la testa mentre giocava, annuncia alla sua umana che il dolore è cessato (all done ouch). In altri filmati lo si vede dichiarare di essere arrabbiato/offeso e successivamente comunicare che la sua arrabbiatura è passata o la sua umana perdonata.
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Bunny, però, è ad altri livelli. Lei non impara, evolve. Osservandola crescere filmato dopo filmato, la si vede sviluppare un tipo di comunicazione affettiva, dettata dall’esigenza di comprendere il mondo e le creature che ama, e al tempo stesso di stabilire equilibri di potere e ponti di collaborazione. Ha pazienza e una costanza commovente nel ricercare il dialogo. Con i suoi modi da signorina educata, sa dire alla sua Mom che ha male e dove ce l’ha. Ha capito a cosa serve la medicina per il suo stomaco delicato e la chiede al momento giusto, palesando apprezzamento per i suoi effetti. Ricorda a tutto il suo branco che sono una famiglia e che non è bene separarsi. Che il mare mosso sotto casa la preoccupa.
Annusa tutto emettendo verdetti, a volte risentiti: “Hai incontrato il cane X” “Dad sta facendo la popò” “Qui ci avete dormito” “Otter odora di bleah“.
Annuncia quando è mattina, notte e pomeriggio. Annuncia pioggia, anche quando sembra sereno, e ci azzecca sempre.
La sua intelligenza sociale è così sviluppata che può adattare lo stile comunicativo: quando decide di parlare attraverso i pulsanti con Otter, l’altro cane, passa alla pulsantiera di quest’ultimo, che contiene vocaboli più basilari. Quando è stata dai “nonni” e loro facevano fatica a capirla, li ha istruiti utilizzando segnali più atavicamente canini come il sedersi di fronte alla pulsantiera e aspettare che la guardassero prima di digitare “I love you” e scodinzolare.
Sa che ci sono word other, altre parole, di cui non è ancora in possesso, e quando vuole esprimere concetti nuovi ricompone in modo straordinariamente creativo ciò che ha a disposizione, studiando combinazioni diverse fino a quando riesce a farsi capire. In questo modo è riuscita a dire che fa dei sogni, inizialmente chiamati night talks, discorsi notturni, che svaniscono di giorno e nei quali compaiono spesso animali sconosciuti. Ne vuole parlare, vuole capire.
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A un certo punto ha cominciato a fare domande, e ha cominciato a farsele anche qualche spettatore un po’ più sensibile: “Uni (il gatto di casa, scomparso improvvisamente) è famiglia. Quando torna?” “Dov’è andato Dad?” “Perché la notte scorsa non ho dormito?”
Quando non ha fame e la sua Mom insiste perché mangi, chiede perché dovrebbe farlo. E attende la risposta.
Arriva scodinzolando, augura felice giornata e commenta che oggi è mattina e che ieri era ieri. Quando ottiene conferma, quasi sorride e chiede dove sia finito ieri, mandando tutti nel pallone mentre lei siede educatamente in attesa di risposta e osserva sempre più preoccupata la reazione confusa della sua Mom.
Le domande sono tante e alcune sono del tipo che noi chiameremmo esistenziale. Ce n’è una in particolare, però, che fa capolino sempre più spesso: un dubbio che tormenta Bunny rendendola triste e inquieta, e che a me, seduta a guardare i suoi filmatini su Instagram, spezza un po’ il cuore. È stata “figlia unica” prima dell’arrivo di Otter ed è evidente che ha accettato questo nuovo cane come farebbe una femmina materna e protettiva con un cucciolo. Il rapporto che ha con Otter però non è intenso e affine come quello che ha con Mom e che sfiora, temo, la simbiosi. Con Otter, Bunny gioca, ma spesso comunica con lui attraverso la pulsantiera o parla di lui come se non fosse presente, sapendo che non è in grado di capire tutto. In un’occasione, vedendo Otter sul divano con Mom e Dad, ha chiesto perché il cane fosse lì. Le richieste di chiarimento dei termini “umano” “animale” e “cane” sono una costante, e così, in certi momenti di particolare intimità con Mom, la domanda delle domande si carica di un’aspettativa che è quasi una preghiera, e che si legge tutta nel suo sguardo: “Noi, siamo una famiglia?” “Mom, tu sei umana?” “Otter è un cane?” “E Dad?”
“E io? Cosa sono io?”.
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Ora su Bunny c’è un libro, in inglese: