Come pubblicare un libro ed essere infelici
“…ed essere infelici” ce l’ho aggiunto io. “Come pubblicare un libro” invece, è la frase più frequentemente digitata su Google da coloro che finiscono per visitare il mio post “Esperimento di auto pubblicazione ebook su Amazon“.
Questo post mi regala spesso testimonianze di simpatia da parte dei lettori; molte persone, nei commenti, mi hanno parlato della loro esperienza e contribuito con informazioni utili. Altri mi hanno chiesto consigli. È per loro che adesso scrivo questo, nel tentativo di fare chiarezza su quale differenza ci sia tra l’editoria tradizionale e quella a pagamento.
Sapendo che alcune delle cose che sto per scrivere potrebbero causare, in soggetti predisposti, un attacco improvviso di blèblèblèèèèè! Non ci sento! Non ci sentooo! con tanto di indici piantati nelle orecchie, opterò per un bieco scarico di responsabilità citando le parole di altre persone la cui credibilità è maggiore della mia. Prima di farlo però, come ogni scrittore mitomane che si rispetti, ci tengo a fare la mia introduzione pedante.
Far stampare un proprio scritto, senza riuscire a farlo leggere praticamente a nessuno, non trasforma magicamente in scrittori, così come registrarsi mentre si canta sotto la doccia e pagare la casa discografica Cantachetipassa affinché lo metta online con il suo marchio, non trasforma in cantanti.
C’è una differenza tra volere scrivere un libro e volere a tutti i costi lo status di scrittore, per il quale tocca necessariamente accocchiare qualcosa di scritto, non importa cosa. Nel secondo caso vanno benissimo gli editori a pagamento, addetti alla Vanity Press: gli status si pagano, ed è giusto pagare un tipografo travestito, se la soddisfazione cercata è quella di un oggetto da mostrare ai conoscenti come accessorio distintivo. Nel pagamento è compresa la “non critica” all’opera, che è accettata così com’è, oppure sommariamente corretta dal punto di vista ortografico (dietro ulteriore esborso di denaro). I casi di libri pubblicati a pagamento e poi diventati famosi sono così rari che non se ne sente mai parlare. Di gente che si è spennata a furia di stampe e pubblicità, senza riuscire a vendere neppure un libro, invece è pieno.
Carolina Cutolo, fondatrice di Scrittori in causa, un blog che chiunque sogni di diventare scrittore dovrebbe imparare a memoria, scrive:
“1 – Desiderano far parte del mondo dell’editoria ma non lo conoscono né hanno interesse a conoscerlo: non passa loro neanche per la testa l’idea di studiarsi le linee editoriali delle case editrici, di seguire i blog letterari, di leggere altri autori per imparare a scrivere meglio. No, restano lì a compiangersi nel loro microcosmo e finiscono col firmare contratti ignobili e/o pubblicare a pagamento solo per vedere il proprio nome sulla copertina di un libro.
2 – Vogliono tutto e subito, pretendono di fare “il colpo gobbo”, come lo chiama Ermanno Cavazzoni ne Il limbo delle fantasticazioni (consigliatissimo agli aspiranti scrittori), e cioè la loro unica ambizione è ottenere senza la minima fatica soldi e gloria grazie alla scrittura e elevarsi così su tutti gli altri poveracci che annaspano nella mediocrità. Finiscono quasi sempre col firmare contratti ignobili e/o pubblicare a pagamento salvo poi scoprire che non solo non è servito a niente, ma che così sono caduti ancora più in basso.
3 – Sono convinti che l’unico motivo per cui non riescono a pubblicare con un editore decente è perché “tanto quelli pubblicano solo i raccomandati”; coltivano (invece della propria scrittura) questo vittimismo astioso contro tutto e tutti e finiscono per firmare contratti ignobili e/o pubblicare a pagamento convinti che i loro aguzzini siano dei benefattori illuminati, pure se non si è mai visto un mecenate che si fa pagare.
4 – Non mettono mai e poi mai in dubbio la qualità della loro scrittura e quindi vedono la pubblicazione, la fama, il denaro come diritti negati. Non leggono ma denigrano tutti gli altri scrittori perché “oggi viene pubblicata solo immondizia”, senza rendersi conto dell’evidente paradosso: pretendere la pubblicazione come diritto inalienabile e al tempo stesso criticare la pubblicazione indiscriminata e di bassa qualità. Finiscono quasi sempre per firmare contratti ignobili e/o pubblicare a pagamento, difendendo i loro pseudo-editori perché secondo loro sono gli unici ad aver capito il loro valore.” (tratto da: Pubblicare non è un diritto, di Carolina Cutolo)
L’affermazione secondo la quale “pubblicano solo i raccomandati” è molto falsa. Però è vero che le persone famose pubblicano più facilmente, e qui si passa all’evoluzione dell’editoria tradizionale: pubblicare con Mondadori, per esempio, non costa nulla. Siccome però Mondadori si assume il rischio d’impresa e anticipa tutte le spese, che non sono poche, vuole scegliersi gli autori che ritiene essere un buon investimento, com’è giusto che sia. Se l’autore in questione garantisce vendite per via della sua notorietà, anche quella di Facebook, è avvantaggiato, al di là dei contenuti che scrive. Questa modalità esclusivamente commerciale di pubblicare libro che hanno certi grossi editori, ha contribuito all’abbassamento generale della qualità letteraria e alla diminuzione di lettori colti, e ha anche contribuito a creare confusione tra editoria vera e pubblicazione a pagamento. Feltrinelli, per esempio, è un editore vero che non fa pagare nulla ai suoi autori per pubblicare un libro, ma ha anche aperto una sezione a pagamento che si chiama Il Mio Libro, riciclando gli “scrittori” rifiutati, dando loro un contentino di sola apparenza e intascando i soldi che la loro vanità li spinge a investire. E così molti hanno speso migliaia di euro per vedere il file della loro copertina online su un sito tanto famoso. È stata anche l’unica soddisfazione che hanno avuto, però: a qualunque lettore esperto, è subito chiara la differenza tra un autore pubblicato davvero da Feltrinelli e uno che sta su “Il mio libro”.
Antonio Tombolini, fondatore di Streetlib aggiunge un’ulteriore allarmante informazione:
“In Italia la media delle rese (libri invenduti) è superiore al 60%: ogni 100 copie stampate, almeno 60 restano invendute. Ed è una media: fatta di alcuni libri, pochissimi, che vendono tutte le copie, e molti libri, moltissimi, che vendono niente o quasi niente.”
Perché questo accada e in che modo l’editoria tradizionale italiana ne sia ammorbata, Tombolini lo spiega molto bene nel seguente articolo.
A questo punto non è il caso di prendersela troppo se un editore non a pagamento rifiuta il libro di un esordiente: al di là del fatto che l’opera non gli piaccia, ci possono essere molti altri motivi. Se però il rifiuto arriva da tutti gli editori veri, forse è il caso di chiedersi se questo libro che si è scritto è proprio indispensabile al mondo e non sia piuttosto la brutta copia di tanti altri che già appestano gli scaffali. Per avere una risposta in tal senso (gli editori veri si limitano a non rispondere quando gli si invia un manoscritto che non interessa), si può fare un semplice test: metterlo in linea gratuitamente su un blog e vedere cosa succede. Il blog, la rivista letteraria, sono i veri ambienti utili per chi vuole diventare uno scrittore.
Se proprio prude il portafoglio si può pubblicizzare il blog o il post affinché raggiunga molte persone, in modo di avere la sicurezza di essere letti da qualcuno in più dei parenti stretti e vedere come va. In ogni caso occorre entrare nell’ordine di idee che oltre a “Il libro” bisognerà scrivere anche altro: l’ultimo che è diventato famoso (ma non ricco) con un singolo libro senza averne scritti almeno altri dieci e senza un blog o una pagina social aggiornata periodicamente, è stato Tomasi di Lampedusa.
Oppure si spedisce l’opera a un agente letterario che per 200 o 300 euro (quindi molto meno della pubblicazione a pagamento di un libro) fa una valutazione diplomatica dello scritto. Perché il vero problema, intorno al quale c’è un silenzio omertoso da parte di tutti, editori a pagamento e furboni che propongono scorciatoie, è che non basta saper scrivere in italiano corretto, così come per essere dei veri musicisti non basta conoscere le basi dell’uso di uno strumento. Non basta neppure scrivere in modo brillante: ci vuole una buona idea e occorre saperla svolgere. E il tutto deve essere ben amalgamato, con esperienza.
In poche, ma fondamentali parole, ci vuole mestiere e il tanto inviso e volutamente ignorato talento. Se non proprio artistico, visti i tempi in cui viviamo, almeno commerciale.