Halloween negli anni ’80, festa in disco con cassa da morto
Negli anni ’80 i Social erano le discoteche, grandi come capannoni industriali. Entrarci significava varcare la soglia di una caverna mitica, l’antro t’inghiottiva e poi precipitavi.
Troppo rumorose per riuscire parlarsi, ti rendevano comunque sordo in pochi minuti. Guardare non si poteva, c’era il fumo spesso del ghiaccio secco attraversato a tradimento dalle luci laser: se alzavi lo sguardo, ti beccavi una flashata e rimanevi cieco fino a quando non ti azzoppavi inciampando in un divanetto.
Come sui social di oggi, anche là certe volte partivano accese discussioni tra gli utenti, ma si svolgevano a colpi di bloccasterzo ed erano moderate dai buttafuori.
Tutto era movimento cedevole e improvviso.
Alle cinque del mattino però, la discoteca chiudeva. Dopo averti sballottato per ore, ti partoriva sputandoti in un mondo freddo e buio con le facoltà di un neonato. Riuscivi solo a gattonare lacrimante in cerca di una brioche appena sfornata.
Io in quei ventri oscuri ci lavoravo saltuariamente. Le cubiste ai tempi esistevano in una forma primitiva: non stavano sui cubi, non erano svestite e si chiamavano go-go girls, termine che nelle discoteche italiane di provincia poteva assumere significati fantasiosi.
Di solito le go-go girls erano pagate per animare le discoteche vuote, ma non funzionava mai. Piombavano in pista come assatanate saltando dappertutto e deliziando il cugino anziano del D.J. ma inibivano le ragazze normali, che finivano per andare altrove.
Alcune di noi go-go-girls erano ballerine più o meno professioniste e spesso avevano l’agente. Gli agenti erano strani personaggi che di giorno lavoravano come postini o infermieri e di sera ti telefonavano apostrofandoti sempre con un ciao bellissima e ti proponevano un ingaggio per una disco di modissima sull’Abetone, dove c’era da fare uno show artistico a cavallo di un toro meccanico in costume da bagno ricoperta di salsicce e crauti.
Dopo qualche fregatura mi ero fatta furba e avevo selezionato alcune discoteche comode tra il Veneto e l’Emilia: posti solitamente deserti che raggiungevo con la mia Cinquecento in poco tempo, dove potevo ballare vestita come volevo, e la regola delle tre uscite da quindici minuti era rispettata.
Nell’inverno 1987, il sabato sera di solito dormivo tutto il pomeriggio, poi caricavo in auto le scarpe da danza, gli scaldamuscoli, i pattini a rotelle e la mia amica Bubi. Arrivavamo al Black Panther di Teolo in venti minuti e c’infilavamo in camerino, dove c’erano sempre bevande e snack ad aspettarci.
Alla sigla d’apertura entravamo in azione: Bubi faceva spaccate sul palchetto mentre io giravo la pista deserta in pattini a rotelle, facendo roteare il bicchiere pieno di succo di frutta.
Il pubblico, costituito prevalentemente dai baristi e dagli amici del D.J., ci guardava fumando Marlboro rosse.
Tornavamo in camerino fino all’uscita successiva. Bubi passava il tempo allenandosi a fare la verticale e io studiavo per l’esame di Fisiologia. Più che altro sottolineavo il libro col pennarello fosforescente, perché la musica era tanto alta.
La seconda uscita era a mezzanotte e l’ultima a mezzanotte e cinquanta. All’una e un quarto passavamo dalla cassa e intascavamo centocinquantamila lire a testa. Alle due, ero già tornata a dormire.
Oggi sarebbe inconcepibile, ma erano gli anni ’80 e la vita aveva altri profumi e dimensioni.
Quando mi telefonò il P.R. di una famosa discoteca di Chioggia per la festa di Halloween 1988, dicendo che voleva una coreografia per l’apertura della serata a tema “Streghe & Zombie”, giudicai l’offerta interessante, tenendo anche conto che avrei dovuto ballare per soli cinque minuti e sarei stata pagata doppio.
Quella volta non avrei potuto portarmi Bubi, che era in grado di bere venti cocktails e guidare nella nebbia del ritorno con la sicurezza di un camionista consumato. Ci sarebbe stata in pista un’altra ballerina, in arrivo direttamente dal Bolshoi.
Anche questo, ai tempi, ci poteva stare.
Il P.R. volle incontrami, assieme alla staff. Erano tutti ragazzi che di giorno facevano gli imprenditori del pellame e viaggiavano in Mercedes. Avevano appena comprato la discoteca e volevano avviarla per bene. Per la serata di Halloween era stato ingaggiato uno dei D.J. più famosi d’Italia.
Mi portarono nella loro azienda dove la sarta, che solitamente confezionava giubbotti, mi prese le misure per un costume da strega-zombie tutto di pelle nera. Dopo passammo da un fabbricante di scarpe del Brenta che prese a sua volta le misure per costruire un paio di scarpe col tacco alto che mi consentissero di ballare senza incidenti. Erano iridescenti e avevano degli speroni luminosi. Non ho mai più visto un paio di scarpe così.
Quando fu la volta del parrucchiere per lo studio dell’acconciatura, si era oramai formato un codazzo di ragazzini che ci seguivano in motorino: io e l’altra ballerina giravamo per la provincia veneziana salendo e scendendo da un’auto costosissima.
La mia collega forse non arrivava proprio dal Bolshoi, ma era sicuramente molto esotica: alta, bionda e bella in modo impressionante. Non parlava una parola d’italiano e taceva pensierosa.
Il P.R. era un ragazzo con il Rolex, ma aveva l’attitudine pratica e lavoratrice dei veneti. Mentre ci accompagnava a destra e a manca dando ordini precisi, mi disse che assieme al suo staff si erano immaginati un’apertura di serata con della musica elettronica, mistica e spaventosa. La pista sarebbe stata sgombrata e chiusa con dei cordoni, così che noi avessimo lo spazio per ballare. Il tecnico luci era uno in gamba e avrebbe fatto una cosa parecchio impressionante. Loro stavano pensando di mettere tipo due bare in pista e farci uscire da lì, con dei tizi vestiti da becchini che aprivano il coperchio.
Alla mia collega l’idea non piacque molto, ma io la trovai assolutamente azzeccata.
Quando arrivò il giorno di Halloween i preparativi iniziarono già dal pomeriggio. Il parrucchiere usò una piastra sui miei capelli rendendoli crespissimi: sembravo uno di quei cartoni animati che hanno messo le dita in una presa di corrente. La pettinatura mi durò per tutta la settimana successiva.
Completamente agghindate, fummo trasportate in gran segreto nel camerino della discoteca dove avremmo atteso il momento dell’inizio. Si prevedeva un pienone e potevamo sentire il frastuono roboante dei clienti che stavano affollando la sala.
Nel camerino c’era un viavai di amici dell’organizzatore che passavano a salutarci. Indossavano costumi in tema con la serata e ci portavano cocktails verdi e fumanti che sembravano pozioni.
Stavo attaccando il mio secondo drink con la fettina di limone scolpita a forma di teschietto, quando arrivarono quattro ragazzi travestiti da becchini che trasportavano due casse da morto. Le posarono in camerino con facce entusiaste:
– Sono vere! –
Guardai le casse da morto: erano di legno chiaro e sembravano appena sbozzate dal falegname, senza rifiniture. Mi parevano piccole rispetto alle bare che avevo visto ai funerali, ed erano piene di graffi e ammaccature.
– Lui lavora sulle ambulanze! – Disse uno dei quattro, sempre entusiasta – Vi mettiamo dentro, chiudiamo il coperchio, vi portiamo giù dalle scale e vi posiamo in pista. Poi apriamo il coperchio e il D.J. fa partire la sigla! Voi uscite e cominciate a ballare! –
Erano ragazzi grandi e grossi, già completamente ubriachi. Scoperchiarono le bare e si misero in posizione, pronti per il trasporto.
La mia collega lanciò un grido e si accasciò facendosi segni della croce e mormorando preghiere. I ragazzi la fissarono ancora sorridenti, senza capire.
L’interno delle bare era rivestito di raso rosa: lo si poteva capire guardando attentamente tra le macchie scolorite di sangue rappreso che ricoprivano la stoffa. Ce n’erano persino sull’imbottitura interna del coperchio.
Con grande delusione dei ragazzi, la mia collega rifiutò di entrare nella sua bara. Cercarono di blandirla e ottennero un attacco isterico: si strappò il costume di dosso e scappò dal camerino prendendo la prima porta. Uscì direttamente sulla pista, dov’era già accesso l’occhio di bue e il resto della sala era al buio. Attraversò la pista di corsa, truccata da zombie e con i capelli dritti sulla testa tenuti da una lacca che imitava le ragnatele. Creò così un involontario, genuinamente spaventoso, inizio di spettacolo. La sentimmo gridare dal camerino, nel silenzio stupito della sala gremita.
Quanto a me, guardai le facce mortificate dei ragazzi e pensai che quella era forse la mia unica occasione di scoprire come ci si sentiva a stare dentro una vera cassa da morto, da vivi. Ero giovane, e poi erano sempre gli anni ’80: essere originali era fico ed essere superstiziosi era da sempliciotti. C’era anche un altro motivo: anche se lì nessuno lo sapeva, ad Halloween io compio gli anni. C’è tanta gente che cerca di fare cose speciali per il suo compleanno. Io stavo per farne una che le avrebbe battute tutte, anche nei secoli a venire.
Mi sdraiai nella bara. Che stessi pure rischiando di prendere un’infezione mortale, mi sovvenne soltanto giorni dopo.
Una volta lì dentro, con le braccia premute contro i fianchi a fissare tutti dal pavimento, forse feci una faccia strana o forse i ragazzi si resero conto all’improvviso della scena che avevano preparato: smisero di sorridere e chiusero la bara delicatamente:
– Sono solo sette scalini, appena ti appoggiamo sul pavimento della pista togliamo il coperchio! – Gridò uno, ma già lo sentivo molto ovattato.
– Trattieni il fiato! –
Io avevo osservato attentamente il raso dell’imbottitura del coperchio avvicinarsi alla mia faccia e poi avevo tenuto gli occhi aperti nel buio. Sentii oscillare la cassa quando la sollevarono, la strana sensazione di essere totalmente in balia di altre persone e di appartenere già in qualche modo a una dimensione remota e senza tempo.
Infine la cassa smise di ondeggiare e cozzò leggermente contro il pavimento di vetro della discoteca. Il coperchio fu sollevato e poggiato di lato, nel silenzio bisbigliante della sala.
Fui subito accecata dalle luci fortissime del soffitto. C’era fumo e faceva molto freddo.
Partì una musica elettronica stridente e agghiacciante e per parecchi secondi non fui in grado di muovermi. Cercai di concentrarmi sul fatto che dovevo lavorare, ma continuavo a fissare la luce, intorpidita.
Infine, con uno sforzo di volontà sollevai il busto di scatto, portandomi in posizione seduta nella bara con le braccia ancora rigide lungo i fianchi. Potenza degli addominali dei tempi andati e dell’adrenalina, fu una mossa fulminea, quasi disumana.
Forse fu quel movimento brusco, forse la mia faccia stranita, pallida di suo, truccata di pallore e contornata dai capelli da folle; forse fu il terribile tuono che il D.J. sganciò in quel momento esatto: centinaia di scheletri, streghe e vampiri che si erano accalcati a bordo pista per guardare dentro la bara, arretrarono istintivamente di un passo, colti di sorpresa.
Io uscii dalla bara tremante, per il freddo e per lo stato emotivo in cui mi trovavo. Ero rigida e questo contribuì a dare alle mie movenze il giusto stile disarticolato.
Misi in scena una delle mie esibizioni migliori: il pubblico rimase a fissarmi senza fiatare, arretrando ancora quando mi avvicinavo. Per qualche minuto imprigionai tutti in una cappa di paura.
In seguito dissero che il truccatore aveva fatto un gran lavoro perché sembravo davvero una morta vivente.
Alla fine del breve balletto il D.J fece crepitare un fulmine assordante, la sala piombò nel buio e io ebbi giusto il tempo di sparire tornando in camerino, prima che partisse la scaletta di musica “normale”.
Gli organizzatori mi raggiunsero per congratularsi, felici e saltellanti. Fui invitata come ospite d’onore a passare il resto della serata al tavolo V.I.P.
Di solito rifiutavo quel genere di inviti perché il frastuono della discoteca dopo un’ora mi diventa insopportabile se non posso ballare e devo stare seduta cercando di urlare qualcosa ai vicini. Ma quella volta sentivo il bisogno di stare un po’ in compagnia e accettai.
Attraversai la sala gremita di ragazzi in costume che mi fissavano incuriositi. Si scostavano al mio passaggio e una volta che fui seduta tutti si tennero a distanza. Rimasi sola al tavolino.
Scolai subito qualcosa cercando di scaldarmi perché avevo freddo. Così freddo che, forse complice anche l’alcool, il pensiero mi andò alla bara come unico nido raccolto e silenzioso dove avrei voluto rifugiarmi. Mi sentivo senza pelle.
Dopo un po’ chiesi di poter andare a casa e chiamarono un taxi.
Fu comunque una mega festa, quella di Halloween a Chioggia, nel 1988. Chissà se chi aveva occupato la bara prima di me aveva pensato di venirci. Chissà a chi è toccata subito dopo, e se a quella festa magari c’era stato, per poi infilare una curva sbagliata a tutta la velocità dei vent’anni.
Chissà se un giorno ci incontreremo, ragazzi.
Intanto, buona festa di Halloween anche a voi.
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Ho cercato un filmato che mostrasse qualche mitica sigla d’apertura delle discoteche degli anni ’80, ma non sono riuscita a trovare nulla. Forse perché nessuno filmava e pochi fotografavano.
Questo è ciò che ho scovato di più simile all’atmosfera di quella sera:
Ivo
Halloween secondo il mio gatto
Moana Pozzi e il pornosabato dell’Harmony. Anno 1992
Libri di Loredana de Michelis su Amazon
Il film si intitola Isabella ( a Chioggia ne sono stati girati molti altri, più famosi) è di Pino Passalacqua, del 1989. È molto misterioso e soprattutto pieno di acqua, nebbia e oscurità fumose tra le calli. Molto scary.
Vero, ci girarono anche un film horror anni fa.
Chioggia is still pretty scary at night, not just at Halloween!