Moana Pozzi e il pornosabato del Luxury. Anno 1992
Erano duri i tempi d’inverno, laggiù nella provincia ferrarese. Gli agricoltori finivano di sistemare i campi e poi entravano in letargo, arrendendosi al buio e alla noia fino a primavera.
Per mesi la vita rimaneva sospesa e priva di calore tranne il sabato sera, quando si accendevano le luci da luna park abbandonato del Luxury. Aveva un’insegna così grande che la vedevi a cento metri anche nella nebbia più fitta, quella che t’impedisce di distinguere il muso della tua auto. Era verso quella luce insperata che molti avventori si dirigevano dopo essersi perduti per ore lungo le stradine degli argini, che portavano tutte invariabilmente a un altro argine ma se non vedevi la curva, anche dritto nel canale.
Al Luxury si ballava il liscio e d’estate c’era il pienone di belle coppie attempate. D’inverno però la gente da fuori faticava a raggiungere il posto senza incidenti. Gli agricoltori affollavano il ristorante dove notoriamente si mangiava bene e abbondante, ma poi, poco avvezzi all’esibizione di se stessi, imbolsiti dal vino e fiaccati dall’umidità, tendevano ad addormentarsi sulle poltroncine e a svegliarsi all’ora di chiusura. Le dame scarseggiavano.
La proprietaria del Luxury era una sana e vivace signora in salsicciotto nero e coscia in offerta. Il suo fidanzato era un D.J quarantenne sempre nervoso, infatti in seguito era stato sostituito. Quell’anno però lui l’aveva convinta a trasformare la balera in una discoteca. Per l’animazione si erano rivolti a un agente di spettacolo che visitò il locale con le grandi piste da ballo di vetro luminoso e capì che non sarebbe stato facile. Chiamò me e Bubi, che al costo contenuto di due sole ballerine garantivamo un certo movimento: Bubi perché correva come un’indemoniata e faceva spaccate e salti mortali da ginnasta alle olimpiadi, io perché pattinavo e potevo coprire velocemente molto spazio. Più la pista era vuota e più io e Bubi ci divertivamo trasformandola in un circo.
Ricordo lunghi viaggi notturni nell’auto surriscaldata ad ascoltare orribile disco music e a spettegolare con Bubi che aveva il viso ricoperto di stelline adesive ed emanava un forte profumo di lacca per capelli. Lei passava a prendermi a casa in minigonna e maglietta infeltrita, rossetto arancione sbavato, capelli straziati. Non portava mai calze né cappotto. Indossava sempre scarpe col tacco altissimo, che solitamente erano dello stesso colore del suo smalto: blu o verde metallizzato.
Le mie compagne di appartamento studentesco non saranno le uniche ad avere un chiaro ricordo di Bubi: i camionisti dell’autostrada Venezia – Bologna, dal loro posto di guida in alto, si imbizzarrivano ai sorpassi vedendo la sua scollatura e le sue gambe in un colpo solo.
Arrivavamo al Luxury alle otto di sera, ed era deserto. La proprietaria ci accoglieva come fossimo di famiglia, chiedendoci sempre se avevamo mangiato.
Ci cambiavamo in camerino, dove io impilavo i libri da sottolineare durante le pause e Bubi allestiva una S.P.A di cosmetici e bevande energetiche.
Infilavamo tute da danza luccicanti e ci buttavamo in pista.
Io per prima cosa controllavo minuziosamente il pavimento in cerca di mozziconi e altri oggetti che rischiavano di inchiodarmi i pattini. Iniziavo poi i miei volteggi limitati, con la cicca tra le labbra e un bicchiere pieno di succo di frutta che lanciavo per aria senza spanderne una goccia: l’avevo visto fare in televisione e non so perché mi riuscisse tanto bene.
Assorbita dalle mie evoluzioni passavo così la serata, dribblando chiunque cercasse di avvicinarmi.
Bubi invece era più socievole: andava a salutare i pochi clienti, spesso sempre gli stessi, e sedeva al loro tavolo dove arrivava immancabilmente una bottiglia di spumante nel secchiello, quasi come a Montecarlo. Se la compagnia prometteva bene, mi lasciava sola ad andare avanti e indietro sulla pista, mentre lei si dedicava a una delle sue attività preferite: trovare un cliente calvo, spruzzargli del profumo sulla testa e dare fuoco al liquido con l’accendino. Quando durante i miei passaggi rapidi scorgevo fiammelle ondeggiare sul cranio di qualcuno, sapevo che tutto procedeva regolare.
Tornavamo a casa verso le quattro del mattino dopo avere attraversato cento chilometri di nebbia densa come panna.
Non credo che sia stato a causa di quella volta in cui Bubi esagerò, facendo spuntare delle vesciche sulla testa di un cliente. Il fatto era che il Luxury, nonostante il passaggio a discoteca e le due ballerine come attrazione, continuava a rimanere deserto. Così ci lasciarono a casa dicendo che ci avrebbero richiamato più avanti.
Due settimane dopo arrivò una telefonata entusiasta: dovevamo andare, il programma al Luxury era cambiato, progetto nuovo, roba forte. Ora il sabato sera c’era uno spettacolo e prima c’era il cenone al ristorante. Dovevamo arrivare per le sette: avremmo fatto le cameriere sui pattini e poi saremmo passate alla discoteca, dove avremmo ballato uno stacchetto introduttivo allo spettacolo che iniziava alle undici.
Non ci dissero che tipo di spettacoli avessero inserito nel programma e noi non lo chiedemmo. Quando arrivammo al Luxury quel sabato sera c’erano già decine di automobili nel parcheggio. C’era anche una nuova insegna che lampeggiava, con il nome di Moana Pozzi.
– Caaazzo! – Disse Bubi.
Io non ricordavo chi fosse e lei sollevò gli occhi al cielo. Poi entrammo nel ristorante dove la proprietaria e il D.J. erano elettrizzati e correvano dappertutto lanciando ordini in cucina. Lì ci fecero cambiare e infilare i pattini, prima di consegnarci il menù rilegato in finta pelle e avvisarci che i funghi erano già finiti.
Fasciata in una tuta aderente color fucsia, pattinai in direzione di un tavolo e notai che un paio di brocche di vino erano già state scolate. Il mio primo cliente mi osservò con occhi arrossati e disse: – Vè bimba, il sesso dopo: adesso voglio mangiare. Chiama un po’ una cameriera, che il risotto io lo voglio al dente. –
Il risotto al brasato era una specialità: ce ne fecero assaggiare un po’ mentre ci raccontavano che Moana Pozzi era già arrivata, con quattro guardie del corpo grosse come armadi. Non aveva voluto mangiare niente e si era chiusa in camerino con tre bottiglie di acqua minerale naturale.
Visto che la trovata delle cameriere in pattini e tutina non sembrava funzionare e tutti volevano essere serviti dalla proprietaria, ci spedirono in camerino in attesa di fare il nostro balletto introduttivo di cinque minuti allo spettacolo di Moana Pozzi. Lei lo aveva approvato.
Attraversando il parcheggio per entrare nella discoteca vidi due volanti dei carabinieri parcheggiate con il lampeggiante acceso. – Sono per la sicurezza – ci spiegarono – Se li chiamiamo noi arrivano due sbarbati, ma stasera sono venuti i raccomandati a godersi lo spettacolo, vè! -.
Fuori dal camerino c’era una guardia del corpo. Gran bell’uomo. Ci fissò con cattiveria, ma poi ci fece passare. Moana sedeva languidamente su un divanetto macchiato e beveva acqua minerale. Ci osservò con curiosità.
– Siete quelle del balletto? Carine, siete. Com’è che vi chiamate? –
Aveva un forte accento romanesco ed era molto bella. Alta, ben fatta, sembrava perfettamente a suo agio e per nulla volgare. Avrebbe potuto fare tranquillamente la modella, mi dissi, in uno sboccio di moralismo inutile.
– Di che segno siete? –
Valutai se mentire: di solito quando dico che sono dello Scorpione partono illazioni che non sopporto.
– E l’ascendente lo sai? –
Non lo sapevo. Bubi, che nel futuro, dopo una laurea presa a pieni voti, si sarebbe dedicata all’astrologia, alzò gli occhi al cielo un’altra volta.
– Potrebbe esse’ che ce l’hai ‘n Capricorno: sei una che osserva. Dello scorpione c’hai la pericolosità, l’ho sentito subbito. -.
In seguito chiesi a Bubi di calcolarmi l’ascendente, per curiosità: è effettivamente Capricorno. Bubi disse che comunque era facile da indovinare perché ho proprio la faccia di uno Scorpione ascendente Capricorno.
Intanto la sala si stava riempiendo e il pubblico iniziava ad agitarsi. Moana disse: – Facciamoli scaldare ancora un po’ – e ci offerse dell’acqua minerale dicendo che dovevamo berne tanta, che disintossica.
Quando iniziarono a spaccare bottiglie e a urlare il nome di Moana, il D.J. si rivolse agitato alla guardia del corpo, che non lo faceva entrare in camerino. La guardia del corpo infilò la testa nella porta, ci puntò contro due dita e fece un cenno per farci capire che toccava a noi. Moana ci fece ciao con la mano: – In bocca al lupo bellezze, ci vediamo dopo. Rimanete per il mio spettacolo, vero? -.
Uscimmo sulla pista piccola e ci trovammo in mezzo a una folla inferocita, in piedi su tavoli e divanetti. Si zittirono, ma non era un silenzio amichevole e faceva paura. Attaccammo a ballare su una musichetta e mi sentii davvero tanto ridicola. Dopo i primi secondi di incertezza il pubblico iniziò a prenderci a male parole e a lanciare bottiglie. Le guardie del corpo di Moana si intromisero facendoci da scudo per rientrare in camerino.
Moana sorrideva: – Finisco l’acqua. Digli che comincio tra dieci minuti -.
Chiedemmo di poter assistere allo spettacolo. Ancora in costume, attraversammo gobbe la folla e andammo a sederci nella “tribuna vip”, quella dove stavano il sindaco del paese, i carabinieri e tutte le altre autorità. A noi non fece caso nessuno: tutti avevano lo sguardo fisso sulla pista in attesa che arrivasse lei.
Uscì all’improvviso, senza presentazione, con un microfono in mano e un vestito lungo blu notte da diva degli anni ’50. In sala scese il silenzio di botto.
Si comportava come se fosse stata sola in una stanza: non guardò nessuno e si mise a cantare una canzone noiosa in playback. La voce registrata era la sua ed era abbastanza stonata. Finita la canzone si diresse di nuovo verso il camerino, con migliaia di occhi infilzati nella schiena. La guardia scostò la tenda per farla passare e la richiuse. Poi, gambe larghe e braccia conserte, fissò di rimando il pubblico con sguardo di pietra.
Restammo tutti lì a guardare la tenda come babbei.
Alla seconda uscita Moana si presentò con il microfono e un completo intimo rosso molto succinto. Cantò un’altra canzone stonata, questa volta muovendosi un po’ di più e avvicinandosi un po’ di più al pubblico. Sorrideva a quelli che si tuffavano di pancia sulla pista ed erano prontamente ripescati dalle sue guardie, che li prendevano per i vestiti e li ributtavano indietro come sacchi.
Cinque minuti, ed era di nuovo sparita dietro la tenda.
Qualcuno iniziò a rumoreggiare.
Portarono in pista una grande mano di plastica che formava una specie di trono con lo schienale alto e il palmo a fare da seduta. Questa volta Moana uscì completamente nuda, con soltanto un collier e il microfono. La sala esplose.
Prese a camminare lentamente a bordo pista sorridendo e guardando il pubblico. La gente si buttava per toccarla mentre passava. Lei continuava a passeggiare, sembrava non accorgersi delle zampe voraci che le artigliavano le gambe cercando di risalire lungo le sue cosce. Le guardie intervenivano solo se qualcuno si metteva in piedi sulla pista, ma molti strisciavano a quattro zampe seguendola.
Io osservavo le facce stravolte di questi uomini che si calpestavano per arrivare a toccarla, lasciandole i segni delle unghie sulla pelle. Lei continuava a camminare e a sorridere. Solo quando uno le graffiò l’interno di una gamba fino a farla sanguinare interruppe la camminata e si girò a guardarlo senza cambiare espressione. Gli sussurrò al microfono: – Guarda che se fai il cattivo ti apro i pantaloni e ti tiro fuori il pisellino. E scommetto che ce l’hai moscio. – .
Moana si diresse infine alla sedia-mano di plastica rosa. Lì si accomodò spalancando le braccia e consegnandosi al pubblico. Le guardie lasciarono che la gente invadesse la pista per toccarla, scaraventando via soltanto quelli troppo violenti e agitati.
Centinaia di mani si precipitarono ad abbrancare il suo corpo, strizzando e graffiando tutto quello che riuscivano a raggiungere, alla cieca, tra urla e grugniti selvaggi. Sembrava che le volessero strappare la carne dalle ossa. Non ho mai visto niente di più folle, violento e spaventoso, senza alcuna ombra di erotismo o qualunque altra cosa che mi pare possa avere a che fare con il sesso. Quella era ferocia cannibalesca, e lei la tollerava con un sorriso benevolo e assente, senza fare una piega.
Durò pochi minuti, poi le guardie, questa volta tutte insieme e non senza fatica, iniziarono a liberarla in malo modo dalla gente che le stava addosso. Lei era ricoperta di lividi e graffi che sanguinavano. Si alzò dalla sedia e si diresse elegantemente in camerino senza voltarsi. Il pubblico stette in ansiosa attesa altri minuti, finché capì da solo che lo spettacolo era finito.
Si accesero le luci. Io e Bubi, con gli occhi fuori dalla testa, realizzammo di essere le uniche donne presenti in sala. Alcuni zombie si stavano già girando verso di noi, inquadrandoci. Valutai se attraversare la pista di corsa e rifugiarmi in camerino, ma il bodyguard, braccia conserte davanti alla tenda, non mosse un muscolo: il suo lavoro era finito e il resto erano affari miei.
Si precipitò in pista il D.J., preoccupato per quel poco di mobilio che era rimasto intero, e si mise a battere le mani come per scacciare i piccioni: – Via! Via! Andate fuori, lo spettacolo è finito, grazie! –
La folla cominciò lentamente a dirigersi verso l’uscita.
Io ero ancora seduta, incastrata nel divanetto. Per la prima volta osai guardare l’uomo che avevo seduto a fianco, che aveva la gamba premuta contro la mia. Era un signore di mezza età, con una grossa pancia. In sala faceva molto caldo e la sua giacca aveva degli aloni scuri sotto le ascelle. Con le occhiaie punteggiate di perle di sudore, stava ancora fissando il punto in cui Moana era sparita.
Sentendosi osservato girò lentamente la testa verso di me e mi posò addosso uno sguardo allucinato. Forse vide la mia paura da gatto intrappolato pronto a difendersi a costo della vita, perché dopo qualche secondo cambiò espressione e cercò di sorridermi, mentre alcune gocce di sudore gli scendevano lungo il viso come lacrime.
Fece un cenno vago verso la pista e disse: – Sì, bon… il shessho… bello, per carità. Però, dico io: mo’ quanto è bello anche parlaare! –
Finalmente potemmo raggiungere il camerino per cambiarci. Moana si era messa un abito da sera azzurro e beveva acqua minerale, comoda sul divanetto. Aveva un profumo dolce, che impregnava l’aria. Ci chiese se ci era piaciuto lo spettacolo e sorrise quando vide che non sapevamo bene come rispondere.
Un imprenditore locale le fece portare una bottiglia di champagne e un messaggio nel quale le chiedeva di passare la notte con lui, offrendo cinque milioni. Lei rifiutò annoiata e ci regalò la bottiglia di champagne, che bevemmo nella nebbia del ritorno.
Quando ce ne andammo era ancora semi sdraiata sul divanetto che sistemava le grinze del vestito. Il D.J. era corso a dirle che non riuscivano a mandare via la gente dal piazzale: aspettavano che lei uscisse, nella speranza di vederla un’ultima volta.
Lei aveva sorriso ancora, e con il flûte di acqua minerale tra le dita aveva risposto: – Allora chiamate la polizia, che mi scorti fino all’autostrada. Tanto, va sempre a finire così. –
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