Le poche e terribili cose che mi raccontò un soldato americano su Nāṣiriya
Nel 2007 mi ero iscritta a un sito appena nato, che consentiva uno scambio di ospitalità tra viaggiatori. L’avevano ideato dei surfisti californiani e per i primi tempi funzionò in modo entusiasmante.
Attraverso quel sito incontrai decine di viaggiatori che avevano bellissime storie da raccontare. Ospitai una coppia che tornava in bici dall’Africa dopo un tour di sei mesi. Mi scrissero: “Siamo in Slovenia, contiamo di arrivare domani nel pomeriggio” e arrivarono, pedalando sulle statali con le bici e il laptop distrutti, un bagaglio minuscolo e gambe muscolosissime.
Ospitai un giovane regista francese, una ricercatrice colombiana, due giornaliste turche che dirigevano un’emittente radiofonica femminista con sede in Ucraina, un cuoco che aveva girato davvero tutto il mondo, un marine in congedo che viveva alle Hawaii portando turisti giapponesi a vedere i delfini. Misi a disposizione la mia lavatrice per un camperista body builder che viaggiava col suo bulldog: parcheggiò sotto casa mia, sguinzagliò il cane che fu libero di farmi una doccia di effusioni, e mi raccontò un po’ della sua vita mentre faceva il bucato. Poi ripartì.
Con molti di questi miei ex ospiti sono in contatto ancora oggi.
Un giorno mi scrisse un americano: sembrava avere scambiato quel sito per uno di incontri. Mi faceva i complimenti per il mio aspetto, mi comunicava spiccio che aveva prenotato il migliore hotel di Padova, che non badava a spese e voleva conoscermi. Non gli interessavano i monumenti, nella misura in cui sarebbero stati ancora lì dopo la sua morte.
Quest’ultima frase mi aveva incuriosito e prima di eliminare il messaggio andai a guardare il suo profilo: sembrava un militare di stanza in Iraq. Pensai che tutto sommato poteva essere una fonte di informazioni interessanti, così decisi di rispondergli, specificando che ero disponibile a incontrarlo solo per un caffè. Replicò che lui beveva soltanto birra e che così ci saremmo annoiati, a meno che io non giocassi a Domino.
Ci trovammo in un bar del centro, lui già alla terza birra e con il Domino in tasca, io già infastidita.
Era un uomo di più di 40 anni, alto e muscoloso, con le mascelle squadrate e gli occhi stretti. Il prototipo del soldato, insomma. Mi colpì il colore bruciato della sua pelle, in origine chiara, solcata da rughe profonde. Non era l’abbronzatura di chi vive in luoghi caldi, piuttosto l’aspetto di chi ha appena attraversato un deserto a piedi.
Originario del Kansas, nato in uno di quei posti dove la prima civiltà la trovi in un distributore a 50 miglia di strada tra campi di pannocchie, era davvero un militare di professione, da cinque anni in Iraq. Si scusò vagamente per i suoi modi asciutti: non era abituato a quella mondanità di cui io ero certamente schiava, lui aveva solo qualche settimana di licenza ogni cento giorni di servizio. Si sentiva un po’ fuori luogo in questa Italia piena di lussi da signorine, ma aveva deciso di visitarla perché non c’era mai stato.
Prima che riuscissi ad approfondire la conversazione, tirò fuori le tesserine del Domino con lo sguardo eccitato del ludopatico e volle giocare. Mi disse che il Domino era il gioco con cui passava il suo tempo libero nell’accampamento assieme ai commilitoni, e che là c’era gente che scommetteva migliaia di dollari a partita.
Non mi restò che immolarmi sull’altare della competitività: un giocatore professionista di Domino non l’avevo ancora mai sfidato.
Alla seconda partita capii che non stava bluffando e che giocava veramente come un bambino di sette anni. Vinsi tutte le partite, che non furono molte perché vedendosi battuto fu colto da una forte rabbia che dominava a stento e che mi spaventò, nonostante in genere io non sia particolarmente impressionabile dai comportamenti bizzarri altrui. All’improvviso volle muoversi e capivo che stava cercando di farsi passare quell’attacco, che da rabbia sembrava essersi trasformato in pura adrenalina. Ubriaco non era: si muoveva in modo sciolto e apparentemente rilassato, ma era velocissimo e stentavo a stargli dietro. Camminava tenendo le braccia leggermente staccate dal busto e le mani penzolanti e aperte.
Lo tenni a passeggiare per il centro e non sapendo più di cosa parlare a un certo punto gli chiesi a bruciapelo se si trovava in Iraq durante la strage di Nāṣiriya del 2003, in cui erano morti tanti soldati italiani.
– Sì, siamo arrivati subito con il carro armato. – Disse continuando a guardare avanti e a camminare muovendo leggermente la testa a destra e a sinistra – C’erano organi interni sparpagliati per centinaia di metri. Mi è dispiaciuto molto per gli italiani, erano bravi ragazzi. Quella strada è una merda, tutta dritta, non si può chiudere. Tutte le strade lì sono una merda. La parte più pericolosa sono gli spostamenti andata e ritorno dalla base. Anche quando sono saltati sulla mina, io ero due carri armati indietro nella colonna. Quando siamo in trasferimento… sudano tutti come maiali nel tank, non parla nessuno. Ogni giorno, andata e ritorno… te lo chiedi sempre se oggi tocca a te.-
Passò qualche lunghissimo momento di silenzio e poi lui iniziò a descrivere scene brevi e scollegate, come fotografie: la luce verdastra dei monitor dei computer per scrivere ai famigliari nei pochi minuti di collegamento concesso, gli spaghetti bolliti a fine turno, le poche ore di sonno, le inferriate della base di distaccamento, la tensione sospesa delle strade deserte che la circondano. Era estate, ma il centro storico di Padova mi sembrò improvvisamente invaso da un vento rosso e freddo, mentre i palazzi eleganti effettivamente risultavano un po’ vacui e ridicoli, nelle loro ossessive rifiniture. Cento giorni così, senza intervalli. Poi tre settimane via da lì. Poi altri cento giorni.
Sulla sua vita in generale emerse l’affresco di un’esistenza senza molti sbocchi: “in Kansas o fai l’agricoltore o il poliziotto”. Cresciuto con il sogno di andarsene e di fare i soldi, guadagnava circa 100.000 dollari l’anno facendo il militare in zone ad alto rischio, contro i 30.000 di un agente di contea nel suo stato. Aveva due ex mogli sudamericane sposate in fretta alcolica e ora a caccia di alimenti, e alcuni figli in fotografia che non rispondevano alle sue email.
– Sai come muore la maggior parte dei militari distaccati in questi posti? Non in combattimento, ma sparandosi a vicenda per litigi banali. Poi li fanno passare come eroi di guerra, ma era una rissa tra ubriachi. Troppo stress. Non possiamo neppure andare a mangiare qualcosa in paese: appena entriamo in un locale scappano tutti perché hanno paura di un attacco. Siamo dei bersagli, ma alla gente i governanti raccontano quello che gli pare. Quando arrivano le mogli dei comandanti vogliono andare a fare shopping e bisogna disporre il percorso e piazzare i cecchini, solo perché ‘ste sceme possano comprarsi il souvenir e mostrarlo alle amiche. E quelli invece ti mandano contro i bambini pieni di tritolo. È un mondo di pazzi. –
Iniziai a sentirmi un po’ in colpa per averlo indotto a parlare di argomenti così drammatici, ma non mostrava altri interessi e non aveva neppure chiesto nulla su di me. Sembrava molto arrabbiato con il suo governo, che per motivi che non mi aveva veramente spiegato gli aveva negato avanzamenti di carriera e che lo lasciava, a più di quarant’anni, a fare una vita a dir poco logorante per un compenso inferiore a quello di un manager di Mac Donald.
– C’è un cane, da noi, che chiamavamo Jack. Gli abbiamo dato un po’ di cioccolata una volta, allora tornava sempre. Poi c’è stato un attacco e non l’abbiamo più visto. Pensavamo che fosse morto nell’esplosione e invece dopo un po’ è ricomparso, così adesso lo chiamiamo Immortal Jack. I cani da quelle parti sono veramente furbi, non sono come quelli che avete qua.-
Il pomeriggio finì e non me la sentivo di lasciarlo solo, nella città di un Paese che non aveva mai visitato e che non guardava, dove comprava cose a caso per il gusto di spendere i suoi famosi soldi. Così accettai un invito a cena. Lo portai in un bel ristorante, a mangiare degli spaghetti cucinati da veri italiani, con un sugo al limone, cosa che gli sembrò stranissima. Mi vestii bene e cercai di mettere in scena quello che lui diceva di volere: una sera elegante nel mondo degli stucchevoli, con una bella donna colta e raffinata. Ma la verità è che non riusciva a starci dentro: bevve il vino, lo finì e ordinò una birra. Mi sorrise piacione, ma aveva gli occhi rossi e si lasciò riportare in albergo presto senza protestare. Era stanco e profondamente triste.
Io ero scombussolata dalla giornata e dopo averlo lasciato in albergo andai a una festa piena di gente giovane e istruita. Cercai di raccontare, di confrontarmi, avevo bisogno di parlare e di avere un ritorno di pensiero e/o di conoscenza da parte di qualcuno. Ottenni solo silenzi imbarazzati, gente che svicolava, sguardi straniti. Non ho mai capito perché.
I Social non esistevano ancora, ma alcune delle persone che reagirono in quel modo, oggi scrivono con enfasi da boomer frasi di condanna e appelli sperticati, grondando moralismo totalitario nei confronti di situazioni e persone di cui non hanno alcuna conoscenza e neppure curiosità, solo certezze inventate.
Il soldato del Kansas, dopo un silenzio di anni e la convinzione da parte mia di avergli lasciato l’impressione di una persona decisamente curiosa ma non proprio affettuosa, mi ha ritrovato su Facebook e mi ha chiesto l’amicizia, ringraziandomi per la giornata che lui dice essere stata una delle poche di vera vacanza in un periodo difficile della sua vita. Si ricordava ancora del ristorante e della piazza piena di luci. Non mi aveva ancora perdonato per averlo battuto a Domino. In un lungo messaggio mi ha raccontato di avere incontrato una donna qualche anno fa, una giornalista americana conosciuta in Iraq. Di avere deciso, grazie al suo aiuto, di congedarsi e di entrare in un programma di aiuto psicologico per reduci. Ora vive con lei in una bella casa con giardino negli Stati Uniti e le sue fotografie mostrano una persona serena circondata da affetto, anche se a leggere ciò che scrive è ancora molto polemico con il suo governo.
Di tanto in tanto vedo il suo nome comparire tra le mie notifiche perché mi ha messo un cuoricino da qualche parte, e mi commuovo: è buffo volere bene a qualcuno che non si conosce.
Per una volta, il finale “e vissero felici e contenti” mi sembra quello giusto. È anche quello che tutti avrebbero voluto per i soldati italiani della strage di Nāṣiriya.
Ho cercato un po’ di informazioni sul web, oggi 12 novembre 2023, dopo tanti anni. Ho trovato articoli di commemorazione, fotografie, monumenti e strade dedicate. Ho trovato però anche qualche articolo su alcuni dei sopravvissuti, che ancora oggi sembrano soffrire di qualcosa che va oltre un eventuale mancato risarcimento e/o riconoscimento. È lì che mi sono ricordata del mio amico del Kansas. L’ho immaginato d’estate, al tavolino di un bar all’aperto, la birra fredda e le tessere del Domino bianche e nere, mentre mi dice quello che in realtà non ha mai detto e che tutti sanno, ma che spesso dimenticano: “Nella vita, sopravvivere è solo l’inizio”.
Nice.