Io odio sciare
Odio sciare. Lo annuncio regolarmente a Novembre, e in modo perentorio. Poi di solito scappo ai tropici.
Da lontano, immersa nell’estate, mi è impossibile rievocare la brutalità dell’inverno: per quanto mi sforzi, posso soltanto immaginare un immenso, candido frigorifero pieno di granite colorate.
Quando torno sono piena di sole e sorrisi, conchiglie e foglioline. Tutto mi pare facile e meraviglioso.
Così, ogni volta, con l’abbassamento delle mie difese socio-immunitarie naturali, con la scusa che è Marzo, che non farà mica freddo, che c’è il sole e la montagna è bella (dicono), ci casco e finisce che ci vado, a sciare.
Ma ti insegno ioo, al massimo fai un’ora col maestro! Già-già.
Sono anni che provo a spiegare che il problema principale non è sciare, per me: è tutto il resto.
Prendi l’attrezzatura: la lista di cose che mi servono, quelle che forse mi servono e quelle che è meglio portarsi, supera alla grande le capacità della mia scheda di memoria organizzativa. Infilo la calzamaglia e già m’impappino nel scegliere la lunghezza e lo spessore dei calzettoni per proteggermi le tibie. Ho le tibie molto sensibili, anche al freddo. E allora? Ce ne fossero di tibie sensibili a questo mondo, alcune cose sarebbero diverse.
La tuta da sci è molto carina. Solo che fa swish swish a ogni passo e questa cosa mi tira scema, per non parlare del fatto che mi fa sentire impedita nei movimenti.
Poi, arriva il fatidico momento degli scarponi.
Io non so chi abbia inventato gli scarponi da sci, non so proprio come possano essere stati concepiti in quanto calzature. Nel mio caso sono piuttosto la prova dell’esistenza di vite pregresse: non appena c’infilo i piedi e scattano i ganci a strangolarmi le caviglie, sento il clangore delle catene, intravedo strumenti di tortura nella penombra di antri umidi e oscuri, mentre le urla agonizzanti degli altri prigionieri mi trafiggono il cervello.
Quando poi mi ritrovo a spingere quella versione invernale dell’infernale stivaletto malese nell’attacco dello sci, che scatta come una tagliola, sento i miei pensieri schizzare in direzioni che non hanno ritorno. Divento carne per gli avvoltoi, sono la volpe presa in trappola che si strapperà la zampa a morsi pur di tornare libera un’ultima volta.
Seriamente: come può un’attività che prevede il blocco totale di due arti, essere chiamata sport?
Intirizzita, senza più piedi, sorda a causa del casco e con una maschera sugli occhi che deforma luci e profili, vorrei almeno piangere, ma già non mi sono ricordata i guanti, figurati i fazzoletti.
Intanto, sparsi nella desolazione del deserto innevato punteggiato da alberi neri come non ne esistono nel mondo vivente, esserini meccanici informi marciano lenti verso la loro catena di montaggio.
Dicano quel che vogliono: lo skilift assomiglia molto a un patibolo meccanizzato di massa, o meno fantasiosamente, alla catena motorizzata dei ganci che corrono sul soffitto di un macello. Trascina inesorabile gli ominidi in cima a una collina, oltre la quale c’è sicuramente un baratro dove tutti precipiteremo come pezzi scartati, senza fare rumore.
Persino avanzare verso la propria distruzione è penoso: dovrei tenere i bastoncini con una mano, tirare con l’altra, tenermi con l’altra ancora; appoggiarmi, stare dritta, lasciarmi trasportare. Appena mi avvicino allo skilift c’è sempre qualcuno che piazza le punte dei suoi sci sui miei, scatenando l’ultimo panico che mi avanzava da spendere. Persa ogni dignità, attacco a strattonare come un albero scosso dalle raffiche della tempesta.
Forse agli alberi non piace essere tormentati dalle intemperie senza potersi spostare neppure di un centimetro. Forse gridano con le braccia alzate al cielo e si strappano le foglie.
Il boia col cappuccio nero e gli occhi da mosca valuta freddamente i miei movimenti convulsi da animale preso al laccio e afferra un piattello al volo: attraverso le mie lenti deformanti che tingono tutto di melassa lo vedo abbassare le mani dove non dovrebbe, armeggiare con la fretta di un maniaco seriale, e subito una forza disumana mi trascina verso la collina. I miei sci scelgono traiettorie divergenti cercando anche loro di sfuggire al trascinamento involontario.
In senso opposto vedo scendere una fila di bambini, diligenti anatroccoli infagottati, che seguono il loro Pifferaio Magico: uno che scia al contrario, ha delle saette fosforescenti disegnate sulla giacca e il naso rosso degli alcolizzati. Intona una melodia ipnotizzante, mentre ondeggia a destra e a manca come un cobra.
Io intanto mi sbilancio, cado, il piattello schizza verso il cielo e ritorna verso di me come una fionda, mancando di decapitarmi per un pelo.
Giaccio paralizzata nella neve, i piedi inchiodati a delle assi pesanti, la testa in discesa, le braccia crocifisse ai bastoncini. Non mi è rimasto un arto libero da usare per alzarmi, peso cento chili e forse bisognerebbe chiamare una gru. Guardo il sole impietoso, mezza sepolta nel solco che il maestro di sci e i suoi allievi scavano a ogni discesa: lui si accorge del mio cadavere all’ultimo momento e mi salta agile, ma i bambini, con le loro braccine spalancate a tenere sospesi i bacchettini tanto inutili quanto contundenti, mi passano sopra imperterriti e proseguono soavi verso il loro destino.
Mi sposto quel che basta per rialzarmi con un colpo di reni, giocandomi l’ultima elasticità vertebrale che la vita mi aveva riservato, forse proprio per gli eventi di umiliazione estrema. Afferro un altro piattello che passa di lì. Lo strangolo. Lo abbandono duecento metri più avanti e in un ultimo disperato gesto di rabbia lo scaglio lontano, senza ricordarmi che quelli tornano indietro ogni volta. Cado in ginocchio, urlo insulti al mondo intero che risuoneranno a lungo nel mio casco, forse modificando molecolarmente la fibra di cui è costituito.
Scendo lungo la pista, cercando di mettere tra me e la nuova corsa sullo skilift più curve che posso e guardandomi le spalle in continuazione: se arriva giù a valanga il solito pirla che fa la posizione dell’uovo, giuro che lo trapasso con gli stecchini e lo trasporto direttamente al barbecue del bar.
Mi sento sola. Non c’è nessuno più solo di un gatto che percorre un’autostrada a zig zag con la testa incastrata in un barattolo e le zampe incollate a delle lattine.
Arrivo giù in pochi minuti: questo, dicono, sarebbe il divertimento.
– Eh ma dai, tu sai sciare! Scendi persino a sci uniti! Allora prendiamo la seggiovia e facciamo la pista rossa!
– Senti, sciare era la cosa più facile: questione di sopravvivenza. La prova che mi legate mani e piedi e mi buttate chiusa in un barile giù dal dirupo però la facciamo un’altra volta. Adesso io, di rosso, prendo solo un Campari. E andate tutti a cagare, assieme all’abominevole uomo delle nevi.
Altre disgrazie & fastidi, anche senza sciare:
Italian Movie
Il destino era già scritto per me, all’isola di St. Lucia
Lezioni di vita a Dar es Salaam
Libri di Loredana de Michelis su Amazon
Lo sci è uno sport stupido. Ecco, l’ho detto. Se sei uno sciatore convinto ho subito grossi dubbi sulla tua intelligenza.
Poi sono d’accordo con te sul resto, il contorno di spese, code e fastidi, che trovo uno dei modi più idioti di sprecare il proprio tempo.
Mi riconosco in pieno in ciò che hai scritto…mi rincuora molto sapere che non sono l’unica a vivere lo sci in questo modo. Molte delle persone che conosco non fanno che ripetermi: “è bellissimo sciare!”. E mentre sento queste parole penso all’ingombro della tuta e al fatto che davanti a me si prospetterà una giornata interminabile ad aspettare gli sciatori provetti. Grazie mille Loredana!
A volte uno pensa: che scrivo a fare. E invece grazie a questo pezzo ho scoperto di non essere l’unica ad avere questo rapporto complicato con lo sci. Davvero non l’avrei mai pensato. E anche il sollievo che si prova è una novità. Grazie. A voi.
Ma tu sei fantastica !!! Leggevo di te e vedevo me stessa !!! Ogni frase, tua o degli amici, ogni esperienza , sensazione, emozione, pensiero … tutto inesorabilmente e sorprendemente ugualeeeeee !!! E quanto mi hai fatto ridere… grazie dottoressa De Michelis , è stato leggerti grandioso !!!
Ti ringrazio..mi hai seriamente tirato su il morale!