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Possiedo legalmente una bella, grande terrazza.
L’area di parcheggio sottostante, che sarebbe anch’essa privata, è posseduta di prepotenza dagli avventori del Junk Sex, che d’estate amano disseminare il terreno di fazzolettini sporchi e preservativi usati, di preferenza rossi.
Allora io metto sulla terrazza un bel faro potente che si accende col movimento sottostante.
Allora loro mi tirano un mattone per scassare il faro, ma non lo centrano e mi rompono un vaso.
Allora io vado al mercatino dell’usato e mi procuro una vecchia pistola ad aria compressa che spara pallini di plastica, rossi.
Sparo.
Un rumore tremendo. Il pallino resta in canna e cade inerme a terra quando cerco di ricaricare.
Mi sembra una triste parodia e c’è chi dice che dovrei lasciare perdere, ma a me secca, perché gli stessi che dicono che dovrei cambiare quartiere sono anche quelli che scrivono su Facebook: “Non mollare mai!” e firmano le petizioni per la difesa delle minoranze.
Allora alla maggioranza che si aggira lì sotto io tiro la pistola: tanto non funziona.
Loro aspettano che faccia buio e mi tirano indietro una bottiglia di plastica riempita di ghiaia. Neanche questa volta centrano il faro, ma rovesciano una sedia e i miei gatti, che si godono la terrazza a notte fonda, rientrano in casa di corsa con il pelo dritto e gli occhi stralunati.
Siccome i miei gatti non si toccano, adesso è guerra davvero.
Mi attrezzo per passare la notte estiva sul terrazzo. Mi sono munita di cartelli su cui ho scritto: “È vietato di lordare il pubblico suolo, pena l’arresto: legge n° 46 del 1922” e “Scommetto che a casa tua ricicli, brutto maiale”. Sul tavolo ho: megafono, mattone che ho conservato, martello in seconda battuta, sigarette, birra, grappa e noccioline.
Alle 03.00 mi addormento a faccia in giù sul tavolino, e il faro, che contavo mi svegliasse al momento giusto, non si accende mai. Si è bruciata la lampada alogena: tutto quel viavai dei giorni precedenti, accendi e spegni, si è bruciata.
Sono le sei del mattino e io esco di casa in pigiama con un vecchio grosso rastrello, per pulire il cortile e andare a dormire.
Sotto casa è parcheggiata un’auto della Polizia Penitenziaria. Il poliziotto in divisa sta chiacchierando al cellulare, appoggiato al cofano. Mi sembra mandato dal mio angelo custode: mi avvicino fissandolo speranzosa.
Lui guarda me e il rastrello e i suoi occhi si fanno… non so, attenti, tipo. Dice: “Ti richiamo dopo”, chiude la telefonata e mi fissa. Io non so bene cosa dire, mi aspettavo qualcosa di più formale, come: “Buongiorno Signora, in cosa posso esserle utile?” Invece lui mi fissa e fa un cenno verso gli alberi, dai quali sbuca un suo collega munito di ricetrasmittente, che appena mi vede non si mette proprio a correre, ma diciamo che accelera l’andatura.
Deliziata da tanta solerzia espongo le mie lamentele e finalmente i due bravuomini si rendono conto del mio dramma, per il quale, mi dicono, non possono purtroppo fare nulla. Però mi danno un consiglio personale: mettere via il rastrello e rivolgermi alla polizia.
Io poso il rastrello. Il resto mi pare che lo sto già facendo.
Ma loro mi dicono che devo proprio fare una denuncia, ogni volta: rompere le scatole alle autorità finché le sfinisco. “Li faccia scrivere, devono farlo. Vedrà che si scocciano. Ma noi non le abbiamo detto niente”.
Alle 8,30 mi presento al posto di polizia più vicina, dietro la Stazione Ferroviaria. Sulla porta c’è scritto STAZIONE DI POLIZIA e a lato ci sono due stemmi, quello della Polizia di Stato e quello della Polizia Comunale.
La porta non si apre. Suono. Non risponde nessuno. Ri-suono, guardando attraverso i vetri oscurati e sporchissimi. Sembra decisamente un posto abbandonato e giurerei che il campanello è staccato.
Decido di chiedere al negozio di africani lì di fianco: se c’è qualcuno che sa dove si è spostato il posto di polizia, sono loro. Nel negozio c’è gran musica e due tizi sorridenti, ma sono al telefono e non mi prendono in considerazione. Mi aggiro per una mezz’oretta, compro del latte di cocco tanto per fare qualcosa: è carissimo. Finalmente riesco a fare la mia domanda, mentre mi danno il resto prelevandolo dal mucchio di monete ammonticchiate davanti alla cassa, che pare inutilizzata da anni. Sempre ridendo mi spiegano che la vetrina della polizia è un posto per “spaventare i poveri passeri”: la vera entrata è dall’altra parte del blocco.
Faccio il giro. Stessa insegna, stessa porta oscurata. Suono. Silenzio.
Sto per andarmene, quando una vocina di donna spaventata esce dal citofono e chiede: “Chi è?”
Io non so bene cosa dire.
– Devo fare una denuncia. – Uso il tono più grave possibile.
– Per cosa? – Chiede la vocina dopo una pausa valutativa.
– Atti vandalici. –
– Ehh, ha un appuntamento? –
– No signora, è appena successo, prima non lo sapevo che sarebbe successo, quindi mi scusi ma non ho fatto in tempo a prendere appuntamento. –
– Ehh, ma io qui sono da sola e ho tutti gli ufficiali fuori: le conviene andare alla Polizia di Stato. –
Io guardo di nuovo l’insegna per sicurezza: c’è proprio scritto Polizia. Una folla di pensieri mi si affolla e non voglio affollamenti: ho una missione da portare a termine.
– Qual è il posto più vicino dove posso trovare un ufficio denunce della Polizia di Stato? – Chiedo sbrigativa.
– In Stazione, dalla Polizia Ferroviaria, binario 1. –
Mi dirigo in Stazione: è a 100 metri. Tiro una scampanellata all’ufficietto della Polizia Ferroviaria che a momenti ribalto tutti i tabelloni. Mi aprono.
In uno sgabuzzino siede un poliziotto con un grosso condizionatore portatile scassato che gli fa aria dritta sulla trachea. Mi guarda guardingo, ma io non mi faccio intimidire.
– Sono stata mandata qui dall’ufficio di polizia che c’è qui dietro, per fare una denuncia. –
– Per cosa? –
– Atti vandalici. –
– Ma glieli hanno fatti qua in Stazione? –
– No, a casa mia: mi tirano mattoni sulla terrazza. –
– Ah, allora deve andare dai Carabinieri. –
– Scusi, ma la Polizia Penitenziaria mi ha detto di andare dalla Polizia. La Polizia di Stato mi ha detto di rivolgermi alla Polizia di Stato che sareste voi della Polizia Ferroviaria –
– Aspetti che chiamo il maresciallo: Maresciaalloo! –
A trenta centimetri da me si apre una porticina e sbuca uno in divisa, piuttosto corpulento. La stanza da cui proviene è talmente piccola, che posso solo immaginare che ci stia in piedi.
– La polizia qua dietro ha detto alla signora di venire da noi per una denuncia. –
Facce di sufficienza.
– Deve andare all’ufficio denunce dei carabinieri, signora. Sono loro che si occupano di queste cose e poi noi al momento abbiamo tutti gli ufficiali fuori. –
Così dice il Maresciallo. Mi fanno pena, ‘sti due: ho questo difetto. Dovrei farmi pena io e mi fanno pena loro.
– Carabinieri dove? – Chiedo sbrigativa.
E mi faccio a piedi cinque chilometri sotto il sole.
L’ufficio denunce dei carabinieri promette bene: c’è un sacco di gente con bende e cerotti che piange, e una carabiniera dietro il vetro che mi guarda severissima. Io dico che voglio fare una denuncia.
– Per cosa? –
– Atti vandalici. –
– Alla persona o a oggetti? –
– Oggetti. –
– Documenti, si accomodi. –
Vengo chiamata dopo venti minuti. Un carabiniere efficiente si siede dietro un computer.
– Mi dica, signora. –
Adesso ci siamo, sono emozionatissima. Attacco a raccontare la mia triste storia.
– Ma il mattone l’ha colpita? –
– No, non ero in terrazza in quel momento. Lo hanno tirato di notte, però mi ha rotto un vaso. –
– E vuole fare denuncia per un vaso? –
– No, voglio fare denuncia perché potevo esserci io, perché ci sono due gatti, perché mi risulta sia proibito tirare mattoni sulle terrazze. –
– Ma l’hanno tirato per rompere il faro, l’ha detto lei. –
– Guardi che il faro è montato sul muretto che circonda la terrazza: dal basso non si può vedere chi c’è dietro: potrebbe esserci una persona, nella fattispecie io. –
– Ma non volevano ferire lei. –
– Ma lei che ne sa? –
– Aspetti che chiamo il maresciallo. –
Arriva il maresciallo che mi si siede a fianco come un prete comprensivo. Gli racconto la storia da capo.
– Deve chiamare la polizia quando succede, signora. –
– L’ho già chiamata, mi ha detto di fare denuncia. –
– E allora le conviene fare la denuncia alla polizia. –
– E se la faccio sia alla polizia che ai carabinieri? –
– Noi se vuole scriviamo, ma finisce tutto lì: cosa vuole che facciamo? –
– Passare e disturbare l’andazzo che c’è tutte le sere e che è diventato così aggressivo che si sentono in diritto di entrare in aree private e commettere vandalismi? –
– Eh, ma se li mandiamo via di lì tanto vanno da un’altra parte. –
– Non sarebbe male, così tutta la cittadinanza e non solo un quartiere prenderebbe coscienza del problema. In questo modo invece ci ghettizzate. A me comunque basterebbe che si spostassero sulla strada che costeggia la ferrovia. –
– Eh ma lì non passa nessuno: come fanno a lavorare? –
– Ma voi da che parte state? –
– Signora, il consiglio migliore che le posso dare purtroppo è di cambiare quartiere. –
Eh già.
Il maresciallo se ne va. Io guardo il carabiniere, che mi guarda sconsolato.
– Signora, non abbiamo leggi contro la prostituzione. –
– Non ce l’ho con la prostituzione. Ce l’ho con le cose che volano: mattoni, siringhe, fazzolettini sporchi, preservativi usati. Non vorrei che ci si aggiungessero anche gli asini, a questo punto. –
– Le conviene fare un esposto. –
– Ne ho già fatti tre. –
Il carabiniere annuisce comprensivo: – Posso darle un consiglio? Non molli, continui. –
Questo racconto fa parte della raccolta OFFSET scaricabile gratuitamente da Amazon.
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Quello che ho appena letto, è triste dirlo, ma rappresenta in molti casi la realtà quotidiana degli uffici di polizia. Non c'è coordinamento tra le forze dell'ordine, fanno il respingimento delle denunce come se fossero pratiche fastidiose da trattare. Non ci meravigliamo poi quando le persone si fanno giustizia da sole!
Sotto questo post ci starebbe bene la ricetta per preparare la torta con dentro una lima…
oddio, scusa se rido delle tue tragedie ma e' troppo divertente…
Comunque il latte di cocco oltre a essere caro e' anche fondamentale per preparare il curry (di pollo, di manzo di gamberi etc.).
Ciao e a presto