Dal libro: Lettere da Londra underground.
“Chi è finito a Londra in cerca di un futuro qualunque si rivedrà in questo libro, e finalmente potrà sorridere dell’esperienza.”
Gennaio
La settimana scorsa al Fried Chick* è entrato come un fulmine il solito caraibico omologato: 20 anni, berretto da baseball, due metri di molle e muscoli, carico come un pistone.
Da noi c’è una rapina al mese.
Le istruzioni dicono di consegnare la cassa senza fare storie, tanto c’è l’assicurazione e al capo basta presentare il filmato della videocamera che è installata sul soffitto.
Quando l’incasso arriva a 100 sterline dobbiamo prelevare i soldi, infilarli in un tubo e infilare il tubo nella cassaforte che sta nel retro.
In cassa quindi non c’è mai molto e i rapinatori lo sanno, ma il furto è facile e quando sono in emergenza passano, diciamo a prelevare. Sono sempre caraibici, sembrano tutti uguali e non li beccano mai.
Questo fatto della rapina mensile è filosoficamente accettato come inevitabile, alla faccia del mondo civilizzato.
O forse questo lo è, un mondo civilizzato, nel senso di rincoglionito: ci sono 10.000 sterline in una cassaforte grossa come una scatola di biscotti dietro una parete di plastica. Perché nessuno ruba quella? Basta che ce la chiedano.
Invece questi ladri civilizzati prendono solo il necessario, 60 sterline dalla cassa quando va bene.
Se andiamo avanti così, il terzo mondo ci mangerà in testa, dico io.
Comunque: il caraibico si fionda dentro, e fuori, in sosta vietatissima, c’è un’auto accesa piena di colleghi che lo aspettano.
Io ho istruzioni di stare calma. Afferro saldamente il cestello delle patatine che sta immerso nell’olio a 400 gradi e controllo la frittura.
Il caraibico ordina qualcosa. Io prendo le pinze lunghe con l’altra mano e le uso per aprire la vetrinetta riscaldata, dove attacco a rimestare tra ali di pollo.
Entra un irlandese, vecchio, sporco e ubriaco: spinge il caraibico di lato con gesto plateale, si sporge sul bancone e mi dice:
– Dammi subito due coscette, cara. –
Nel silenzio imbarazzato che segue, il caraibico si trasfigura assumendo un atteggiamento che ho imparato a riconoscere e che mi spedisce una scossa elettrica lungo la spina dorsale: smette di molleggiare, il sorrisetto arrogante scompare, la pelle gli diventa un po’ grigia e negli occhi gli scende un’espressione remota, gelida e tristissima.
Non guarda nessuno, flette il capo di lato e sembra parlare a se stesso. Con voce dal timbro molto basso dice:
– C’era prima io, signore. –
L’irlandese sta guardando la vetrina di cibo:
– Stai zitto scimmia, lo sai benissimo che i bianchi hanno la precedenza. –
Poi mi fissa repentino e con un fare autoritario così forte che mi chiedo dove l’abbia imparato, mi zittisce prima ancora che abbia aperto bocca:
– Non stare lì impalata tesoro, dammi il pollo. Maledetti negri, non imparano mai l’educazione. –
Io guardo il caraibico con la coda dell’occhio, perché a guardarlo dritto ho paura.
Lui sta arretrando lentamente verso l’uscita, mentre un altro paio di clienti si sono aggiunti alla fila. Fingono di non aver sentito nulla e guardano con interesse i tabelloni.
Sono emigrante da abbastanza tempo oramai per avere capito che al mondo le cose inaccettabili succedono continuamente e che il mondo dei soprusi non è così semplice, così bianco e nero, come lo vogliono pensare molti di quelli che fanno le manifestazioni di protesta credendo di stare dalla parte giusta della barricata.
Ma non c’è nessuna barricata: la frustrazione e la paura si intrecciano come rovi e in quei quattro metri quadri che puzzano di olio bruciato stanno spremendo fuori da ognuno di noi una pozione corrosiva.
Il caraibico tiene la testa bassa e le mani nelle tasche del giubbotto. Con un piccolo movimento fluido del collo ha appena controllato la videocamera di sorveglianza nella speranza che fosse spenta. Ora dondola leggermente, e se lo vedessi in un filmato penserei che sia incerto sul da farsi. Invece ho i sensi così allertati che ne sento nettamente l’odore, come sento quello di tutti gli altri, e so che sta prendendo le misure, facendo una sorta di triangolazione. Intuisco immediatamente che devo allontanarmi dalla friggitrice.
Gli occhi accesi dell’irlandese hanno un momento di intermittenza: la cosa sta andando troppo liscia.
Nel retro si è interrotto il suono ritmico dell’accetta sul tagliere. Il silenzio che arriva da lì mi fa sudare doppio.
La signora benvestita che sta facendo la fila dentro la sua bolla di fette di salame, scatta urlando di muovermi, che non può stare lì tutto il giorno.
Il caraibico è scomparso.
Consegno il pollo all’irlandese, che mi butta due monete e si avvia impettito all’uscita.
Appena varca la soglia ed esce dal raggio d’azione della telecamera, il caraibico è lì: si piega di lato, flette una gamba e gli spara un calcio alla tempia forte come una fucilata.
L’irlandese vola a terra rimbalzando sulla nuca, non è riuscito neppure a piegare le ginocchia. Dopo il rimbalzo e il rumore di ossa schiacciate, giace immobile.
Ho appena visto uccidere un uomo, così, in un attimo. L’auto dei caraibici è già partita sgommando.
Sento il soffio lieve dell’aria smossa dal tamil*: è dietro di me e sta chiamando un’ambulanza.
La signora in giacca mi fissa furibonda: vuole il pollo.
Dietro di lei, davanti all’ingresso del negozio, c’è l’irlandese steso a gambe larghe: vedo il suo stomaco sporgente illuminato dal lampione, che si staglia contro l’oscurità della strada, ora improvvisamente deserta.
Il tamil sblocca la barra d’acciaio che blinda lo sportello tra il bancone e lo spazio dei clienti. Mi rendo improvvisamente conto che l’avevo sentita ronzare prima, quando era sceso il silenzio nel retro. Quando ancora credevo che difendermi col cestello della friggitrice fosse una buona idea.
Il tamil per una volta non sorride, ma è calmo come sempre. Solo il bianco degli occhi un po’ più evidente.
Non so cosa fare e non riesco a staccare gli occhi dall’irlandese. Prendo il contenitore di cartone, le salviette, le bustine di sale. Metto un bicchiere di carta sotto la spina della Cocacola.
L’irlandese morto ha un fremito come Frankestein. Si alza e rientra barcollante in negozio. È una maschera di sangue e ha un dente appiccicato sul mento dalla sua stessa bava. Un occhio sembra esploso e vedo biancheggiare l’osso dello zigomo dal taglio che gli attraversa la faccia, dalla tempia alla mascella.
Riesco solo a pensare che non può essere conciato così ed essere vivo.
Invece è lì.
Dall’unico occhio aperto, esterrefatto ed umiliato, scendono lacrime.
– Quella scimmia figlia di un orango – dice – Mi ha rubato il pollo! –
*Tennessee Fried Chicken, catena di fast food.
*tamil: indiano dell’isola di Ceylon
Brano tratto da: “Vado a vivere a Londra. Lettere di un emigrante” di Loredana de Michelis, edizioni Ultra. Acquistabile anche su Amazon
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