Una Giornata della Memoria all’improvviso
Gioca a frisbee al tramonto, quasi ogni giorno.
Il suo nome, nella sua lingua, significa Ragazzo Sveglio.
Mai nome fu tanto azzeccato, perché G., che passa molti mesi dell’anno nei bungalow di qualche spiaggia indiana, è un genio informatico.
Seduto sotto una palma, piedi nudi affondati nella sabbia e mutandoni fiorati da velista, lui digita veloce sul suo laptop allacciato alla rete da un lungo cavo di traballante connessione, nel quale inciampano spesso le mucche.
Regolare come un impiegato, prima del tramonto stacca e va fare il bagno. Dopo gioca a frisbee, beve una birra e prepara grigliate con gli amici fumando marijuana.
Quando arrivano le piogge G. torna a casa, dove lo aspetta un’altra estate. Ha le precise fattezze di un arabo, è un ebreo yemenita, e casa sua è Tel Aviv.
Ci sono zone dell’oriente, che possono variare di anno in anno, dove è facile incrociare folti gruppi di israeliani. Si spostano in base alle indicazioni che il loro governo fornisce costantemente sul livello di rischio terrorismo e rapimento per ogni area geografica.
Quando incontrai G., la regione indiana del Goa era un buon posto: prezzi bassi, sicurezza accettabile. Arrivavano molti ragazzi israeliani che avevano appena concluso il servizio di leva e tendevano a fare branco comportandosi in modo molesto. La situazione era diventata difficile e qualche affittacamere indiano aveva pensato di affiggere un cartello sulla porta, con la scritta: “NO ISRAELI”.
Era interessante sostare nei pressi di un cartello come quello e osservare la reazione dei turisti europei che si bloccavano esterrefatti, guardandosi intorno imbarazzati e a volte entrando nel negozio per fare vibranti proteste al gestore, che non aveva mai sentito parlare di Shoah né di nazismo, ma capiva al volo che chi stava protestando non era israeliano e questo non faceva altro che confonderlo ancora di più.
D’altro canto gli israeliani non sembravano particolarmente colpiti da quei cartelli.
G. sosteneva che gli indiani avessero ragione: certi suoi connazionali, soprattutto quelli appena usciti dal servizio militare, sono pazzi e infrequentabili, diceva. Lui, che ai tempi aveva 32 anni, si proclamava ateo e pacifista. Aveva svolto il servizio militare facendo una sorta di obiezione di coscienza, per cui dopo un addestramento iniziale passato a smontare e rimontare armi di qualunque tipo, era stato spostato al settore logistico e informatico. Come molti dei suoi giovani connazionali parlava perfettamente inglese, ma non era mai stato in Europa o negli Stati Uniti. Posti che lo affascinavano, ma che sembravano anche suscitargli una strana timidezza.
Con G. diventammo buoni amici, di quell’amicizia mediterranea un po’ sentimentale. Lui andava d’accordo con tutti: aveva una ragazza svedese, coabitava con un amico brasiliano, e ogni sera a casa sua c’era una vero calderone di culture. Era sempre sorridente e a suo agio. Solo qualche volta lo trovavo a chattare su Skype nella sua lingua di suoni brevi e gutturali, emessi con voce profonda e malinconica.
Quando me ne andai dal Goa promettemmo che ci saremmo rivisti e G. mi invitò a fargli visita a Tel Aviv. Aggiunse tutta una serie di particolari, come il fatto che sarebbe venuto a prendermi in aeroporto, che avrei dovuto fare il suo nome alla polizia, che se non mi avessero lasciato uscire dall’aeroporto avrei dovuto fornire il suo numero di telefono e ci avrebbe pensato lui, e altre cose alle quali non diedi peso, in quel momento.
Pochi mesi dopo mi scrisse il suo amico brasiliano che era andato a trovarlo ed era ripartito presto a causa del clima di tensione continua che si avvertiva in quella città, per il citofono suonato a ogni ora con la chiamata improrogabile di tutto il vicinato per l’esercitazione, per le maschere antigas appese in entrata, il bollettino costante alla radio. Era soprattutto stupito che il nostro amico G., così hippy nel Goa, si adeguasse a tutto questo con flemma.
– L’ho convinto a raggiungermi in Brasile. – mi disse – Non si può vivere così. –
Rinunciai quindi ad andare a Tel Aviv, ma sapendo quanto G. fosse triste per il distacco dal suo amico, gli mandai un po’ di foto di Venezia e lo invitai a venirmi a trovare a Padova. Non ci pensò due volte e presto lo vidi sbucare tra la folla in arrivo all’aeroporto di Tessera con uno zainetto e il suo laptop. Era eccitatissimo di essere in Europa, in Italia addirittura.
Si mise a seguirmi cauto per l’aeroporto standomi stranamente attaccato alla spalla, mezzo passo indietro. Si bloccò quando vide le porte di uscita:
– Devo passare il controllo. Non l’ho ancora fatto. –
– Che controllo? Non hai superato il check point dove ti hanno guardato il passaporto? –
– Sì, ma non mi hanno perquisito, ancora. –
– Se non l’hanno fatto va bene così, no? –
Non era convinto. Mi seguì all’aperto riluttante e con la faccia del clandestino. Una volta in auto cercava di farsene una ragione, ma era combattuto tra la gioia di trovarsi in uno stato così lussuosamente libero (quando andava in India, in quanto israeliano passava sempre attraverso un check point particolare ed era regolarmente perquisito) e la preoccupazione per l’assenza di quelle che considerava giuste e doverose regole di sicurezza.
Andammo a fare la spesa in un supermercato e si innamorò a prima vista del salame cacciatorino. Ne fece una mania e per tutto il tempo che fu mio ospite ne mangiò uno al giorno, con immutati mugolii estasiati. Scolò anche un sacco di vino, senza apparentemente accusare alcunché. Si piazzò un condizionatore portatile a una distanza ideale per la broncopolmonite, mi sistemò velocemente ogni apparecchio che avesse una qualche connessione, e attaccò la sua solita routine lavorativa parlando lingue alterne su Skype e riuscendo anche a rispondermi a tono quando lo interrompevo per dirgli qualcosa. Temevo che si mettesse a caccia di marijuana, ma non ne fece mai cenno. Probabilmente la usava soltanto nel Goa.
Si era portato il frisbee.
La prima sera andammo a passeggiare per il centro di Padova. Avevamo in programma Venezia, Mantova e Ferrara per i giorni successivi. E poi, la montagna che lo affascinava molto. Era fortemente impressionato anche dall’architettura, soprattutto quella delle chiese. A ogni chiesa che vedeva mi chiedeva se era proprio una chiesa e se era cattolica.
– Nel mio paese la bellezza è considerata inutile – diceva – tutto deve essere pratico, i luoghi di preghiera devono essere ridotti al minimo essenziale. Che peccato. –
Aveva portato una macchina fotografica, ma a volte era così incantato che si dimenticava di usarla. Stavamo camminando, quando si bloccò all’improvviso:
– Che cos’è. Perché. –
Non gli avevo mai sentito un tono così brusco e inquisitorio, sul registro basso che usava quando parlava la sua lingua. Lo immaginai improvvisamente vestito da soldato. Sollevai lo sguardo anch’io e mi accorsi per la prima volta di una scritta ebraica semicancellata sopra la porta di un palazzo del centro storico di Padova, nel quartiere del ghetto.
A volte ci si sente molto stupidi all’improvviso. A me capita spesso. Mi sembrava di avere così tante affinità con G., lo avevo conosciuto all’estero dove tutti eravamo stranieri, e non avevo considerato che non so nulla della sua cultura. Per me quello era solo il centro storico di una città, nel quale spesso si trova anche un vecchio ghetto ebraico.
Solo che G. non ne aveva mai visto uno.
Capii che ne aveva sentito parlare, ma che in qualche modo non se l’era mai figurato. Dovetti spiegargli che tutto il quartiere, sì, grande così, era stato un tempo abitato esclusivamente da ebrei. Intanto, su ogni porta, in ogni angolo, sulle soglie delle case, comparvero improvvisamente piccole scritte sbiadite a cui io non avevo mai fatto veramente caso e che ora sembravano accendersi una dietro l’altra sotto lo sguardo terribilmente serio e attento del mio amico. Non fu necessario spiegargli cosa fossero le targhe di metallo su cui erano incise liste di nomi.
G. sollevò gli occhi lucidi e si mise a fissare un balcone pencolante, sul quale affacciavano vecchie persiane di legno chiuse. Sollevò piano la macchina fotografica, scattò una foto. Poi, senza neppure guardarla, la cancellò.
Proseguimmo senza parlare e senza guardarci. Poche volte nella vita mi sono sentita così mortificata.
Infine G. recuperò il suo umore di sempre e io scoprii così che anche quello era frutto di un lavoro che si era abituato a fare. Non mi chiese altro sulla storia del ghetto di Padova.
Due giorni dopo era prevista la gita a Ferrara. G. scese ad aspettarmi davanti all’automobile, mentre io sistemavo alcune cose in casa. Quando lo raggiunsi mi trovai in mezzo a una terribile guerra di occhiate tra lui e un ragazzo mio vicino di casa. Mi affrettai a farlo salire e a salutare l’altro con finta allegria, spaventata.
– È innamorato di te? Stavamo per picchiarci. Forse credeva che ti volessi rubare l’auto. –
– Ah. Eh. È che questa è una zona un po’ degradata e tu sembri un terrorista. – Scherzai.
– Qui la gente pensa che sono un arabo, vero? –
– Beh, sì, io lo penserei. Però non è necessariamente uno svantaggio: dici sempre che sei a rischio rapimento in quanto israeliano. Così sei più al sicuro, no? –
Il giorno prima G. aveva chiesto di essere accompagnato da un barbiere. Aveva bisogno di rasare i suoi capelli crespi perché crescevano a vista d’occhio e col caldo gli davano fastidio. Lo avevo portato dal barbiere di quartiere, la cui clientela era prevalentemente nordafricana. Avevo osservato l’espressione di sollievo del mio amico mentre il barbiere lo liberava di quel centimetro di capelli lanuginosi in eccesso. Gli altri clienti in attesa si servivano di kebab da un vassoio, che il mio amico aveva ignorato e che comunque nessuno ci aveva offerto. Avevo pensato che fosse per causa mia.
– Loro se ne accorgono subito che sono un ebreo. –
– Chi, i musulmani? E da cosa lo vedono? Mica indossi niente di particolare. –
– Se ne accorgono lo stesso. –
Il complicato destino di essere scambiati per il tuo peggior nemico da tutti tranne che dal tuo nemico, che ti individua facilmente. G. aveva di nuovo la faccia dura e inquietante che non gli conoscevo.
– Comunque, non c’è niente da fare: io non sono un bianco – disse. E si mise a osservare il panorama in silenzio.
Arrivai a Ferrara agitata: avevo capito che andare in giro con G. non era una scampagnata qualunque. Parcheggiai a caso e lo trascinai verso il centro, ansiosa di mostrargli il grande castello col ponte levatoio: non ne aveva mai visto uno vero e rimase a fissarlo a bocca aperta.
Volle mangiare tutto quello che vedeva, continuava a girare su se stesso in preda all’eccitazione. Finimmo sulle pietre d’inciampo, proprio sulla via principale. Non conoscevo Ferrara così bene da sapere che le avremmo trovate.
G. si inchiodò. Guardò di nuovo in alto, le finestre dei palazzi, tutte chiuse. Fu il momento di spiegargli che quasi ogni città in Europa è così: ha un vecchio ghetto e ci sono dei nomi scritti sulle pietre.
Mi salì una rabbia frustrata per il fatto che il mio amico potesse prendere un pugno in faccia a tradimento e a ogni angolo di strada, per una cosa che noi ci impegniamo a ricordare virtuosamente e che lui vorrebbe invece dimenticare almeno per un giorno. Le memorie del passato costruiscono il futuro, a volte in posti lontani. Hanno conseguenze impreviste.
E io non saprò mai a cosa stesse pensando G. in quei momenti.
Girammo tutta Ferrara e poi mi accorsi che non ricordavo assolutamente dove fosse parcheggiata l’auto. Tornai verso il castello confessando il problema. G. fece il suo sorriso rassicurante socchiudendo gli occhi: ci fu uno sbattere lento di ciglia spesse e curve, il baluginare di una chiostra di denti grandi e bianchi. Era la sua espressione calma e furba allo stesso tempo, quella per cui era simpatico a tutti. Mi guidò facilmente all’auto come se avesse avuto un navigatore impiantato da qualche parte.
Io lo seguivo continuando a non orientarmi e stava arrivando un temporale estivo. Ci fu un tuono forte e cadde un fulmine.
– G., io mi auguro che tu sappia davvero dove stiamo andando perché qua se non ci affrettiamo ci becchiamo di tutto.
– Nah, sarà caduto a 10 chilometri. Non si vede neanche la polvere. –
– Che polvere? È un fulmine! Temporale! –
– È un missile. –
– È un fulmine! –
– Se ti dico che è un missile. –
– G., ascolta: qui nessuno lancia missili. Neanche uno ogni tanto, OK? Ma non ce li avete i temporali a Tel Aviv? –
– Sì, ma non sono così. Questo sembra un missile. –
Arrivammo all’auto e G. era perplesso. Mi resi conto che sebbene fosse una persona capace di smontare un mitragliatore in meno di 10 secondi, sapesse orientarsi in posto che non conosceva e vivesse 6 mesi l’anno all’estero, in realtà era profondamente immerso nella sua dimensione. Dietro la sua calma apparente doveva esserci una gran confusione, ma fu comunque perfettamente in grado di guidarmi con sicurezza persino all’imbocco dell’autostrada.
Il ghetto ebraico di Venezia ha ancora le cancellate che un tempo venivano chiuse al tramonto. Ci sono ancora molti ebrei che vestono secondo tradizione e mangiano in ristoranti con menù nella loro lingua. Al centro del ghetto c’è una guardiola circondata da soldati israeliani armati.
Portai G. a Venezia e lo tenni in vaporetto tutto il tempo, facendolo scendere soltanto al Lido e a S. Marco.
A un certo punto lui mi chiese se fosse possibile comprare una casa a Venezia. Gli risposi che era solo questione di soldi. Gli sembrava incredibile che bastassero solo quelli, che non fosse necessario avere permessi speciali. Mi chiese se potevano comprare soltanto gli italiani. Gli dissi che probabilmente c’erano più proprietari stranieri ed ebrei a Venezia, che italiani. Lui disse: – Ebrei israeliani? Non credo. Ma se è come dici tu, un giorno mi comprerò una di queste case. – E capii che aveva preso la decisione di analizzare in futuro certe questioni di cui non si era mai occupato.
Prima di partire mi regalò un nuovo portatile, perché si era stufato di sistemare il mio che sosteneva essere una baracca. Regalò anche due topi giocattolo ai miei gatti.
In aeroporto si fece di nuovo guardingo e mi chiese dove dovevano andare gli israeliani per il check in. Allora gli diedi uno spintone ridendo e lo spedii nella fila con tutti gli altri. Prima di sparire nel gate si voltò a guardarmi intensamente: aveva gli occhi pieni di lacrime.
G. andò in Brasile dal suo amico. Mi fecero una videochiamata e lui aveva un sorriso da un orecchio all’altro: erano stati a una partita di football e c’era una concentrazione di ragazze supergnocche come da nessun’altra parte sul pianeta. Avevano deciso di aprire un agriturismo in una zona selvaggia, sul terreno di alcuni parenti del suo amico.
Una notte però, mentre stavano dormendo, si ritrovarono un coltello puntato alla gola: un malvivente era entrato dalla finestra per rubare il laptop. Il furto si concluse senza ferimenti, ma G. trovò inaccettabile vivere in un paese dove chiunque poteva entrarti in casa dalla finestra e minacciarti con un’arma. Avviò una specie di processo di autodistruzione del suo computer con una telefonata, rendendolo inutilizzabile “anche per i pezzi di ricambio”, fece i bagagli e tornò nel suo Paese di missili e di ronde permanenti.
Seppi che era tornato in India. Poi che era in Spagna con una nuova fidanzata. Poi che era in India di nuovo.
Immagino che non abbia ancora comprato casa a Venezia, sennò me lo avrebbe fatto sapere.
Domani provo a rintracciarlo, ma se ha attivato la sua modalità web-invisibile non lo trova neppure il Mossad e dovrò aspettare che ricompaia quando vorrà lui.
Il ritratto perduto che Art Kane fece alla mafia
Vedi, a volte, l’Albania
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