Il razzismo nascosto nel colpevolismo buonista
Recentemente mi è capitato di ascoltare Saviano in tv con interesse, pensando che fosse ancora un giornalista esperto di traffici illegali e capace di indagare e informare. Invece ho scoperto che anche lui si è dedicato allo Story Telling del colpevolismo, per il quale noi dobbiamo innanzitutto vergognarci, di esistere, in generale. E le tragedie del Terzo Mondo, compresa la diarrea, non sono problemi da risolvere, ma innanzitutto colpe per la quale dobbiamo pentirci.
Inchiodata sul divano da una digestione che ora mi pareva un insulto ai poveri, preso atto con angoscia di tutti questi peccati, avrei voluto che Saviano mi insegnasse anche come rimediare: per quanto mi sforzi, non saprei come trovare una soluzione alla malaria, né al fatto che moltissime persone nel Terzo Mondo rifiutino di curarla con i farmaci anche quando li hanno a disposizione, convinti di poterlo fare con terapie tradizionali (nozione che Saviano omette, altrimenti si rischia che gli abitanti del Terzo Mondo ci sembrino un po’ come molti di noi, e questo non va bene).
In attesa che Saviano annunciasse la soluzione salvifica e smettesse di dire “non ne parla nessuno”, visto che ne stava parlando lui in uno dei programmi televisivi più seguiti, mi sono beccata a tradimento l’ennesima strumentalizzazione della storia del ragazzino morto nel carrello di un aereo diretto a Parigi dalla Costa d’Avorio. Una storia di una tristezza infinita.
Secondo Saviano, questo ragazzino avrebbe camminato per 30 chilometri arrivando nei pressi dell’aeroporto quando faceva già buio, avrebbe atteso l’aereo giusto nascondendosi nei paraggi e avrebbe fatto una corsa lungo la pista con l’aereo che già rollava intrufolandosi nel carrello senza essere visto da nessuno.
A parte la difficoltà per chiunque di identificare un aereo specifico, di notte e osservando l’aeroporto da un punto a caso nella boscaglia; neppure correre su una pista senza essere visti durante un decollo è cosa facile. Ma dalla storia che racconta Saviano sembra tutto davvero semplice: un ragazzino, trascurato e che non va a scuola, si orienta con sicurezza lungo 30 chilometri di strade sterrate e deserte nel buio più totale, raggiunge un aeroporto, entra a dare un’occhiata ai tabelloni decifrandoli benissimo. Si dirige a bordo pista saltando un po’ di recinzioni, controlla l’ora sul suo orologio svizzero e al momento giusto raggiunge un aereo indisturbato. E mentre noi abbiamo aeroporti con le piste illuminate a giorno e tecnici che assistono ai decolli, là sembrerebbe che i piloti della Air France si siano rassegnati a decollare ascoltando Radio Maria e con l’appoggio della palma di controllo senza telecamere, da cui nessuno osserva nulla. Perché in Africa è così, no?
Il Corriere della Sera invece scrive:
Fonti della sicurezza ivoriane fanno notare che l’aeroporto internazionale di Abidjan è dotato di controlli speciali per evitare questo tipo di tragedie, e a differenza di un adulto un bambino non può farsi passare per dipendente dello scalo per eluderli. Si sospetta quindi che un complice adulto lo abbia aiutato a passare, magari facendosi pagare, pur sapendo che il tentativo si sarebbe concluso con la morte del bambino. (8 gennaio 2020)
Tutti gli altri giornalisti, anche stranieri, hanno detto che il ragazzino aveva probabilmente raggiunto l’areo nascosto su uno dei veicoli del trasporto bagagli e di conseguenza con l’aiuto di almeno una persona adulta.
Perché Saviano omette volontariamente dalla sua storia l’elemento più spaventoso e doloroso di tutti? Da lui mi sarei aspettata che indagasse proprio su questo e sulla rete – perché di rete si tratta – di persone che in Africa, ma anche altrove, vendono sogni malati sull’Europa agli ingenui. Un business che è diventato internazionale, rende moltissimo e contro il quale nessuno, neppure in Europa, sembra stare facendo nulla di concreto.
Chi ha ucciso volontariamente questo ragazzino è ancora là a proseguire il suo lavoro indisturbato e continuerà a farlo, perché i deboli e gli ingenui ci saranno sempre. Non solo in Africa, ovunque.
Non è sufficiente “aprire i porti” e neppure gli aeroporti perché in un mondo di profittatori gli ingenui e i deboli ci rimetteranno lo stesso: basta raccontare loro una storia diversa. E lo sappiamo benissimo.
Saviano però preferisce usare questa tragedia non a favore del prossimo ragazzino, ma per lanciare il suo messaggio politico, esattamente come fa Salvini. Con un paio di aggravanti: Saviano conosce davvero le implicazioni di ciò che sta omettendo ed è un narratore più convincente.
Secondo lui, il problema più grave dopo questa tragedia è che i genitori di questo ragazzo stanno ancora aspettando il visto per potere andare in Francia. Genitori che se fossero stati italiani sarebbero ora crocifissi per la loro negligenza. Se uno dei nostri ragazzi muore per una sfida online o perché attraversa di corsa una strada trafficata senza guardare, invochiamo la romantica sventatezza della gioventù e indaghiamo sulla catena di responsabilità chiedendo la corte marziale. Se muore così un ragazzo del Terzo Mondo, è solo colpa nostra e si espia con un visto, con una stretta di mano in un porto, con un po’ di soldi. Perché noi siamo talmente buoni e talmente antirazzisti, che a queste persone non riconosciamo neppure la responsabilità delle loro azioni.
Saviano ha aperto insistendo su quanto noi siamo privilegiati e questo ci piace sentirlo, così come ci piace crogiolarci nella pena spettacolarizzata. Di Africa non si parla abbastanza, dice lui che potrebbe anche solo menzionare la rivista online Africa perché migliaia di italiani inizino a leggerla, ma manco sa che esiste, e poi non gli serve allo scopo.
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