Il destino era già scritto per me all’isola di St. Lucia
– Prego, per di qua! –
È buio, sono già le sei di pomeriggio. È il 31 dicembre.
Io sono bollita e molle già dal 26, giorno in cui i malefici bacilli di chi so io hanno sconfitto l’esercito del mio sistema immunitario e mi hanno ridotto a un verme piagnucolante, con il naso cementato, la gola in fiamme e tanta voglia di strage o eutanasia.
Io sopporto molte cose, come sarà dimostrato in seguito, ma non il raffreddore. L’ho già detto in tutte le salse, ma c’è il solito problema del soggettivismo: per chi è abituato a passare l’inverno soffiandosi il naso, il raffreddore è una bazzecola. A me però non si tappa solo il naso: il cervello mi va in asfissia.
Per vendetta giuro che farò ritorno in Italia con un virus esotico di quelli robusti, e abbraccerò tutti generosamente.
Intanto però, raffreddata a morte, atterro a St. Lucia, un’isola tropicale con 27 gradi di media annuale e l’umidità di una sauna. Le mie capacità respiratorie peggiorano già all’aeroporto, una spianata d’asfalto circondata dalla giungla.
Mettici anche che ho paura di volare, ma tanta, e che ho fatto un mix di Zerinol, tutti gli alcolici serviti a bordo più una dose di ansiolitici che eccede la massima prescrizione consentita, e capisci perché dei primi giorni dei miei viaggi non ricordo mai nulla. Di solito. Ma questa volta è diverso: l’ha deciso il destino. Qualcosa mi attende su quest’isola, forse da secoli, ed è impaziente.
Al “per di qua” cerco vagamente di orientare gli occhi verso la zona indicata, più per cortesia che per capire veramente dove sto andando. Ho una valigia da dieci chili nella mano sinistra e ho marciato come una mucca sbronza lungo un sentiero in salita tra sassi e cespugli. Adesso si tratta di passare attraverso una zona di trifoglio dall’altezza difficilmente valutabile.
– O.K.! –
Mi secca che si accorgano che sono rimbambita: butto la testa in avanti e lascio che il suo peso trascini il resto del mio corpo, compreso il bagaglio. Faccio il primo passo col piede sinistro. Sotto il trifoglio cresciuto in un solo giorno a dismisura per le piogge c’è nascosta una buca, fresca anch’essa di giornata, scavata dai rivoli che scendono dalla collina. Io finisco con il piede sul ciglio e la mia caviglia si piega di botto, trascinando me e la valigia. Nessuno schiocco ma, con la lucidità fotografica dei momenti drammatici, sento le ossa della caviglia massacrare i tendini come una grattugia sfregata sulle corde di un violino.
Sono incappata in alcune storte memorabili nella mia vita, dalle quali sono rimbalzata indietro senza il minimo danno grazie alla danza classica che mi ha lasciato caviglie d’acciaio. Questa volta, però, so che è diverso.
Non posso appoggiare il piede. Arrivo al mio alloggio zoppicando, in uno stato di narcosi che rende i miei pensieri debolissimi. È Capodanno e nessuno ha veramente voglia di portarmi all’ospedale, dove, dicono i locali, al pronto soccorso si aspetta per un’intera giornata, a meno di non essere palesemente moribondi.
Intanto il soggettivismo mi perseguita: tutti mi raccontano delle loro esperienze drammatiche con le caviglie, e di come sia sempre andato tutto a finire bene. Io ho un sonno da morire e non riesco a respirare. Vorrei pensare che sia questo che fa delle mie insistenze sulla gravità della faccenda un pigolio inascoltato, ma la verità onesta è che per quanto in generale mi sembri di essere chiara in ciò che affermo, nessuno mi fila, mai. Punto.
Con un “vedrai che domani starai benissimo” crollo a letto sotto una zanzariera. Festeggio la mezzanotte svegliandomi di soprassalto per i botti e sbattendo il piede incidentato contro il muro. Mi riaddormento lo stesso.
Il giorno dopo è tutto come il giorno prima, sono solo un po’ meno intontita. La caviglia non è particolarmente gonfia ma ha un brutto colore e non posso ancora appoggiare il piede.
Mi ricordo che ho fatto un’assicurazione per il viaggio, cosa che non faccio mai, e il primo pensiero che mi sovviene rappresenta bene quanto il mio cervello abbia subito dei danni irreparabili a causa del raffreddore: fare l’assicurazione mi ha portato sfiga.
L’assicurazione è quella più economica che ho trovato online. In teoria prevede assistenza 7/24 attraverso un numero verde internazionale. Figurati se mi rispondono il primo dell’anno.
Invece risponde una signora solerte dall’accento francese. Mi da l’indirizzo di una clinica privata dell’isola, il cui nome, Tapion, fa spalancare gli occhi ai locali: “Ah, quella sì che è una bella clinica, hanno tutti i servizi, ma costa moltissimo!”.
Con la consapevolezza dell’alieno che arriva da mondi privilegiati, mi faccio portare alla clinica di gran lusso: una costruzione di due piani con vista sulla baia di Castries. L’erba che la circonda è ben curata dai due cavalli sciolti e magri che pascolano all’entrata.
Smonto dall’automobile come una vecchietta e mi avvicino all’entrata zoppicando, la caviglia fasciata da un pareo multicolore di caraibiche speranze.
Davanti all’ingresso c’è un signore vestito d’azzurro, potrebbe essere un inserviente. È un perfetto africano, discendente diretto di una stirpe di schiavi rapiti centinaia di anni fa in qualche luogo dell’Africa Occidentale. È lontano migliaia di chilometri dalla terra d’origine dei suoi antenati, ma per qualche sorta di magia usa la stessa identica espressione facciale che ho visto molte volte in Kenya, in Tanzania e a Zanzibar, nonché in alcuni quartieri africani di Londra e Parigi. Ovviamente è un’espressione che può essere interpretata in molti modi, ma io sono italiana, e nella mia cultura esprime chiaramente una cosa sola: “Minchia, un altro. Cazzo vuole?”
Io la mattina presto non sono molto socievole, soprattutto in casi come questi. Con il tizio ci fissiamo mentre io indico con un dito la mia caviglia. Lui, senza parlare, senza cambiare espressione e senza degnare di uno sguardo il mio piede, con un dito mi indica il piano superiore. Zoppico dieci minuti trascinandomi lungo la rampa di salita e quando sono sulla porta il tizio mi urla se voglio una sedia a rotelle. Per sua fortuna la mattina parlo poco, appunto, e non gli rispondo.
Entro nella clinica e mi ritrovo in una grande stanza. A destra c’è una scrivania scrostata con un computer degli anni ’90. A sinistra delle tende tirate a separare piccoli spazi. Una signora attempata, con indosso una divisa a metà tra la cuoca e l’infermiera, mi guarda esattamente come il tizio di prima. Questa volta, oltre a indicare la caviglia, annuncio:
– Ho bisogno di raggi x. –
Lei abbassa lo sguardo sul mio piede fasciato, con calma.
– Ti sei tagliata? –
– No, una storta. –
Altra valutazione dubbiosa a tutta la mia persona, mentre io mi dondolo in preda al disagio. Finalmente la tizia si decide, e non senza un’espressione che a me sembra di sufficienza & concessione, mi fa accomodare dietro una delle tende, dove c’è un lettino altissimo, sul quale non riesco a salire. Lei mi osserva mentre mi contorco fino a saltarci sopra, annuisce e poi sparisce. Torna dopo un bel po’ con un cuscino sul quale appoggio il piede che oramai ha assunto contorni a me sconosciuti. Se la caviglia è fratturata dovrò tornare a casa, risalendo su un aereo meno di 48 ore dopo il mio arrivo.
– C’è del ghiaccio? –
– Non credo, fammi controllare – e se ne va per un’ora. Il ghiaccio non arriverà mai.
Chiusa nello spazietto tra la mia tenda grigia e il muro senza finestre, cerco di capire quello che succede intorno a me. È il primo dell’anno e la clinica sembra affollata: ci saranno almeno 3 russi, passeggeri delle navi da crociera che qui approdano ogni giorno, che stanno vomitando anche le anime dei loro antenati. Ascolto una voce ripetere frasi in inglese, quasi urlando: – Ha l’ulcera? Le è già capitato questo nel suo Paese? Il suo stomaco sanguina, se continua a perdere sangue dovremo fare una trasfusione, ma non abbiamo sangue, qui. Ha problemi cardiaci? –
Posso piangere perché ho il raffreddore, anzi, io piango sempre quando ho il raffreddore, ma in questo caso, sarà la fifa, non riesco a preoccuparmi come buon senso vorrebbe. Sto un’altra ora ad ascoltare il vicino squassato da conati con la curiosità dell’avvoltoio.
Finalmente spunta un uomo dall’aspetto giusto per essere un giovane medico locale, brillante e pieno di buone intenzioni. Però è il contabile della clinica. Sottovoce mi comunica che la “tassa d’ingresso” da pagare è di 400 dollari americani, a cui si aggiungeranno gli esami e le eventuali terapie.
Rispondo che sono assicurata e lui mi risponde che loro non hanno convenzioni con nessuna assicurazione e che non fanno “emergenze”.
Che non ci sia una gran risposta all’emergenza l’ho già capito, ma chiamo l’assicurazione, che risponde solerte. Mi dicono di non pagare niente e che ci penserà il loro corrispondente locale. Dubito che ne abbiano uno proprio in loco, ma mi richiamano altre due volte rassicurandomi di avere contattato la clinica. Intanto io aspetto e fisso il mio nuovo collo del piede cercando di inviargli ordini telepatici di pronta riparazione.
Ho voglia di fumare.
Scivolo giù dal lettino come un lombrico e scosto la mia tenda lemme lemme. Fuori c’è la vecchia infermiera che mi legge nel pensiero e mi fa no col dito.
– Devo andare in bagno – mento io. Mi indica il bagno che è lì davanti, uno per tutti, e non fa il minimo gesto di aiutarmi. Ne approfitto per guardare com’è il bagno di questa clinica: triste.
Torno al mio lettino da trapezista. Mi addormento per via del jet leg e di tutto lo Zerinol che sto ingoiando. Mi sveglio. Sono passate sei ore da quando sono arrivata. Tutti ancora vomitano come prima, e uno piange.
Finalmente la tenda si scosta e c’è una ragazza con la divisa rosa e gli zoccoli sanitari. Mastica una gomma e ha lunghe unghie finte multicolore.
– Adesso ti portiamo sotto per la radiografia, O.K.? –
La prima sedia a rotelle della mia vita mi aspetta al di là della tenda. Vista la prestazione atletica che devo sostenere per scendere dal lettino e raggiungerla, deduco che abbia più una funzione rappresentativa.
È di quelle pieghevoli, e ha un predellino rotto. Chi la spinge è un ragazzo che non guarda dove va. Ritiro il mio piede cercando di evitare che sbatta contro gli spigoli, ma lui mi ordina di rimetterlo dov’era, questioni di protocollo.
Percorriamo un piccolo corridoio e prendiamo un ascensore interno che non ha mai passato una revisione. I controsoffitti del corridoio, come anche l’ascensore, sono piedi di macchie di umidità: questo è un paese dove pioggia e uragani possono far sparire spiagge, foreste e specie animali nel giro di una settimana.
Mi ritrovo in un sotterraneo rivestito di linoleum ammuffito. Ci sono due ragazzi che ciondolano, forse inservienti in pausa. In uno sgabuzzino, in mezzo a degli scatoloni, c’è una macchina per fare radiografie: dal colore e dal design capisco che risale a prima degli anni ’90. Anche in questo caso salirci sopra è un’impresa solitaria, ma posso riposarmi dello sforzo perché rimango lì mezz’ora a guardare la muffa negli angoli. Poi arriva il tecnico: senza una parola mi fa tre radiografie e se ne va. Io ritorno alla mia sedia a rotelle e mi spingo davanti al suo ufficio-cantina, dove lui sta compilando un foglio, mentre in fondo al corridoio i due ragazzi di prima continuano a fissare un muro.
– È rotta? –
Il tecnico radiologo continua a scrivere come se non mi avesse sentito per venti secondi, poi fa un sorrisetto e scuote la testa. Io esulto sulla mia sedia e i due ragazzi mi spalancano sorrisi fenomenali. Non hanno partecipato alla mia preoccupazione, ma stanno reagendo alla mia felicità.
Intanto l’inserviente vestita di rosa sopraggiunge masticando energicamente la sua gomma e mostrandomi parecchi denti:
– Devi pagare. 250 dollari. –
– Assicurazione. Hanno telefonato, tutto a posto. –
– Non credo, fammi controllare – e se ne va. Torna annuendo e io sono libera di essere trasportata sulla mia sedia cigolante al piano superiore, sperando nella visita di un medico. Rimonto sul mio lettino e mi ri-sintonizzo sui conati dei vicini.
Dopo un’ora arriva una dottoressa: magra, altissima, capelli corti. Sembra una campionessa di pallacanestro. Ha un viso dolce e mi sfiora la caviglia con fare materno mentre mi dice che c’è qualcosa che non va nella radiografia, hanno chiamato l’ortopedico che arriverà a momenti.
Ho finito la batteria del telefono e anche i fazzoletti per il naso. Mi rimetto a dormire.
Mi sveglia l’ortopedico scostando la tenda, seguito dalla dottoressa cestista. Lui guarda appena la mia caviglia, la tasta un po’ chiedendomi dove mi fa male.
Io giuro che sto benissimo. Non so perché lo faccio, ma mi pare che uscire da lì sia oramai la cosa più importante.
Lui tiene una breve lezione alla dottoressa sulle fratture della caviglia e mi annuncia che almeno due legamenti sono danneggiati: non si sono lacerati del tutto, ma quasi. Non potrò camminare per un mese e dovrò usare le stampelle e un tutore rigido, che mi saranno consegnati a breve.
– Passi dal mio studio tra una settimana e le dirò se può stare senza stampelle. –
Mi saluta caramente e se ne va con la dottoressa gnocca.
Sono dieci ore che vivo su un lettino di finta pelle vecchia, quando arriva l’infermiera attempata con lo sguardo scettico e due stampelle. Sono di quelle dritte, senza sostegno per il gomito. Provo a usarle, ma mi fanno bruciare immediatamente le ascelle e temo che possano infiammare qualche linfonodo: oramai ho capito che il 2018 non sarà il mio anno fortunato. Inoltre non vedo dove io possa aggirarmi con le stampelle in un paese di foreste pluviali.
L’infermiera scettica nel frattempo ricompare con il tutore rigido: due valve di plastica con gli interni imbottiti. Scoprirò in seguito che le due imbottiture dovrebbero aderire alle valve tramite due strisce auto-adesive che non sono più adesive, e che potrebbero essere gonfiate con una cannula, che non c’è. Intanto l’infermiera si rigira perplessa il tutore tra le mani, come mia mamma il suo primo smartphone. Troviamo un modo per piazzarlo e finalmente posso andarmene sulle stampelle, con una bustina contenente due antidolorifici e un gastro-protettore.
Passo una settimana a letto, immobile. La zanzariera è la mia tenda a ossigeno e il mio sudario. Guardo tutte le immagini anatomiche di una caviglia che trovo sul Web, mi auto-esamino, consulto amici medici al telefono.
Forse dovrei fare una risonanza magnetica per capire quanto sono danneggiati i legamenti. Tutti mi assicurano che in un mese dovrei guarire, ma io voglio indietro la macchina perfetta che era la mia caviglia, non una mezza vigogna.
Mi deprimo, m’indebolisco, precipito in un gorgo di pensieri angosciosi e frustrati. Il problema è che non potendo usare il corpo nel modo preciso a cui sono abituata, semplicemente non mi riconosco, sono una persona diversa. Sto perdendo equilibrio e coordinazione un pezzo al secondo.
Sembra che tornare a casa sia l’unica opzione: il posto dell’isola nel quale abito si trova in mezzo alla foresta e per raggiungere una strada devo rifare il sentiero dell’andata, pieno di buche, di erba e di fango, superando anche un fosso sul quale è stato piazzato, a mo’ di ponte traballante, un bancale marcito.
Dal mondo delle cose facili intanto arrivano consigli e incoraggiamenti: “Anch’io ho girato un mese con le stampelle, dai che ti diverti!” “Vai subito da un osteopata che fa la terapia del taping, così previeni complicazioni!”
Io guardo dalla finestra i ragazzi locali che camminano a grandi falcate elastiche, portando le capre al pascolo. Sono acutamente consapevole dell’incredibile e complessa flessibilità delle loro caviglie.
Perché sono voluta finire in un posto così selvaggio? Anche arrivare in Martinica, che sta a poco più di due ore di traghetto, e dove forse riceverei cure migliori, è un’impresa, adesso.
Pensavo di avere due gambe buone, ecco perché sono venuta qui. E poi perché questo è il posto abitato più vicino alla spiaggia dell’Isola Che Non C’è, la cui ubicazione non rivelerò mai a nessuno. Un posto come ne rimangono pochi e a cui si accede con molta fatica e qualche colpo di machete. Dopo un viaggio lunghissimo, ora non posso più percorrere l’ultimo tratto per arrivarci, e questo mi fa venire voglia di commettere pazzie.
Il tempo passa e io fisso il soffitto. Quando gli scrosci di pioggia si fanno più intensi, il muro contro il quale appoggio i miei cuscini trasuda gocce d’acqua. Non riesco a prendere decisioni e non ho voglia di fare niente.
Dopo una settimana vado all’appuntamento dell’ortopedico. Aspetto un’ora buona durante la quale la sua impiegata mi misura la pressione e si preoccupa, mi chiede quanto sono alta, non riesce a comprendere la misura espressa in metri e non in foot, e si preoccupa. L’ortopedico mi visita cinque minuti in una stanzetta spoglia e mi libera dalle stampelle. Non ha accettato di essere liquidato dall’assicurazione e devo anticipare il denaro io: mi chiede 160 dollari americani per la visita.
Per festeggiare l’abbandono delle stampelle vorrei fare una gita, solo che non posso mettere nessuna calzatura normale. Il destino quindi si decide a darmi un segno: ho messo in valigia un paio di scarpe di gomma per camminare sugli scogli, che risalgono agli anni ’90 e non sono neppure mie, sono di un numero più grande. Stavano a casa da decenni a occupare spazio, e io ogni volta che viaggio amo portare piccoli oggetti quasi sicuramente inutili, che saranno liberati in loco, tanto per far circolare le cose.
Con la scarpa di gomma, il calzino e il tutore, la gamba e il piede saranno destinati a una cottura lenta e costante, mentre dall’Italia tutti continuano a chiedermi: “Ma lo metti, il ghiaccio?”
La mia prima camminata è di quaranta minuti buoni, senza stampelle, su terreno accidentato e scosceso, ma soprattutto bagnato e fangoso. Non ce ne sono di altro tipo.
Quando arrivo al mare – non alla MIA spiaggia, purtroppo – tolgo il tutore e faccio il bagno. Torno a casa piena di sabbia e mi accorgo di un particolare che avevo trascurato: le due valve di plastica sono tenute insieme alle estremità da una fascia che passa sotto il piede. È un non-tessuto sottile e poroso, che con l’umido tende a dissolversi.
Basta un’altra settimana di camminate da venti minuti e la fascia è andata. Senza di quella le valve non aderiscono ai malleoli e il tutore diventa inutile. Camminare senza tutore è troppo doloroso.
Chiamo l’assicurazione, che chiami la clinica per un tutore nuovo. Ho controllato su Amazon ed è il più economico sul mercato: costa 15 euro, ma ci metterebbe almeno dieci giorni ad arrivare via posta.
Dalla clinica Tapion rispondono che al momento non hanno nessun altro tutore.
Con un guizzo di energia decido quindi di andare a chiederlo all’ospedale pubblico del micro stato di St. Lucia, che elargisce prestazioni sanitarie a 170.000 persone e che tutti dicono essere un prototipo del purgatorio. Non c’è niente di meglio di una gita di questo genere se si vuole capire davvero come funzionano le cose in un posto. Tanto non posso fare altro che stare seduta per la maggior parte della giornata.
L’ospedale Victoria non è distante dalla clinica Tapion. Lungo la strada incontro di nuovo i due cavalli magri che pascolano sul ciglio della strada, ma a darmi il benvenuto all’ingresso questa volta ci sono delle galline.
Non c’è tutta la calca che mi avevano detto: mi pare che non ci sia quasi nessuno. Vengo indirizzata al reparto di fisioterapia, che è una stanza con la porta chiusa. Mi siedo su una sedia di plastica nel corridoio spoglio e aspetto.
I pochi pazienti che si aggirano non sembrano dei ricoverati: si tratta perlopiù di persone anziane che faticano a camminare. Hanno tutte un semplice bastone di legno e non vedo sedie a rotelle parcheggiate da nessuna parte.
Mi decido a fermare una ragazza che indossa un camice e ha uno stetoscopio al collo, segno di distinzione dei medici di tutto il mondo: le dico che sono lì per comprare un nuovo tutore in sostituzione di quello rotto. La ragazza mi promette che manderà qualcuno a cercare se ce l’hanno.
Passa un’altra ora e finalmente arriva un’inserviente che attacca a rovistare tra gli scatoloni di uno sgabuzzino che è lì nel corridoio, proprio accanto a me. Trionfante ne esce con un tutore nuovo, identico al mio. Purtroppo però è per bambini ed è veramente troppo piccolo. Non ne hanno altri.
A qualcuno viene in mente di chiamare la clinica Tapion, che conferma di avermi consegnato l’unico che aveva, e che per mia eccezionale fortuna era anche della taglia giusta. Un giro frenetico di telefonate da parte della mia assicurazione a tutte le cliniche del piccolo Stato conferma il sospetto: dopo il corsaro francese François le Clerc detto anche Gamba di Legno, approdato a St. Lucia nel 1555, pare che io sia la prima e unica persona sull’isola a possedere una sorta di protesi mobile. I passanti infatti fissano perplessi la mia gamba e un bambino si è persino spaventato, mettendosi a piangere.
Prima di zoppicare fino a un bar dedicato proprio a le Clerc e che si chiama appunto Jambe de Bois, scolarmi un barile di rum e ragionare sulle responsabilità che un tale destino si porta appresso, nonché valutare se sia il caso di andare a scavare a Pigeon Island per riportare alla luce la polveriera del mio antenato adottivo… ho da mettere in atto il piano d’emergenza: la riparazione piratesca del tutore.
Diversamente da le Clerc non ho neppure bisogno di un falegname: mi basterà un calzolaio. Magari anche solo un nastro di velcro.
Quando arrivo al negozio di articoli casalinghi nel centro cittadino di Castries, ho già scoperto che “velcro” a St. Lucia non è una parola di uso comune. La cassiera del negozio è semisdraiata sul bancone con un braccio disteso mentre la sua amica le sta accuratamente applicando lo smalto su un’unghia finta. L’espressione con cui mi guarda è la stessa dell’inserviente e dell’infermiera della clinica Tapion. Non ha il velcro, non sa dove sia un calzolaio.
Mi dirigo zoppicando al mercato della frutta, un posto caratteristico che i turisti preferiscono fotografare stando dall’altro lato della strada, che è più sicuro. Oramai devo portare a termine la missione e spero che le Clerc mi protegga.
Finalmente arrivo a un banchetto seminascosto dove ci sono degli attrezzi e un sandalo di pelle in costruzione. Il rasta seduto lì davanti, con i capelli raccolti nel berretto di maglia multicolore, ha le sclere arancioni e mi fissa cercando di capire se sono un’allucinazione.
– Salve, sei tu il ciabattino? –
– … –
– Sto cercando il ciabattino, devo riparare questo – e indico il tutore, che il rasta fissa inorridito.
– … Non c’è, è andato a fare un giro. –
– Pensi che tornerà? –
– Non lo so… era qui… – si alza e fa due passi guardandosi intorno. Sento gli sguardi della gente pungermi la schiena.
– È un problema se mi siedo e fumo una sigaretta mentre lo aspetto? –
– … No. –
Sono in una specie di vicolo corto che passa sotto una costruzione e sbuca in un’altra strada. Lì al riparo da sole e pioggia ci sono un po’ di sfaccendati, un tizio che mangia dal solito contenitore di polistirolo, un barboncino randagio e infeltrito che siede al centro di tutto, un occidentale con i capelli da rasta completamente fumato che ride da solo, una vecchia col gozzo e un gruppo di ragazzoni cattivi con un’automobile rossa e tamarra, da cui esce musica a volume mostruoso. Nessuno mi guarda direttamente.
Poso la mia busta con la spesa e mi siedo su una cassa di frutta vuota, con il tutore in bella vista.
Arriva il ciabattino e tutti si precipitano a indicarmelo, sollevati. A quanto pare l’unica che si stava divertendo della mia presenza lì, ero io.
Il ciabattino è un rasta magro, con la barba grigia. Bello fatto anche lui.
Quando gli mostro il problema mi fissa confuso, ma poi l’indole dell’aggiustatore di cose ha il sopravvento. In fin dei conti quella è una sfida interessante.
Senza una parola prende delicatamente tra le mani il mio tutore, lo rigira un po’. Comincia a cercare tra i suoi attrezzi coperti da uno straccio sporco, che sono in verità pochissimi. Alla fine scova due pezzi di similpelle, tira fuori un centimetro di carta dalla tasca, un coltello, e attacca a lavorare, lo sguardo finalmente a fuoco. Gli altri fingono indifferenza.
Io a quel punto mi azzardo a girare un breve video, ma avviso i lettori che in questo genere di situazione si tratta di un gesto pericoloso, che potrebbe avere conseguenze impreviste: ragazzi, non fatelo da soli senza la supervisione di un fantasma come François le Clerc Gambadilegno.
Il ciabattino rasta finisce per appassionarsi al lavoro e si mette a pettinare anche i peletti delle cuciture. Quando mi riconsegna il tutore riparato io mi allontano spedita, e il rasta seduto lì vicino è costretto a chiamarmi indietro affinché io recuperi la busta della spesa che ho abbandonato ai suoi piedi.
La riparazione è durata due giorni, giusto il tempo per scovare un negozio di indiani in possesso di mezzo metro di comunissimo nastro di velcro da merceria e pagarlo l’equivalente di 20 euro.
Ora giro con un pezzettino di velcro in tasca, della misura giusta, per le sostituzioni.
La scarpina di gomma, serio prodotto degli anni che furono, resiste. Assieme al tutore, è stata promossa a “bagaglio essenziale” per i prossimi viaggi, perché nel frattempo ho scoperto quanto la combinazione tutore & zoppia costituisca un vantaggio sotto molti aspetti:
– Le automobili si fermano e mi consentono di attraversare strade trafficate, che altrimenti non sarei tanto brava ad attraversare (vedi Lezioni di vita a Dar es Salaam).
– Nessuno osa chiedermi dove sto andando o da dove arrivo: entro così nei resort più esclusivi mentre gli uomini della sicurezza fissano la mia gamba interdetti. Mi accomodo sui lettini, ordino da bere a bordo piscina.
Sono anche entrata al parco di Pigeon Island senza pagare, ma forse in quel momento ci ha pensato le Clerc rendendomi invisibile.
Sono salita in cima alla collina, fino alla torretta d’avvistamento dell’ammiraglio Rodney, e l’ultimo pezzo – una scala di legno ripidissima – l’ho fatto tirandomi su con la sola forza delle braccia e la gamba penzoloni.
Arrivata in cima, i turisti che erano lì mi hanno applaudito: sembravano molto impressionati dalla mia determinazione. Avevano le chiappe spalmate sulle rovine di un forte vecchio di 300 anni, realizzato da europei che hanno disboscato un’intera collina ricoperta di giungla soltanto con dei machete, squadrato pietre a martellate, costruito tetti, cisterne per la purificazione dell’acqua, depositi di armi, trasportato con le corde cannoni pesantissimi. Il tutto sotto una pioggia continua, tra nugoli d’insetti e vapori mefitici, indossando l’unico abbigliamento che avevano: divise d’ordinanza invernali, fatte di panno ruvido e pesante.
Sono quasi tutti morti di febbri e le loro tombe sono proprio lì sotto, robusti sarcofagi di marmo fatti arrivare da lontano e che gli uragani hanno divelto gettandoli a caso sui pendii, cancellando nomi e date.
Noi europei abbiamo fatto tante cose moralmente condannabili, ma non si può negare che fossimo gente energica e determinata. Com’è successo che siamo diventati così lolloni?
Altri vantaggi dell’indossare l’unico tutore rigido esistente su un’isola caraibica:
1) Lettino gratis sulla spiaggia più famosa, offerto dal gestore di lettini di discendenza Carib , perché “me lo merito” e perché sto prendendo appunti sulla storia della sua vita, che lui è una persona speciale, e io pure: l’ha visto subito.
2) Tutti mi riconoscono, hanno rinunciato a tentare di vendermi qualcosa e mi sorridono quando passo, affermando con certezza di trovarmi molto più in forma del giorno prima, anche quando non è vero.
3) Non c’è scalinata o discesa ove io non trovi un bel giovine pronto a porgermi cavallerescamente la mano. Si offrono di massaggiarmi la caviglia con unguenti di preparazione casalinga garantendomi guarigione immediata.
I più romantici si offrono persino di trasportarmi:
(Grosso esemplare di caraibico. Altezza: 2 metri secchi. Larghezza: più di 2 metri se spalanca le braccia. Peso: a occhio 120 kg più 10 di capelli in treccine che scendono fino ai polpacci. Mani grandi come padelle. Denti perfetti, mortacci sua):
– Darling! Cosa ti è successo alla gamba? Dove stai andando? Lascia che ti ci porti io tra le mie braccia! –
– Naa, non sei abbastanza robusto per il lavoro. –
– Donna! Ma mi hai visto?! – E si sfila la canottiera attaccando a tirarsi pugni tremendi sui pettorali.
C’è ovviamente anche qualche svantaggio: in caso di fuga da un grosso caraibico incazzato e ferito nell’orgoglio occorre fare lo slalom tra le pozzanghere saltellando su un piede solo.
Non posso scalare i Pitons, almeno per il momento. E poi la sabbia si infila sotto il tutore e gratta, mentre la tibia non si abbronza.
Approfitto anche per comunicare a molti dei miei conoscenti che la forza delle onde sulla battigia da queste parti non ti fa l’idromassaggio che sgonfia, ti stacca il bacino dalla colonna vertebrale.
Non ho mai sottovalutato la preziosità di un corpo agile. Ora più che mai desidero riaverlo completamente indietro e prometto che me ne prenderò più cura.
François le Clerc, però, cinquecento anni fa, con un braccio paralizzato e una rozza gamba di legno (che in un posto umido come questo si sarà probabilmente rotta con la stessa frequenza del mio tutore e sarà stata sostituita più volte) ha continuato a fare il corsaro a tempo pieno. Gli hanno sparato mentre saltava all’arrembaggio di una nave spagnola, nelle Azzorre. Aveva una gamba di legno, ma è morto in volo.
Adesso che so che si può fare, mi sento più tranquilla.
La mia assicurazione di viaggio, scelta a caso e rivelatasi un buon affare, è questa: https://www.traveleasy.it/ Un solo appunto: non mi ha mai rimborsato i 160 dollari che ho dovuto pagare cash, quindi se intendete usarla fate in modo di non anticipare nulla.
Altri luoghi avventurosi:
Compravendita di schiavi nei registri degli Archivi di St. Lucia
Isola di Icaria e il mito di Icaro: tutto da rifare
Sull’isola di Naxos c’è un tesoro, capitolo XI