Dal Centro America a Milano
Le facce sono molto meno sorridenti: Salvador sembrava un aeroporto scrostato, ma Malpensa non sembra meglio. Agli Arrivi c’è il solito vuoto di nastri neri, e all’uscita un’installazione tombale che sputa una nebbiolina fredda e che mi fa pensare al mio frigo: chissà se funziona ancora.
La gente a Milano non è elegante come ci era piaciuto millantare, mentre guardavamo con sufficienza i ricchi del tropico, pallidi ispanici con la mania della purezza del sangue e dei vestiti pacchiani. La gente sciatta e sovrappeso c’è anche qua, più di quanta ne ricordassi.
Ci scontriamo subito con la complicata burocrazia italiana, che colpisce puntuale anche chi vuole solo comprare soltanto un biglietto per Cadorna. Per uno straniero, procurarsi all’aeroporto di Milano un biglietto per un mezzo che porti in città non è meno complesso che a Managua, Salvador o Bombay.
Una volta in Stazione Centrale riscopro le file rabbiose dei viaggiatori e gli atteggiamenti duri del personale. Corro a fare il biglietto al distributore automatico e un sacco di persone, alcune stracciate e malate, altre italianamente ben vestite – una ragazza carina, una signora per bene – mi circondano come avvoltoi per aiutarmi a fare il biglietto e avere un po’ del mio resto in cambio.
C’è un barbone che parla anche inglese e aiuta a premere i bottoni giusti. La ragazza carina, visto che sembro cavarmela da sola, mi chiede dritta dei soldi, con la solita scusa dell’arrivare a comprare un biglietto per andare non si sa bene dove. A quello di fianco chiede invece dei soldi per mettere insieme un pranzo.
Ho visto pochi mendicanti in Centro America: ti porgono la mano senza dire nulla, mentre in India a volte recitano una piccola preghiera. Che sono indigenti si vede, non c’è bisogno di scuse.
Decido di dare un euro alla ragazza carina, che si può permettere il vizio della tossicodipendenza e forse ha deciso di guadagnarsi così l’Iphone nuovo. Mi sento subito in colpa perché ai pochi a cui ho fatto la carità in Centro America ho dato qualche centesimo, ma qui temo rimostranze da parte della corporazione dei mendicanti: siamo in un paese industrializzato.
La ragazza non guarda il denaro: lo prende e subito mi volta le spalle, ricominciando a chiedere a qualcun altro. Siamo una razza di lavoratori indefessi, non perdiamo tempo, neanche quando chiediamo la carità. In Nicaragua il poveraccio avrebbe ringraziato e sorriso. Ecco perché non avrà mai un Iphone.
Mentre cammino per i corridoi della Stazione Centrale, però, mi compiaccio dei negozi pieni di abbondanza così come poco prima mi ero goduta la vista dei palazzi eleganti e ben costruiti.
Solo che mancano gli alberi, e i pochi che ci sono sembrano succhiati, vinti, sfiniti.
Cerco di trovare entusiasmo in tanta arte raffinata, ma non riesco a smettere di notare, proprio come insistevo a fare in Nicaragua, le crepe dei muri, le macchie sui vetri, il manichino sbeccato, gli angoli sporchi da cui penzola qualche filo. Ci sono anche qua, mi sento tradita.
Per terra è pieno di tracce di gomme da masticare pestate e riempite di batteri disgustosi, che qualcuno, facendo un lavoro che al solo pensarci mi viene la nausea, ha diligentemente e faticosamente grattato via dal pavimento. Ma a migliaia restano le macchie unte e scure, grosse come un sputo corrosivo.
Le moderne città dell’America Centrale hanno oramai gli stessi negozi, con le stesse vetrine, di Milano. Anche la musica è la stessa, solo che là viene messa fuori, in strada, e le casse acustiche sono potentissime. Roba che quando gli passi davanti ti si cappotta il diaframma.
Eppure una differenza c’è, e ci metto un po’ a capire cos’è a far sembrare tutto più bello: l’illuminazione. Tutto splende di più grazie ad un’abbondanza di luce, sapientemente sistemata. Siamo più ricchi perché siamo più illuminati. Spendiamo di più per ammantare tutto di prezioso.
Ho provato ad immaginare le vie di Milano poco illuminate e anche con le lampadine a risparmio energetico. Ora capisco l’avversione di chi odia i neon: riporta tutto alla realtà.
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