Supereroi, l’insensatezza

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libro digitale supereroi di loredana de michelis

SUPEREROI

l’insensatezza

Copyright© 2005 Loredana de Michelis

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Questa è una storia breve, ma piena di eventi che non sono quasi mai accaduti. Ogni riferimento a fatti o persone è reale, solo che si tratta di cose successe tanto tempo fa, e soprattutto, in un universo parallelo. Quindi nessuno se la prenderà a male.

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Introduzione

Tre amici avevano deciso d’intraprendere un lungo viaggio in utilitaria, verso una destinazione vaga. Qualche boccia di vino era stata consumata subito dopo la partenza, mentre il pranzo al sacco, preparato da dei bravi genitori come non se ne trovano più, stava bello a cuccia nella borsa-frigo, con forchettine e tovagliolini. Il vento dell’estate entrava dai finestrini attorcigliando i capelli e gonfiando le canottiere.
I tre amici, guidatore compreso, s’impegnarono al massimo per assumere posizioni stravaccatissime.
Fu alla curva stretta, quella da cui si vedeva solo il cielo perché sotto c’era lo strapiombo, e proprio durante l’esecuzione a tre voci di Quando saremo fora fora de la Val Sugana, che l’ombra nera di un’automobile che sbandava tagliò improvvisamente la strada e il pomeriggio.
Fermi con il motore imballato, il pranzo al sacco spappolato contro il parabrezza, i tre sopravvissuti per un pelo si ritrovarono improvvisamente seduti composti a fissare il muso dell’utilitaria, che era a pochi centimetri da un salto mortale.
L’allegria si era beccata uno schiaffo a sorpresa e si era volatilizzata. Al suo posto era arrivata una consapevolezza morbosamente definitiva: il mondo era un brutto posto, pieno di imprevisti e guastafeste.
Fu allora che un fiotto incandescente di pura ribellione si fece strada nelle loro giovani vene e si legò in un patto di santa alleanza con l’adrenalina e l’alcool che già vi scorrevano. Se questo era davvero il mondo, beh, non era come avrebbe dovuto essere: bisognava farci qualcosa.
Il capitano Buono Ballantines Swatch, che sapeva a memoria tutte le battute di tutti i film di Walt Disney in tre lingue diverse, ingranò la prima urlando Tora! Tora! Tora!
Il colonnello Tequila Sunrise, pericolosa nella sua imprevedibilità, tirò fuori la macchina fotografica e iniziò le operazioni di caricamento.
Il colonnello Rajban, nota per i suoi stati aggressivo-depressivi, estrasse il coltello da sub dallo zaino e soffiò via le briciole di tabacco dall’impugnatura.
Allacciarono le cinture, e a velocità sferragliante raggiunsero il bolide che li aveva riportati alla realtà, e che si trovava incautamente fermo a un semaforo. Swatch, occhi strabuzzati e denti scoperti su un ringhio feroce, lo chiuse con una manovra azzardata, mentre Rajban si sporgeva pericolosamente dal finestrino tirando gran fendenti di coltello e urlando all’autista basito: «Scenni! Sceenni!»
Tequila approfittò della situazione per impossessarsi al volo di uno degli specchietti laterali del bolide, che son sempre utili per truccarsi in campeggio. Scattò inoltre alcune interessanti fotografie della faccia del malcapitato.
Da quel momento nacquero i supereroi: non erano di questo mondo cattivo e avrebbero lottato contro il destino ingiusto usando la fantasia e qualche sabotaggio illegale.
Per ovvi motivi di sicurezza, proprio quel giorno furono costretti a separarsi: avrebbero continuato la loro missione in solitaria e sotto copertura.
Dopo avere portato l’auto dal meccanico affinché fosse dotata di nuovi dispositivi speciali e un doppio portacenere, si salutarono alla fermata di tre bus diversi per i quali non avevano biglietto, facendosi una solenne promessa: ogni anno, per cinque anni, avrebbero fatto in modo di riunirsi per un giorno, ma senza fare il punto della situazione.
Quel giorno sarebbe stato automaticamente il giorno del compleanno del Capitano Buono Ballantines Swatch.

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I natali dei Supereroi

Swatch, Tequila Sunrise e Rajban sono originari del lontano pianeta di Salvelox, un satellite popolare alla periferia di pianeti più altolocati da cui provengono supereroi più famosi, cioè quelli che hanno fatto carriera grazie alle solite raccomandazioni.
Dire quando i Supereroi siano nati non è possibile e il concetto di tempo su Salvelox non è paragonabile a quello terrestre sotto nessun aspetto: uno nasce che ha già la patente, per esempio, ma possono volerci anni di duro apprendimento, come nel caso di Rajban, anche solo per imparare a cucinare una pasta in bianco.
Di certo si sa che Rajban è apparsa sulla terra a cavallo di una bicicletta, in una città del Nord. Nonostante ciò, si narra che le sue prime parole terrestri siano state una sfilza di improperi dal marcato accento meridionale. Gli improperi, così come il malsano pallore che la caratterizzano, sono probabilmente da imputarsi al fatto che la bicicletta fosse senza freni.
Tequila Sunrise è apparsa al mare, sotto una patella. Durante il periodo di necessaria incubazione per acquisire un ingannevole aspetto umano, si è nutrita della patella e anche di qualche vongola che capitava a tiro. Un bel giorno si sentì un rumore come di stappamento e T.S. stava su uno scoglio stesa ad asciugare.  Era già abbronzatissima.
Anche il capitano B.B. Swatch fu rinvenuto al mare, chiuso in una bottiglia di Ballantines. La bottiglia era vuota e lui ubriaco spolpo. Gli schiaffarono una multa per natanza pericolosa e come documento gli lasciarono in tasca il biglietto che in origine era stato legato al collo della bottiglia dalla cicogna. Diceva: Salvelox. Dopo averlo estratto dalla bottiglia lo infilarono subito in una busta con su scritto: “R.B. & T.S., colonnelli”. Infine lo abbandonarono sui gradini di un ufficio postale.
L’incontro dei tre supereroi fu memorabile. Il postino tentò di svegliare Rajban alle dieci di mattina: era un tipo ligio al dovere e prima di darsela a gambe per via delle fucilate che provenivano dal dispositivo attaccato al campanello, infilò a forza la Swatch-Busta sotto la porta. Quando venne recuperato, dopo colazione, Swatch aveva la divisa stiratissima e chiese un calice.
Rajban lo mise a bagno per farlo rinvenire e inviò un messaggio telepaticoatmosferico a Tequila Sunrise, che prese un automobilista e si precipitò sul luogo.
L’automobilista fu poi abbandonato in un parcheggio.
La prima riunione dei supereroi era iniziata e ognuno si mise al suo posto di combattimento.

Colonnello Tequila Sunrise, detta anche Tequi o Rise: carattere socievole, lunghi capelli biondi e decolleté ipnotizzante.
Doti artistiche e musicali.
Spiccata tendenza al melodramma e a tagliare le gomme delle automobili se provocata.

Colonnello Rajban, detta anche Raj: fisico sinuoso, movenze da cobra.
Spesso armata, ha una filosofia di vita semplice: meno gente al mondo uguale più spazio per tutti.
Imbattibile a biliardo.

Sergente Swatch: promosso dietro sua insistenza e per missioni compiute sul campo a Capitano Swatch. Ribattezzato successivamente dietro sua insistente richiesta e per onori guadagnati sul campo in Capitano Buono Ballantines Swatch.
Doti artistiche e musicali.
Apparato vocale ibrido messo a punto presso galassie avanzate: può imitare qualunque suono, voce, rumore. Persino Johnny Dorelli.
Imperituro aspetto giovanile e doti atletiche supereroiche.

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Compleanno primo del Capitano Buono Ballantines Swatch

Fu deciso che cadeva il giorno dell’ennesimo anno di permanenza del Capitano Buono Ballantines Swatch sulla terra. Non che Swatch sembrasse invecchiato e in realtà nessuno si era mai preso la briga di segnare sul calendario la data memorabile del suo rinvenimento terrestre. Ma il Capitano sembrava avere un orologio interno tutto suo, e quando decise che quello sarebbe stato il giorno del suo compleanno, non ci fu modo di dissuaderlo.
Tutto cominciò di prima mattina, appena alzati, verso le undici. Swatch era in cucina che stava provinando le candeline: ce n’erano a centinaia ed erano arrivate dalle province più remote. Attendevano tutte in fila in preda all’ansia, ma smaniose di esibirsi.
Alcune avevano un aspetto molto classico: azzurre, sottili, scolpite a torciglione. Altre si piegavano sudate assumendo la forma di numeri dai colori sgargianti.
In entrata, dietro a un paravento, si dimenavano nervose alcune candeline vestite di latex, con calze a rete e i tacchi a spillo. Qualche candelina rosa, disoccupata, si era presentata lo stesso.
Sawtch, avaro di parole come sempre, chiamava ciascuna candelina con un gesto della mano, la osservava a lungo pensieroso, poi le mostrava cosa avrebbe dovuto fare: assumeva la posizione dimostrativa, intonava Happy Birthday e si accendeva come un fornello, improvvisando focolai stranissimi. Invitava poi la candelina a fare altrettanto.
Rajban, passando per andare in bagno, approfittò della situazione per appoggiargli sulla testa il bollitore del tè e la caffettiera per il caffè di Tequila Sunrise.
«Swatch! C’è del latte fresco, parzialmente scremato, biologico, con aggiunta di collagene?» Chiese Tequila, che stava attraversando un periodo di difficile rapporto con la propria immagine pubblica.
Swatch, muovendosi come un indossatore per via delle pentole sulla zucca, estrasse velocemente una mucca viva dal frigo e la lanciò sul tavolo del soggiorno, dove questa andò a posarsi pronta per la mungitura, con un secchio di legno tra le zampe e piattini e tovagliolini ricamati tutt’intorno.
«E che dovrei fare: mungerla? Ma sei scemo?» Disse Tequila stizzita, accendendosi una sigaretta.
«Orecchio destro per latte solo, orecchio sinistro per fratino al cacao, signore. La cannuccia è servita.» Disse Swatch versando tè e caffè e imburrando tartine con una mano sola, mentre mescolava lo zucchero nelle bevande. «Adesso però scusatemi: è il mio compleanno.» E si allontanò canticchiando.
Raj intanto, di ritorno dal bagno, inciampò in una coppia di sposini di gesso, mandati lì da un agente incompetente. «Che è tutta sta fuffa? » Esclamò perplessa alla volta di Tequila.
Ma Tequi, che aveva attaccato il suo beverone e fissava il vuoto con occhio sporgente e lucido succhiando sei litri di latte e cacao senza prendere fiato, non le rispose.
Intanto Swatch, commosso dal gran numero di aspiranti allo show del suo compleanno, aveva accettato tutti i provinanti e stava cercando di organizzare una coreografia.
Rajban si offrì di preparare un numero di striptease per le candeline sadomaso.
Tequi si mise a lavorare all’uncinetto per preparare un simpatico cappellino etnico al Swatz come regalo di compleanno.
Intanto arrivò la torta ed era tardo pomeriggio.
Preparata dal famoso cuoco Senior, giungeva direttamente dall’Italia, e i gamberi di decorazione erano così freschi che il fattorino aveva perso sei dita durante il trasporto. L’aragosta di farcitura scalpitava per sbucare fuori a sorpresa e cantare In fondo al mar in sette lingue diverse.
Tequi e Raj si agghindarono da gran sera. Il capitano sfavillava nella sua alta uniforme. L’astronave brillava di decorazioni natalizie e per l’occasione era stata invitata un’orchestra di quattrocento elementi: erano tutti grilli violinisti specializzati in stornelli romani.
Tequi annunciò che forse, in via del tutto eccezionale, avrebbe intonato la prima strofa di Facette largo che passamo noi, ma poi disse che non l’avrebbe cantata perché il mixer funzionava male.
«Il frullatore funziona benissimo!» Disse Rajban, «Mi sono appena fatta un mela-banana-farina di cocco con mezza bottiglia di Bacardi!»

Suonarono le nove, e non erano ancora arrivate.

A Swatch, per l’inquietudine, continuavano ad accendersi fiammelle ovunque, e quando Rajban gli diede una pacca d’incoraggiamento sulla schiena, lui eruttò una fiammata che fuse tutta la prima fila di candeline.
Per fortuna la voce si era sparsa e c’erano decorazioni per torta ovunque, che prontamente sostituirono i periti sul campo: alcuni confetti si misero a pattinare sulla cera fusa, eseguendo i numeri più famosi di Holidays on Ice.
Finalmente, quando tutti pensavano ormai a un bidone clamoroso e i colonnelli stavano dipingendosi con i colori di guerra, un prodotto ipoallergenico di Guerlain, arrivarono: Esmeralda de Il gobbo di Notre Dame e La Pesciolina di Pinocchio fecero il loro ingresso a bordo di un cocchio trainato da un tiro di quattro cicogne ricoperte di finimenti dorati.
Swatch era paralizzato dall’emozione e fu necessario mettergli i piedi in una tinozza d’acqua e ghiaccio, perché il linoleum del pavimento sfrigolava.
L’orchestra attaccò di gran carriera.
Tequi Rise disse: «Bleah! Sto bassista non vale una pippa.» Ma in realtà stava fissando le due con occhio assassino. «Bel vestito, tagliato bene, quasi non si vede che è imbustata come un paralitico.» Disse, riferendosi a Esmeralda.
«E quell’altra? – Fece Rajban di rimando – com’è che ha tutta quella cellulite, con tutto il nuoto che fa? Dev’essere ereditaria. Oddio, vero anche che, se noi non siamo più giovanissime, figurati quelle due: il branzino lì, avrà almeno cinquant’anni.»
«E comunque, anche farsela con uno storpio non aiuta di certo: come ti metti a fare ginnastica la mattina, con quello che ti gira per casa? – Rincarò Tequi Rise – ti cala l’autostima e ti lasci andare.»
«Infatti.» – Disse Raj.
Intanto Swatch, in stato antigravitazionale, aveva levitato di circa venti centimetri e veleggiava verso le invitate d’onore con la tinozza incollata alle scarpe, facendo gran baciamani.
Swatch, Esmeralda e La Pesciolina si sedettero a un tavolo a forma di cuore e alcuni uccellini portavano nel becco nastri e bicchieri.
Ai colonnelli era stato riservato il tavolo dei parenti. Loro cercavano di darsi un tono sorridendo amabilmente, ma ogni tanto avevano degli sfoghi improvvisi e la loro pelle eburnea si ricopriva a chiazze di squame dure e verdastre.
Swatch faceva le fusa ed emetteva una luce bianca, da chiesa. Era completamente assorbito dalle sue due commensali che civettavano graziose.
I colonnelli si scambiarono un’occhiata e silenziosamente spostarono l’astronave sopra il Bar Alberto. Erano ormai scese a bere Mojito piccoli da tre ore, sputando amare sentenze, che nessuno se n’era ancora avveduto.

Di cosa altro successe quella sera, non è dato sapere: migliaia di candeline, Swatch. Esmeralda, La Pesciolina, e quattrocento grilli musicisti, rifiutano di lasciare dichiarazioni.
Si sa solo che le luci e la musica tennero sveglio l’intero cosmo per giorni, e l’astronave dondolava dolcemente, aperte tutte le finestre panoramiche.

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Compleanno secondo del Capitano Buono Ballantines Swatch

Il sole del nuovo giorno nacque germogliando dalle montagne. Nel cielo un falco iniziò una lunga danza.
Tutto era immoto.
Soltanto un piccolo uomo correva, con la testa china e i piedi nudi, senza fare rumore. Brillavano i rosari al suo collo.
Egli corse fino del Tempio, s’inchinò brevemente all’ingresso, e proseguì leggero lungo i corridoi dai soffitti infiniti e buoni, fino alla Grande Sala, rossa come la sua veste, come il sangue e la terra; silenziosa come l’eternità.
Al centro della sala, un grande disco sospeso, come il sole.
L’omino prese un lungo bastone e si mise in ginocchio: era pronto. Chiuse gli occhi e respirò cantando.
Il suono coprì la terra come un velo di sollievo. Gli uomini della montagna aprirono gli occhi e resero grazie all’Universo, che ora vibrava insieme a loro.
Era appena passato un anno, ed era di nuovo il compleanno del Capitano Buono Ballantines Confucio Zen Swatch.

Rajban, che stava dormendo sulla stufa, si alzò di scatto buttando all’aria tutti gli strati di piumino d’oca: «Basta, cazzarola, adesso, basta! Dov’è ‘sto stronzo che ha suonato, che gli stacco le orecchie? Datemelo un po’, che gli insegno io a rompere i coglioni la mattina presto! Che cazzo avrà mai uno da dire, che non può dire dopo le dieci, dico io. Se la gente non riesce a dormire che faccia le flessioni, si faccia di qualcosa, che ne so; ma non si possono sempre scassare i maroni all’alba, porca puttana, possibile che non ci arrivano? Mo’ glielo spiego io: dov’è? Chi è? Il postino? In sto cazzo di rifugio di montagna non si capisce niente: capre dappertutto, tutti calvi, tutti scalzi, tutti sballati. Fa freddo! Iu-huuu! Fa freddo, capish? Vestitevi, rincoglioniti: a furia di congelarvi poi è chiaro che non vi funziona il cervello, avete i neuroni trafitti da aghi di ghiaccio, le orecchie piene di burro rancido, per forza che siete suonati. Comunque io l’ho sempre detto che a me la montagna fa schifo, dove cazzo vai, non c’è neanche un metro di strada in piano: e sali e scendi, e davanti c’hai un muro di monti e dietro pure, mai un cazzo di orizzonte. Tequila, cazzo fai, dormi? Ma cosa c’hai nelle orecchie, che dormi anche con le cannonate: dei lama arrotolati?»
Tequila Sunrise, tutt’uno col sacco a pelo, dormiva tra cuscini orientali, protetta da una zanzariera, i lunghi capelli biondi avvolti a sciarpetta. Sollevò un braccio abbronzato, ingessato di bracciali tintinnanti, e accese la pipa egiziana, attaccandocisi subito. Nuvole di fumo aromatizzato al latte e cacao invasero la stanza.
«Ecco! Adesso attacca a ciucciare, sta in coma due ore e io parlo al vento, anzi alla tormenta. Anche questa in mutande, manco fossimo alle Maldive. Che due cojoni!» Disse Raj accendendosi una puzzetta con fare scattoso, mentre si avvicinava alla finestra. «Ehi, ma che cacchio è tutto sto corteo di pelati? Non potrebbero vestirsi più normale invece di doversi sempre tenere la tovaglia con una mano? Secondo me, sotto c’hanno il pannolone. Comunque: cazzo fanno inginocchiati tutti in fila, davanti a quel coso… cos’è: un impianto per lo skilift?»
«Per tutti i cammelli, Raj, è il Tempio Tibetano, possibile che non ci arrivi? Sono tutti in fila che aspettano l’arrivo della loro guida spirituale, il Swaz, capitano: hai presente? Oggi è il suo compleanno.» Disse Tequila con lieve tono di sopportazione.
«Di nuovo?»
«Ma sì, dai, che quest’anno cade pure a Pasqua! Che festa gli organizziamo?»
Tequila aveva terminato la ciucciata mattutina e stava facendosi delle treccine sottili che poi avrebbe tinto di nero e acconciato a caschetto, come Cleopatra.
«Secondo te dove la trovo qua una gioielleria egiziana? Volevo prendermi un collier a forma di vipera che sta per mordere.»
Rajban attaccò a vestirsi con calze e sopracalze di lana, ancora molto imbronciata. «Certo, si potrebbe andare da Alberto, ma la califfa qua, è diventata astemia, Confucio pure. Mo’ fumate solo il calumet, mangiate solo plancton. Sai che festa divertente che gli organizziamo, tutti seduti a culo nudo sul Cervino, a fare i cori del mal de panza.»

In quella, un’enorme ovazione salì fino alla piccionaia dei colonnelli. L’aria si era improvvisamente riempita di petali di rosa. Il sole, manco a dirlo, si ergeva pieno, proprio in quel momento.
I colonnelli si precipitarono alla finestra: Tequila in liseuse di satin, Rajban in tuta termoriscaldata a batterie indipendenti.
Dal fondo del sentiero stava avanzando una portantina intarsiata e con un sacco di frange appese, trasportata da otto monaci tra i più nerboruti. Fieramente seduto su di essa, nella posizione del loto, stava il Capitano Buono Ballantines Confucio Zen Swatch, a torso nudo, che salutava bonariamente la folla con due dita.
«Un altro termicamente sballato.» Borbottò Raj.
In quella un raggio di sole andò a posarsi sui biondi capelli del Swatch, teneri di riccioli. E tutto cambiò. I colonnelli, commossi, cominciarono a sbracciarsi dall’alto: «Quant’è carino, però. Si è tirato un fisico… Iuhuhu, micettooo, siamo quaaa, tanti tanti tanti auguroniii!»
Ma allo Swatch si era prontamente affiancato un tovagliato con un ombrellino e Lui scomparve sotto la protezione, lasciando soltanto una scia di energia positiva.
Fece un trionfale ingresso nel Tempio, seguito dai fedeli.
Rajban e Tequila si accorsero di essere in ritardo per la cerimonia.
«Tequi, muoviamoci, te lo metti dopo il gonnellino a geroglifici.» Raj adesso era un po’ agitata.
«Tu hai per caso visto dove ho messo le chiavi?  È mezz’ora che le cerco, ma da questa posizione non ho una gran visuale.» Disse Tequila, che aveva preso ad aggirarsi sempre e solo di profilo. Il problema delle chiavi era lo stesso a tutte le latitudini.
«Non ci sono chiavi qua, è tutto merdosamente aperto, ai fratelli in visita e agli spifferi del menga.» Commentò amaramente Raj, mentre si apprestava alla discesa dalla finestra con corda da roccia. Tequila la seguì, e atterrarono atleticamente sul cammello che aspettava di sotto.
Si avviarono emozionate fino all’ingresso del Tempio. Lì Tequila parcheggiò il cammello, di profilo anche quello, vezzeggiandolo con squittii amorosi e promettendogli che sarebbero tornate presto.
Fecero per entrare di corsa, per non perdersi l’inizio, ma vennero intercettate dal monaco guardiano che sbarrò loro la strada con un batacchio di bronzo da centocinquanta chili: «Spiacente: niente donne, niente femmine, niente galline. Di proveniente dall’altra metà del cielo, in questo Tempio, sono ammessi soltanto latte e uova.»
«Hey, ma per chi mi hai preso: per il droghiere?» Sbottò Raj mentre Rise le dava una gomitata e sfoderava il suo scettro egiziano con gemma incastonata: «Eccooo, ora tu quarta in questa cemma luminosaaa, omino pelatooo, respira come che è aria puraaa e ti sneppia tutta menteee e tu ora torme, torme, torme come criceto in autunnoooo. Ho detto.»
E superarono velocemente l’entrata, prima ancora che il pelato facesse in tempo a toccare il pavimento accasciandosi svenuto.
Al fondo del labirinto intravedevano Swatch che veniva spalmato di olio di Cartize e Macerato Idroalcolico di Primule, prima della vestizione rituale e della lavanda dei piedi.
Rajban si era fatta prestare lo scettro ipnotico fingendo curiosità e l’aveva calato violentemente sulla zucca di un paio di altri pelati di guardia, per impossessarsi delle tovaglie e operare un travestimento. Aveva anche recuperato due specie di coni di bronzo da mettere in testa per coprire l’assenza di pelata, e lì era subito scoppiata una discussione con Rise che non voleva mettere il cappello che le stava malissimo e si lamentava perché Raj non aveva preso anche le campanelle che si poteva fare un simpatico portachiavi.
Appiattendosi in varie nicchie nella roccia, fingendosi statue di Buddha, i colonnelli erano quasi arrivate alla stanza delle cerimonie, quando all’improvviso si aprì una botola e precipitarono nei cunicoli segreti del Tempio.

Nella fioca luce fiaccata dalle fiaccole, migliaia di scheletri le fissavano con ghigno satanico. Rajban si mise subito a cercare di identificare il sesso degli scheletri in base alla conformazione del loro bacino, ma Tequi la interruppe annunciando che secondo lei c’era un tesoro da qualche parte, forse dell’antico Egitto. Sarebbe stato carino recuperare un regalino per Swatz, visto che avevano dimenticato in piccionaia il solito berrettino fatto all’uncinetto dalle amorevoli mani di Rise.
Ma poi si ricordarono che Swatch aveva rinunciato ai beni terreni e probabilmente anche ai cappellini: sopra a ogni fiaccola trionfava un suo ritratto, che lo rappresentava seduto su un divano, in palandrana, con i piedi rattrappiti e i capelli crespissimi.
«Minchia che pettinatura.» Commentò Raj.
«Senti, Rajban, o la pianti con le parolacce, o qui prima o poi arriva un fulmine che ci incenerisce. Cerca di evolverti, sii meno grezza, recepisci la sacralità del luogo: adesso siamo dentro al Tempio!» Protestò Tequila Sunrise.
In effetti alla parolaccia si era scatenato un certo smottamento roboante e alcuni teschi si erano messi a snaccherare le mascelle. Raj si guardò in giro, vagamente preoccupata: «Ehm, come pofferbaccolina usciamo da questo posto del carciofo?»
Rise alzò gli occhi al cielo spazientita: «Ci sarà un bottone da qualche parte con su scritto Exit o Livello Superiore o Quit o che ne so!» E lo trovarono: era un bottone grosso come una scrivania e pulsante di luci colorate.
Appena vi si appoggiarono sopra, si visualizzò una mappa del luogo, le armi in opzione, i livelli di percorso e soprattutto i livelli di difficoltà: principiante, cornuto, etilista, sadomaso e colonnelli. Rajban fece appena in tempo ad acquisire la bomba a mano e il doppio caricatore per il lanciarazzi che Tequila scelse l’opzione colonnelli, senza darle tempo di prendere anche le mine anticarro.
Aspettarono, ma non successe niente.
Rajban si mise a premere il bottone freneticamente, mentre Rise diceva: «Calma, ragioniamo. Se sta andando così ci sarà un motivo, lascia che sia: no hay mal que por bien no venga.» e Raj non poteva replicare per timore di un terremoto.
Finalmente apparve un ologramma di Swatch che parlava con voce sintetizzata: «Ragazze, cosa combinate? Vi aspetto-etto-etto, la mia calma è infinita, ma la cerimonia sta per iniziare senza di voi-oi-oi. Potreste smettere di giocare e portare la vostra energia ad un livello più elevato-ato-ato? Risolvete gli indovinelli delle Quattro Salamandre e spicciatevi ad uscire di lì, grazie-azie-azie.»
E scomparve.
Al suo posto era apparsa una cornice elettronica con dentro una salamandra ninja: Rajban le sparò subito, disintegrandola.
«Nooo, Raj, che hai fatto?» Urlò Tequila.
«Beh, l’ho accoppata. Era un nemico. O no?»
«Ma che c’entra, non è mica Indiani e Cowboys: bisogna risolvere l’indovinello. Ti secca lasciarmi viva la prossima, giusto il tempo di farla parlare?»
In quella, nella cornice spuntava una seconda salamandra con giubbotto antiproiettile e l’aria nervosa: «Siccome avete accoppato la prima salamandra, l’indovinello adesso sarà più difficile, così imparate.» E si apprestò a parlare:
«Se dico sacco, dove ce l’ho il gatto?»
«Nel piatto!» Rispose pronta Tequi.
«In che sens..?» Tentò d’intervenire Raj, ma la salamandra era già stata sostituita da un’altra, e Tequi faceva cenni del tipo: ‘lo so io non ti preoccupare’.
La terza salamandra aveva un elmetto mimetico: «Se gatta ci cova, dove stanno le ova?»
«Sotto la piova!» Disse Rise.
«Ma che cazz…» Disse Raj, ma Rise continuava a farle segno di tacere.
La quarta Salamandra sbucò da sotto, e aveva una mazza da baseball. Raj la fulminò all’instante: «Oh, era armata, non prendertela con me. Dai dai, muoviamoci che si è fatto tardi!» E corsero a salire la scala di damasco che si era srotolata ai loro piedi.
Quando furono in cima, Tequila disse: «Hey, ma non puoi entrare nel tempio con la bomba a mano. Poi, a cosa ti serve essere sempre armata? Sei diventata troppo aggressiva e paranoica, buttala via.»
«Occhei.» Disse Raj, e la gettò giù per lo scalone.
Si sentì un botto e il giorno successivo i giornali di una cittadina del Maine titolavano la prima pagina con: ‘Piovono salamandre nella contea di Bangor: i soliti rospi forse si sono estinti?

Intanto i Supereroi erano finalmente arrivate alla sala delle Grandi Cerimonie, dove Swatch ascoltava rapito degli inni di buon augurio cantati dagli eunuchi del paese. Aveva i piedi a bagno in una grande tinozza di sangria.
Quando le vide fece un gesto benevolo nella loro direzione e loro si avvicinarono, Tequi con sorriso estasiato, Raj brandendo lo scettro gemmato che aveva tenuto di riserva.
«Swatchi, tanti auguri!» Cinguettó Rise.
«Cazzarola! Ma quegli addominali sono tuoi o é un grembiule da cucina con la riproduzione di quelli del David di Raffaello?» Disse Raj.
«Michelangelo, per il cammello di Tutankamon, Raj» sibilò Rise tra i denti.
«Sicura?» Fece Raj.
«Boh, quello di Michelangelo mi sembra famoso, magari Raffaello ne ha fatto uno con la panza. Tu digli Michelangelo.»
«Beh, di chiunque si tratti, a te ti ciuccia il calzino, Swatch, c’hai degli addominali da paura, giuro!» Annunciò Raj con gli occhi luminosi. Swatch le face una carezza sulla testa. «Cosa mi recate in dono, mie dilette?» Tubó fiducioso.
I colonnelli si fissarono allarmati. Ma fu solo un secondo: poi Rise si voltò pronta e sfoderò un sorriso hollywoodiano. Fece un inchino molto elegante a tutta la platea, si accese un occhio di bue, e lei annunciò: «Pregiatissima Santità, le rechiamo un dono dall’oriente misterioso, ricco di biliardi e di profumi: direttamente dal deserto di Akraba, strappato dalle grinfie del becero sultano, la stecca da biliardo del più famoso e pericoloso giocatore d’Egittooo!» E in quella ci fu un rumore di gong e una luce dorata si accese su Raj, che in lungo mantello puzzolente di incenso e tempestato di fili d’oro, stava inchinata porgendo lo scettro gemmato del col. Rise, con tanto di custodia in similpelle.
«Cacchio che libidine!» Disse Swatch, e  Raj, petulante, guardò Rise come per dire: ‘Ah lui le parolacce le può dire, eh?’ ma non fece in tempo: Swatch levitò in aria e un monaco si precipitò a sistemargli un tappeto volante sotto le chiappe, perche Sua Santità stesse più comodo.
I colonnelli furono invitati a salire sul tappeto per un giro panoramico della sala, a fianco di Zen Confucio.
Rajban pensò subito di approfittare dell’altezza per sputare in testa ai monaci, ma Swatch le diede uno scappellotto: aveva imparato a leggere nel pensiero.
Continuando a sorridere, Swatch disse sornione: «Con questa bella stecca che mi avete regalato, ora ci vorrebbe un biliardo.»
«E un par de bire.» Si associò amara Raj, mentre Tequila si lasciava sfuggire un singhiozzo di rimpianto. Intanto il tappeto volante con i tre a bordo era uscito dalla finestra e ora scivolava tra monti e valli di serenità.
«Ma non ci pensare – disse Tequila – è il pensiero quello che conta. Anche se potresti sempre farti costruire un tavolo in bambù, tanto per arredare. Per le biglie usi qualche boccia di bronzo…»
«Veramente non e più necessario» Sospirò B.B.C.Z. Swatch, materializzando un biliardo a mezz’aria rivestito di seta e con le frange, su cui correvano decine di biglie in pietra dura: «Posso spingerle con il pensiero, senza sbagliare mai.» E le infilò tutte nella stessa buca, a trenino una dietro l’altra, tranne l’Uno, che si suicidò con una piccola pistola gialla che aveva tirato fuori con la manina.
«Però è noioso, ragazze, lasciatemelo dire. Non c’è gusto. Così ho pensato che siccome sono Zen, e quindi do invece di ricevere, e metto tutto in comune, e ciò che è mio è di tutti i miei fratelli, e non possiedo nulla, e possiedo tutto, e a parte tutte ‘ste balle, sono sempre un supereroe… ecco qua!» E fece un gesto a indicare ciò che stava loro davanti.

Monti e freddo erano spariti, i colonnelli non se n’erano neanche accorti. Il tappeto stava atterrando dolcemente sulla spiaggia di Lezioni di piano, ma al posto del piano c’era un biliardo regolamentare, con le buche all’italiana, nuovo di zecca.
Sotto una palma c’era un piccolo chiosco e Alberto aveva già disposto le tartine. Una musica suonava, e sembrava proprio jazz.
Swatch adesso aveva i jeans e attaccò ad ingessare la stecca.
Rajban aveva già spaccato, e Tequila si allenava a fare ponticello con la mano.
Giocarono fino al tramonto.
Poi Swatch guardò il cielo e disse: «Dovrei rientrare.»
Ma gli rispose solo la risacca: i colonnelli già ronfavano nel sacco a pelo.
Swatch le guardò con tenerezza, guardò il mare, l’allevamento di cozze poco distante.
«Eccheccacchio! – Disse – domani mi prendo un po’ di sole e faccio l’accumulo energetico del sasso: più positivo di così!»
Si avvolse a rotolo nel tappeto e attaccò a russare come non faceva da mesi.

————–

Compleanno terzo del Capitano Buono Ballantines Swatch

Quel giorno Rajban e Tequila Sunrise avevano cercato di mettersi il vestito buono, per via dell’incontro ufficiale.
Tequila si era presentata in completo creativo acquistato al negozio dei cinesi, a cui aveva aggiunto qualche tocco personalizzato in stile tanghero e una borsetta di mucca rosa intonata con le scarpe da ginnastica.
Rajban si era cucita una tutina facendo un patchwork con i tappetini da bagno, che se deve spendere per avere una cosa di firma che le sta larga, tanto vale risparmiare e avercela di taglia quasi giusta, che tanto le cuciture non le guarda nessuno.
Si incontrarono nell’anticamera del Palazzo.
«Raj, scusa: perché ti sei messa in pigiama?» Fece Tequila a mo’ di solito simpatico saluto.
«E tu perché hai ciulato un giubbotto militare al Gigante del Wisconsin?» La rimbeccò subito Raj.
«Guarda che è esattamente della mia taglia, e comunque ha un sacco di tasche utili, visto che la borsa di mucca è un accessorio di completamento e non ci sta niente.»
«Credevo ci stesse la mucca. E comunque la tuta spaziale anni settanta che indosso è esattamente della mia taglia anche quella.»
I cancelli della Sala Triangolare si aprirono lentamente e ne uscì un grande flusso di luce accecante. I colonnelli si incamminarono intimiditi: stavano per comparire al cospetto di Orson.
Orson, dal canto suo, si era svegliato da poco e stava rileggendo pensoso l’ultimo rapporto che aveva ricevuto su Swatch.
Quando entrarono i colonnelli alzò appena lo sguardo e subito chiamò il maggiordomo: «Rufus, per favore, fai entrare le ragazze, ci parlo dopo con la delegazione degli extracomunitari.»
«Salve o capo di tutti i capi!» Fece pronta Rajban. «Siamo noi! »
«Cielo Rajban che spavento! Ti avevo presa per una vecchia albanese denutrita. Perché ti porti appresso un ragazzino messicano con la parrucca?»
«No capo, è Tequila Sunrise con l’abbronzatura di un mese di India. Saluta, Tequi!»
«Augh!» Esternò Tequila, che aveva scelto quel momento per la meditazione yoga del mattino ed era di poche parole.
Orson sbuffò rassegnato:
«O.K. Sedetevi, che non c’è tempo da perdere. No, Tequila Sunrise, niente cuscino imbottito di miglio: seduta normale, per favore. Sblocca le gambe giù dalle orecchie che mi fa impressione. Ehmm, Rufus, portaci qualcosa di forte da bere: il solito litro di tè scondito per Raj e un bidone di latte e cacao shakerato con la cannuccia. Tequi, potresti stare un po’ fermina? Questo tintinnio di braccialettamenti finirà per svegliare la povera Raj che si è già addorment… Raj! Oho! Sveglia! Ma che diav..!»
«Non ce la faccio più, non ce la faccio più… rinuncio al seminario sulla gestazione delle lendini che mi devo ripigl…Sì! Sì! Dicevamo? Sì, pensavo di scrivere un libro sull’emanazione dei cattivi odori con annesso un piccolo apparecchio di prova che potremmo fare in casa con dei pezzi presi dallo stereo… OK! Chiedo scusa, gente, eccomi: ho dormito in un garage assieme a degli orologi che poi si sono fermati e…»
«È il Complesso della Bella Addormentata nel Bosco, non ci badi capo – intervenne Tequi con aria saputa – la medicina Ayurvedica dice che poi scendono tre fatine in sovrappeso con una macchina da cucire nuova e…»
«Basta!» Tuonò Orson. «Zitte! Pensate che vi abbia chiamato per discutere del pranzo di Pasqua?»
«Beh, io mangio di tutto, è Tequi quella dai gusti delicati. D’altronde se…»
«Ah si figurati! Perché lei è perfetta, non le da fastidio niente…»
«Che c’entra. Gli spifferi, va beh, a me danno fastidio quelli, ma mica stiamo parlando di una gita in motoscafo…»
Orson sparò un missile fisiotronico che disintegrò tutta la parete ovest della Sala.
Prima che Tequila acclamasse allo splendido tramonto e si mettesse a fare la preghiera della sera, le aveva già fatte legare e imbavagliare dai Magnifici 4.
«Ohhh! Adesso: se non vi secca troppo, vorrei parlare di qualcosa di serio. Come spero ricorderete, vi ho chiamato a rapporto per via degli ultimi strani comportamenti del capitano B.B. Swatch. Che avete da riferire?»
Nonostante lo sbavagliamento momentaneo dei supereroi, il silenzio si era fatto pesante: Raj insisteva a tuppiare sull’orologio fermo, mentre Tequi era perfettamente concentrata sulla divisione di una doppia punta, occhi incrociati e mento sprofondato.
Passò così qualche minuto.
«Bene, bene, bene!» Disse Orson con sguardo di fuoco. «Diciamo che avete avuto da fare. No, Raj: stai zitta, che sono stufo di sentire le tue lagne. Siccome lo sospettavo, mi sono fatto mandare un rapporto che adesso vi leggerò, se me lo permettete. E poi sentiamo se vi è rimasto qualcosa in zucca per discuterne. Allora:… »
«Ahem, scusi: chi l’avrebbe scritto questo rapporto?» Intervenne Raj piccata.
«L’oracolo di Amalfi: voi eravate molto impegnate… soprattutto tu, Tequila, vero? Quante aquile hai spennato per quel cappello da Sioux?»
«È un boa di struzzo, capo.» Pigolò Tequila contrita, al riparo sotto una palma di fibra ottica.
«…Bene! Dunque,vediamo… leggo. Posso? Grazie care. Lo stile è un po’ da oracolo, comunque…»

“È tornata la primavera anche quest’anno. Nuove e vecchie cose sfrecciano nell’aria.”

«Pleonastico Raj, sono d’accordo con te. Andiamo avanti!» Orson cercava di anticipare le interruzioni, conscio oramai della situazione che aveva preso un andazzo dispersivo.

Gli uccellini, per esempio, sfrecciano indaffarati trasportando rametti per fare il nido.”

Nonostante l’improvviso russare di Tequila, Orson era deciso a non mollare.

Swatch, incurante del fatto di avere un’altra primavera sulle spalle, risulta sempre più giovane e trasporta anche lui un sacco di cose. Per esempio la bici giù dalle scale.
Poi sfreccia via veloce, a 140 all’ora.
Parcheggiata la bici, arrisfreccia per 50 chilometri di corsa a scatti e riprese, e si riposa velocemente facendo 400 flessioni su un alluce. A questo punto si è scaldato: inforca la bici e parte infrangendo la barriera del suono in meno di 10 secondi.
Non lo vede mai nessuno, tanto sfreccia veloce.
Se non fosse per la scia di fumo della cicca che tiene in bocca. Non che fumi: la cicca tende a consumarsi da sola per combustione da iperossigenazione.
È impossibile fermarlo, parlargli, fotografarlo. A meno di non trovarsi in prossimità della caffettiera che la mattina si auto-accende grazie al timer. A quell’ora, appostandosi dietro le tazzine, lo si può osservare senza l’effetto mosso. Parlargli no, però, perché ha la cicca in bocca, e dopo, silenzio, che legge i giornali e si fuma la cicca in santa pace.
Un uomo veloce e silenzioso come un felino, io dico, che nasconde parecchi segreti: come non avere una ruga, come essere pieno di capelli, come dimostrare 15 anni, come emergere dalla doccia fradicio con in bocca la cicca accesa e perfettamente asciutta.
Un uomo solo. Affascinante, ma solo.
Per provarci, le donne ci provano. Qualcuna per rincorrerlo ha persino affittato un piccolo velivolo, ma le è finito il carburante sulle Ande mentre Swatch stava facendo la gita domenicale fuori porta e per sopravvivere si è dovuta mangiare il pilota.”

«Uh, sai che idea originale! Su questa faccenda ci avevano già scritto un libro trent’anni fa. Certo che oramai pubblicano cani e porci.»  Intervenne Tequila beccandosi un sacco di occhiatacce.
Orson proseguì imperterrito:

Qualcun’altra meno avventurosa ha cercato semplicemente di placcarlo mentre metteva il lucchetto alla bici, ma lui non se n’è neppure accorto: tutto sudato, è guizzato via senza attrito, come una trota.
Come Oracolo mi permetto di predire: era parecchio che nessuno lo affascinava, nessuna lo incatenava. Ma era primavera, e questo frega parecchia gente e numerosi animali.”

«Ma che fa: predice al passato?» Fece Raj rognosa.
«Che ne so: è la prima volta che ne uso uno.» Rispose Orson distratto. «Cosa facciamo? È evidente che qui c’è un problema: il ragazzo non dovrebbe usare i suoi poteri a casaccio così. Già c’è la faccenda che non invecchia, se poi si mette a fare cose strane, prima o poi lo scopriranno. Stavo pensando di dargli qualcosa da fare… che lo tenga impegnato.»
«Una nave carica di cicche di contrabbando?» Chiese Tequi.
«No, cara. Una degna compagna.»
«AAAARGH!» Scattò Raj, «Che magari si sposano?»
«Beh? Ma che c’hai contro il matrimonio? – sbottò Tequila – tu secondo me hai dei complessi legati all’infanzia.»
«Non pronunciare quella parola che mi viene da vomitare.»
«Non l’avevo appunto detto, io?» Fece Tequila rivolta ad Orson.
Orson le stava fissando pensieroso. Decise di non profferire parola e lasciare che si sfogassero. Poi, quando si fece silenzio, batté le mani e comparve Rufus come d’incanto: «È arrivata la Klingon? Bene, falla passare.»
Si abbassarono le luci, partì la musica, si aprì la scalinata di San Remo e ne discese la Klingon più gnocca della galassia: aveva gli occhi color vento del deserto, messi in posti innominabili. Gambe lunghissime sgusciavano ritmicamente dagli spacchi del vestito da sera: una fantasia di zucchero filato a mano trapuntato di fragoline di bosco. Le lunghe orecchie, mobilissime e che facevano campo anche a un telefonino spento, erano pettinate all’indietro, fissate con un fermaglio di prosecco ghiacciato dai riflessi d’oro.
Quando giunse al cospetto dei supereroi fece un inchino molto aggraziato senza dire nulla: come tutte le Klingon, era muta.
I colonnelli, braccia conserte e petto in fuori, osservarono ringhiose la scena.
«Carina è carina, niente da dire. Le correggerei un po’ il portamento, anche se secondo me è troppo alta: alle alte non gli circola bene il sangue e sono più lente di apprendimento.» Fece Raj diplomatica.
«A me piace, invece: non ha molta personalità e le orecchie sono inguardabili, ma per essere una Klingon se la cava, almeno adesso che è giovane. Il vestito è un po’ pacchiano, ma credo che al Swatz potrebbe anche piacere. Il problema piuttosto è che il Swatz in questo momento non ci sente, da quel lato: potrebbe, ma poi non vorrebbe, preferisce non incasinarsi, etc. Sarebbe un peccato deludere questo povera creatura semisenziente.»
«Già» Fece Raj, «Mica è così semplice: gliela porti, non sa neanche cantare, lui le fa l’imitazione del Mago de Umago, questa lo guarda con quell’espressione poco sveglia, lui si deprime… naaa, come fai?»
«Secondo me, ha ragione Raj: non hanno niente in comune, si vede subito.»
«Scusate se interrompo i complimenti… – fece Orson con uno strano ghigno – permettetemi di presentarvi il Capitano Milehva Lafatika, comandante in campo dei Dragoni Fumanti del pianeta Ashtray.»
La Klingon intanto le osservava tranquilla, mani dietro la schiena.
«Fammi indovinare: questa puzza di cicche è un profumo raffinatissimo proveniente dalle più fertili regioni del suo pianeta.» Disse Tequila con faccia di pietra.
«Beh, non è una cattiva idea, bravo Orson. Non avevo capito perché avessi scelto una così ordinaria, ma se la mettiamo sul piano della scelta olfattiva, i feromoni e tutte quelle balle lì, l’idea potrebbe anche essere buona.»
Quando si trattava di combattere i colonnelli erano uniti, come sempre. Per questo erano colonnelli.
«Ah. E del grado? Di quello non mi dite nulla, mie care? – insistette Orson sempre più maligno – permettete che vi mostri alcuni filmati che riprendono la nostra capitana in azione.»
E partì tutto un film su uno schermo al plasma dove si sentivano un sacco di rumori e non si vedeva niente. Prima dei titoli di coda compariva giusto un fotogramma che mostrava la Klingon in tuta molto aderente a cavalcioni di una bici con vela da surf e reattori nucleari al posto della catena.
«Beh? E chi ha fatto le riprese? Sempre l’oracolo di Menphis? È tutto mosso!» Protestò Tequila.
«No. Non sono le riprese a essere mosse…» La voce di Orson risuanava carica di significati.
I colonnelli tacquero fissando malevole la Klingon che ora sedeva su uno sgabello girevole sotto un’insegna con su scritto Academy Awards.
«Non saprei – sospirò Rajban – dì tu che lo conosci meglio.»
«Che ne so. Comunque, come faremmo a presentargliela? Gliela facciamo trovare seduta sulla macchinetta del caffè e gli diciamo che era in omaggio con i fiocchi di cereali?»
«Mi risulta che sia il suo compleanno…» Suggerì Orson allegro. Si sentiva evidentemente il cupido della situazione.
«Minchia santissima! E chi se lo ricordava? Tequi, gli hai fatto il bandana all’uncinetto? No, ragazzi, sentite: io non ce la faccio più, sto lavorando da mesi, forse persino da un anno, non chiedetemi di scriv…»
Tequila Sunrise sospirò e si scosse dalla posizione del loto: suonarono molte campanelle d’argento e la palma a fibre ottiche si chiuse a soffietto trasformandosi in un ombrello cabrio a due posti con i razzi già accesi. Ci mise sopra Rajban ancora lamentosa e diede un’ultima occhiata sprezzante alla Klingon: «O.K. grande capo Orson, ricevuto. Dicci cosa dobbiamo fare e sbrighiamoci.»

§§

Il capitano Buono Ballantines Swatch si era svegliato quella mattina molto di buon umore: aveva sognato di trovare una bellissima sorpresa nei fiocchi d’avena. Si aggirava per le solite abluzioni mattutine distratto da un’immagine onirica che gli sfuggiva, e al tempo stesso stava fermamente attanagliata da qualche parte nel suo cuore.
Pensò che era primavera.
Mise la tutina da ciclista e si fermò un istante per contemplarsi allo specchio: «Ammazz’aoh, quanto sé figo! E chi tt’acchiappa a tè? Buon compleanno, canagliaccia!» Si disse strizzandosi l’occhio.
Accese una cicca e portò la bici giù dalle scale.
La Klingon stava in pattini a rotelle dall’altra parte della strada. Fumava.
Swatch la notò appena, per via della cicca, che non gli sembrava di marca conosciuta, e attaccò a sfrecciare mentre stalattiti di ghiaccio si formavano tra i suoi capelli ancora bagnati.
La Klingon pensò: “niente male”, e si portò alla velocità di Swatch viaggiandogli parallela.
Swatch aumentò l’andatura, ma quella gli stava incollata e intanto fumava, indifferente.
Lui le disse: «Attenta piccola, ti si devono essere agganciate le bretelle al mio parafango.»
Ma lei non rispose.
Swatch decise di passare alla velocità solita, senza le flessioni: era turbato.
La Klingon lo sorpassò e aveva la schiena nuda con su scritto: Buon compleanno lumacone e gli fece mangiare un po’ di polvere.
Swatch perse la sua nota calma zen. Diede una brusca accelerata, ma non aveva ancora i copertoni caldi e si ritrovò a sferragliare sui cerchioni. Pensando che forse non era la buona giornata che aveva creduto, e appuntandosi mentalmente di smettere di bere anche il succo di mele fermentato, svoltò l’angolo di una viuzza, deciso a fermarsi.
Si beccò una secchiata d’acqua e sali minerali che gli spense la cicca: questo era troppo.
Stava per pulirsi gli occhiali, gesto che precede solitamente una tempesta di botte per il malcapitato, quando sbucarono i colonnelli tutti festosi:
«Auguroniii!!! Tanti auguri a te, tanti auguri a teeee! Pulcino! Guaaarda com’è tutto bagnato, vieni qui, fatti dare un bacinooo…» E prima che Swatch riuscisse a capire cosa stava succedendo, si ritrovò nel bel mezzo di una festa di piazza, con palloncini e fanfara.
C’era un coro di bambini selezionati tra i più buoni e dotati della terra, che gli intonò una canzoncina celestiale. Dopodiché, il capogruppo rappresentante, un bambino con un principio di escrescenza piumosa tra le scapole, gli consegnò una pergamena in cui si richiedeva formalmente la sua presenza come insegnante del coro: lo stipendio era altissimo.
Swatch era un attimo sballato e non riusciva a capire se la tipa appoggiata alla colonna che lo guardava da lontano fumando una Camel senza, fosse la stessa di prima. Posto che non fosse tutta un’allucinazione.
Fece un formale saluto ai colonnelli: «Ave. Grazie o miei colonnelli. Simpatica sorpresa. Non avreste dovuto. Spero non abbiate portato lo spumante: stamattina non mi sento bene.»
«Maffigurati, solo barrette energetiche. Vabbè, Raj come solito si è portata la fiaschetta, ma non la badare: lo sai che è un’asociale. Cos’hai Swaccino del mio cuore?» Tequila stava facendo boccuccia innocente, mentre Raj si era messa a valutare se quelle nuvole all’orizzonte potessero mai guastare il pic-nic.
«Beh, non so, ma… vedete quella là che fuma e mi fissa?»
«Quale?» Dissero i colonnelli all’unisono.
«Quella… lì.» Fece Swatch improvvisamente a corto di parole descrittive.
«Caro, di quelle lì ce ne sono tante, riuscire a distinguerle…»
«Uhu, sono tutte uguali infatti…»
«Magari, dico io, magari: sono una peggio dell’altra…»
Ma Swatch non riusciva a scollare gli occhi dalla Klingon, che nel frattempo aveva tirato fuori una bici da dietro la colonna e si era messa a lucidarla stando in equilibrio sulla sella con un piede solo. Per spazzolare la ruota davanti aveva impennato da ferma e senza mani.
Pareva che lo guardasse con occhio di sfida.
Quando lei fece una giravolta stringendo il telaio tra le cosce come un cavallo selvaggio, il capitano B.B. Swatch emise uno strano suono sibilante: quella gli stava mostrando di nuovo la schiena, più nuda che mai, e ora c’era scritto: Hai da accendere?
Swatch si accorse che una cicca aspettava spenta tra le dita affusolate di lei.
«Micio, tu non stai bene, deglutisci troppo.» Sentenziò Tequila preoccupata.
«Eh si, sarà meglio che ti portiamo a casa, mi cucini qualcosa che ti rilassi. Al diavolo tutta ‘sta gente rumorosa, tu secondo me hai bisogno di un cicchetto, altro che balle!»
Ma Micio si era incamminato traballante con l’accendino in mano. Si fermò di colpo tornando indietro dai colonnelli e farfugliando qualcosa a proposito di Beep Beep e Will Coyote. Poi sbottò: «Oh, ma ditemi la verità: quella gnoccona lì la vedete anche voi, o la vedo solo io?»
«Quale?» Dissero i colonnelli all’unisono.
«Aspetta: non dirmelo, lo so! » Annunciò Tequi come a un telequiz. «La solita beccamorta: dici quella, che ci ha chiesto dove avrebbe potuto trovare un pulmino anni ‘70 arancione che le sarebbe tanto piaciuto farci un giro?»
«Ahhh, la tizia sgraziata, dici?» Fece Raj sbadigliando. «Che essere privo di fantasia: pensa che l’ho vista in un internet cafè che cercava vecchie imitazioni di telecronache sportive: quando una non ha di meglio…»
Intanto Swatch si era incamminato, bici appresso.
La Klingon aveva dato gas ai reattori e gli teneva gli occhi piantati nel cervello.
I colonnelli continuarono a parlare. Finirono per discutere del fatto che quando una fa un figlio, chissà perché, cambia taglio di capelli.
Alla festa di piazza tutto proseguiva uguale: ci fu solo un momento di grande confusione in cui si alzò una tremenda nuvola di polvere, ma pensarono tutti che fossero i fuochi di artificio.
Intanto due bici, che sembravano comuni solo a un’occhiata superficiale, si separarono dal gruppo, contribuendo a quella primavera ventosa che era l’ennesima da quando Swatch era arrivato sulla terra.
Se uno avesse guardato in alto, avrebbe visto uno strano ciccione sorridente che spiava dalle nuvole: che Orson ci perdoni per averlo chiamato strano.
Il resto, ragazzi, è come nelle favole, quelle vere: ancora tutto da raccontare.

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Compleanno quarto del Capitano Buono Ballantines Swatch

Nella sua lunga vita, Swatch aveva visto tante parti di mondo.
Amava ricordare quel bel periodo in cui la Scozia era stata la sua dimora, quando tutti gli uomini insistevano a portare quel gonnellino che gelava le chiappe.
Ai tempi andava di moda una canzone che faceva Who wants to live foreveeer e lui aveva trovato una fidanzata carina coi capelli rossi, che però si era sciupata presto e poi aveva quella fissa di portarsi in braccio le sue dannate pecore su e giù per le salite.
Il panorama là era spettacolare, niente da dire, ma tutta quella gente aggressiva che faceva guerre in continuazione l’aveva turbato: aveva anche tentato di promuovere una manifestazione pacifista, ma era stato frainteso dalla popolazione locale e c’erano state reazioni inaspettate: a un certo punto erano dovuti intervenire i colonnelli a mettere a posto le cose, e bisogna dire che erano saltate parecchie teste.

uomo che galleggia su salvagente

Swatch nella sua villa delle Highlands durante un’esercitazione alla fonda con l’Unità Natante Pikerton

Lui, comunque, era un pezzo che aspettava che scoprissero l’America, per via del jazz and blues, ma sembrava che la cosa andasse per le lunghe: non avevano manco ancora scoperto gli schiavi.
Intanto si era aperta la via della seta: non che a Swatch gli fregasse niente dei vestiti, e a dirla tutta non vedeva l’ora di infilarsi un paio di jeans, ma le nuove spezie avevano dato un tocco speciale e misterioso ai suoi manicaretti, e questo aveva destato grande ammirazione da parte dei colonnelli.
Rajban, che di cucina si s’intendeva poco e per ogni animale che vedeva chiedeva se era commestibile, era pienamente convinta che si trattasse di Magia Suprema.
Tequila invece aveva sviluppato un interesse un po’ troppo tecnico per quelle cose orientali, e prima che si precipitasse a iscriversi a qualche scuola di cucina libanese, Swatch l’aveva battuta sul tempo e si era fiondato in Tibet, dove grazie alle sue abilità culinarie era presto diventato il boss di tutti i Templi. Si era divertito anche lì, e insieme i supereroi avevano passato un compleanno memorabile. Lui ne aveva approfittato per risanarsi di corpo e di mente, ma alla fine, come sempre, gli era venuta nostalgia del mare.
Quando un bel giorno, così dal nulla, Tequila aveva annunciato di voler partire con un tizio con un nome da piccione, che diceva di voler circumnavigare il mondo per raggiungere le Indie, Swatch aveva subito telefonato a Rajban che si era da tempo ritirata in un laboratorio segreto tra colli vulcanici, per mettere a punto M.I.C.R.O, quella nuova arma biologica che in futuro avrebbe ridotto in ginocchio tutti i produttori di poltrone, divani e cuscini.
Rajban consultò l’Atlante Esso del 2000 e la Guida Alla Gita Del Piccolo Supereroe, e disse che a quel che stava scritto lì, dato il percorso previsto, di mezzo avrebbe dovuto esserci l’America.
Tequila alla notizia si era sgonfiata di botto, ma Swatch era corso a Palos per imbarcarsi come cuoco della nave.
Quando quella testa d’uovo del capitano gli chiese che menù intendeva approntare per la traversata, e quanti chili di limoni sarebbero stati necessari in cambusa, Swatch specificò che secondo lui il limone nella CocaCola era di cattivo gusto e propose solo birra, per accompagnare T-bones, hamburger, chips e Pizza di Chicago.
Il capitano diceva a tutti di avere delle caramelle, tre per l’esattezza, e che avrebbe navigato con quelle: forse voleva dare uno schiaffo morale a Marco Polo, ma a Swatch sembrò una belinata: sottolineò l’inadeguatezza della dieta e propose eventualmente qualcosa di macrobiotico, su suggerimento del colonnello Tequi.
Lo lasciarono a terra, molto amareggiato.
In seguito aveva poi capito che il jazz etcetera non l’avevano suonato subito, in America: prima avevano suonato un sacco di gente e a lui non era poi così dispiaciuto di non esserci andato.
Calmatesi le acque, qualche secolo dopo era arrivato il Blues e proprio in quel momento in America suonavano Tiger rag. Siccome la Original Dixieland Jazz Band non aveva neanche ancora inciso un CD, e cercava un cantante rigorosamente bianco e con le lentiggini, Swatch cominciò a scalpitare, e Tequila decise di accompagnarlo per offrire consulenza in sala di registrazione.
A quel punto Rajban s’impuntò che voleva fare la corista: siccome aveva paura dell’aereo, decisero di prendere un posto ponte su una nave di gran lusso che stava giusto per salpare dall’Inghilterra.
Questa volta la cucina del Swatch sembrava andare più che bene e lui fu subito assunto.
Rajban e Tequila Sunrise però pasticciarono un po’ con i loro nomi sulla carta d’imbarco, un vecchio vizio, e così The Kill Sunrice e Raj Bang furono sbarcate a pedate appena prima della partenza.
Swatch fece allora per scendere anche lui, ma avevano già ritirato la scaletta.
E mentre Tequi e Raj sventolavano i fazzoletti, l’Inghilterra già si faceva lontana nella foschia.
Swatch stese il sacco a pelo, stappò un prosecchino mignon e si preparò a vedere terra per primo.

foto titanic

The Kill Sunrice & Raj Bang salutano Swatch alla partenza della nave di lusso.

Il viaggio andò bene fino a un certo punto: Avevano messo Swatch al centro del salone principale a fare le omelettes flambè in diretta, e tutti i passeggeri ammiravano stupefatti i lanci di oltre dieci metri che lui faceva fare alle frittate, per poi riprenderle al volo con la padella passata sotto una gamba.
Affinché le omelettes fossero irripetibili, Swatch ci aveva messo una spezia segreta che Tequi gli aveva portato dall’India: si raccoglieva solo in certi templi dove si medita con bavaglio e camicia di forza, e dava delle vampate di erotismo incontenibile.
Fu così che due ragazzotti, che neanche appartenevano alla stessa classe, si misero a fare kamasutra sporgendosi oltre la balaustra di prua, tanto per farlo strano.
Migliaia di guardoni ingrifati si precipitarono tutti insieme in quella direzione lasciando Swatch con lo sguardo fisso e la frittata attaccata alla cupola di cristallo del salone.
Prima che qualcuno facesse in tempo ad avvisare che la nave non poteva sopportare uno spostamento di peso così decentrato, questa si impennò in avanti, sollevò la poppa e si spezzò in due, affondando come un biscotto. Una tragedia.
Caduto in acque gelide, ancora offeso per il calo improvviso di notorietà, Swatch gonfiò l’unità natante Pikerton, che attaccò automaticamente a dirigersi verso i Cantieri di Monfalcone con una tale foga che invece di navigare secondo regolamento, con il sottogola in cordino di nylon, il Pik fece un bel pezzo d’oceano zompando da un iceberg all’altro come un Velociraptor.
I colonnelli, basiti, se li videro comparire all’orizzonte della Costa dei Barbari: il Pik con le pinne fumanti e Swatch ricoperto di brina.
Swatch non fece commenti e chiese degli scampi alla busara. Dopo un pasto silenzioso annunciò che le uova fanno male e cadde in una depressione profonda.
E da lì non si svegliava.
Provarono a farlo baciare da un principe azzurro, dalla fatina e anche dalla strega di Biancaneve.
Continuava a russare.
Tequi e Raj si guardarono disperate e chiamarono Orson.
Orson non rispose subito: su suggerimento dei colonnelli si era imbarcato anche lui per l’America, prendendo la nave successiva dove c’era un pianista strano che si diceva fosse una leggenda. Però, a seguire il pianista matto che suonava anche con la burrasca e il piano che scivolava lungo il salone a destra e a manca, gli era venuto il mal di mare e appena sbarcato aveva baciato terra, e mandato immediatamente la maledizione Skopelitis ai colonnelli. Si era fermato un po’ di tempo a ripigliarsi dai disturbi di stomaco. Era ancora lì in un prato fiorito a sentire un concerto, e non sentì suonare il cellulare.
Se ne accorse a inizio estate mentre stava fumando un sigaro di coccio molto profumato con dei tizi dai lunghi capelli. Per farsi perdonare del ritardo smaterializzò uno dei veicoli che stavano lì accampati nel prato e lo materializzò davanti alla porta di Swatch. Nella fretta non aveva fatto in tempo a farlo revisionare, e la smaterializzazione con successiva rimaterializzazione tendeva ad invecchiare un po’ le cose: per quello i colonnelli preferivano spostarsi con mezzi normali.
Swacci comunque si svegliò di botto e pieno di entusiasmo: mise le tendine a Pamela, ci caricò lo shaker, il coltello di ceramica, 100 chili di carta igienica, l’argenteria, il colonnello Tequi, e partì per Naxos.
All’ultimo momento volle aggregarsi anche Rajban, almeno virtualmente: aggiunse una ventina di libri, la sua collezione di vestiti per le isole, e impose al Pikerton di accompagnarli.
Lui non voleva, che non si sentiva ancora bene e aveva le cervicali.
Raj non volle sentir ragioni e per sicurezza scortò il convoglio al traghetto: Swatch e Tequi si imbarcarono col Pik che fissava inferocito il Raj dal finestrino posteriore di Pamela.

imbarco traghetto grecia

Pamela s’imbarca. Il Pikerton è scarsamente visibile dietro il finestrino per sua espressa richiesta.

 

A Naxos andò tutto bene tranne che per il fatto che il Pikerton rognava, c’era un vento dell’ostia, Pamela aveva avuto dei gravi disturbi durante il tragitto e aveva tentato un dirottamento verso Corinto dove era sicura ci fosse un punto di assistenza. I colonnello Tequila sentiva una misteriosa quanto malevola attrazione per un traghetto chiamato Skopelitis: bisognava recuperarla per le orecchie altrimenti ci si imbarcava ogni giovedì come attirata da un magnete.
Quando Rajban li raggiunse, il Pikerton, che non aveva mentito sul suo stato di salute, era grave e non poteva rientrare autonomamente a casa. Si diedero così il cambio della guardia e i due riaccompagnarono indietro il Pik in traghetto, mentre Raj rimaneva a fare la conta dei ciuchi dell’isola: era arrivata a 26, quando venne intercettata dalla famosa arma del futuro e cominciò a dormire male.
A Swatch intanto le navi erano entrate nel sangue, e a parte il fatto che per giocare a Pinnacolo bisognava tenere sempre ferme tutte le carte con gli accendini, e Tequi barava, aveva comunque deciso di ritentarsi l’America guardando tutto il mare che c’era di mezzo.
Tequila cercò di scoraggiarlo, dicendogli che l’Energia gli aveva già risposto a proposito: era meglio un altro mezzo. Swatch allora si era consultato direttamente con Orson e questi, che aveva ancora un po’ di postumi e il dente avvelenato, disse che i segni dell’Energia invece andavano proprio in quella direzione: gli suggerì un’ottima compagnia di navigazione e di proporsi per un lavoro di stiva, tanto per variare e fare un po’ di movimento.
Fu così che Swatch si ritrovò a fare la traversata con dei topi russi e non vide mai il panorama.
Quando finalmente sbarcarono, lui e il suo amico Fievel, uscirono veloci dal porto perché intendevano andare a stringere la mano alla Statua Della Libertà per primi.
Montarono su un autobus che era montato sui binari di un ottovolante, col riscaldamento al massimo e dove venivano offerti grandi bicchieri di carta pieni di cubetti di ghiaccio e di una sostanza dal sapore medicinale, che probabilmente doveva essere spalmata sulle contusioni.
Superarono un percorso survival di mucchi di neve in mezzo a siluri sfreccianti e si dovettero immergere con le bombole ad elio per attraversare una strada con il tombino intasato. Dovettero decifrare un alfabeto depositato dal vento degli appalachi. Passarono la notte in un tunnel con su scritto exit only e Fievel si accomiatò il giorno successivo avendo lì incontrato alcuni conoscenti che parlavano di una grande mela e lui era a digiuno da giorni.
Swatch, rimasto solo, preferiva seguire odori noti, quello del pesce per esempio, e si ritrovò a Brooklyn: pensò di farsi un’ostrica ma in quel momento i dipendenti degli oyster-bar si misero in sciopero.
Decise allora di andare a giocare in borsa per fare ricchi i suoi beneamati colonnelli e aveva giusto intenzione di investire in Parmalat e Cirio, ma Wall Street non era a Wall Street e così dovette rinunciare.
Si guardò intorno in cerca della statua della libertà e si beccò un sushi in faccia.
Swatch a quel punto cominciava ad averne le tasche piene: quasi quasi derubava un tassista e andava dritto in aeroporto a cercarsi un volo diretto NY – Bagni Topolino.
Stava giusto aspettando il taxi, fischiettando con fare innocente, che all’improvviso vide l’Empire State Building: senza pensare lo scalò correndo, e ci mise 12 secondi.
Quando fu in cima capì di avere realizzato uno dei sogni della sua vita. Stava per dire tra sé e sé: ‘E che la statua della libertà si f…’quando girandosi la scorse, da lontano, che lo salutava sventolando la mano.
Un’ondata di emozione lo travolse. Era in America, finalmente, e l’America era ai suoi piedi.
Avrebbe voluto mandare un messaggio telepatico di giubilo ai colonnelli, ma sapeva che non l’avrebbero sentito: Tequila sull’Himalaya e Raj in un bunker, non c’era campo.
Swatch cominciò allora a cantarsi Happy Birthday a squarciagola. I turisti sull’Empire rimasero paralizzati dallo stupore, ma lui non ci badò. Non si accorse neppure delle porte dell’ascensore che si aprivano e dell’arrivo di Quincy Jones, che era lì per accompagnare un nipotino che faceva gli anni pure lui.
Quincy e il nipotino videro Swatch che si stagliava contro il tramonto, i turisti in preghiera, e migliaia di uccellini che gli si erano posati sulla mani e che lo accompagnavano fischiettando.
Il nipotino guardò Quincy: «Ah meno male: così lo voglio io il cantante per il mio compleanno, hai capito vecchio zuccone? Non come quei neri sbiaditi che piacciono a te. Uno così. E scommetto che fa anche dei musicals fighissimi!»

Quincy fissò il nipotino, poi fissò Swatch per qualche momento. Poi estrasse il cellulare, fece una foto al Swatz e la inoltrò a Brodway.
Con la rubrica pronta, aspettò che lui finisse di cantare.

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Ultimo compleanno del Capitano Buono Ballantines Swatch

Il giardino profumato di spezie era circondato da un porticato ombroso, sostenuto da colonne cesellate. Al centro c’era una fontana mormorante incastonata di gemme preziose, da cui l’acqua fluiva scintillante riempiendo le vasche disposte ad altezze diverse. Alcuni cammelli brucavano sotto le palme mentre un pavone passeggiava becchettando.
Un frullio d’ali d’uccello segnalò l’arrivo degli uomini in turbante. Vestiti di una tunica bianca e oro con le maniche a sbuffo, scendevano in un gruppetto scomposto dagli scaloni del palazzo. Parlavano una lingua straniera e le voci erano concitate mentre si affaccendavano a trasportare una lettiga.
Il Col. Tequila Sunrise giaceva sulla sontuosa lettiga che venne deposta tra i fiori, mentre i servitori si affrettarono a portare le vivande in vassoi d’argento. Sdraiata a pancia in giù, indossava una canottiera e un vistoso paio di mutande bianche su cui spiccavano due grossi cerotti messi a x per ogni natica. La faccia era sofferente.
«Per le statue di Visnù, quando mi passa questa escoriazione sulle chiappe, Omar? Mi avevi giurato che con l’unguento e le benedizioni di quell’illuminato amico tuo sarebbe tutto sparito nel giro di una respirazione completa! E tu Sharif? Devi proprio strappare i cerotti così bruscamente ogni volta che rifacciamo il bendaggio? Adesso vai in cucina e mi correggi lo yogurt con il Branca Menta, che con ‘sto calore che c’è già alle dieci di mattina tra un po’ emetterò vapore. Certo, così mi è evaporata la cellulite, con buona pace di Rajban, ma a parte questo, cosa faccio tutto il giorno a pancia in giù in giardino? Guardo le formiche?»
«I cerotti vanno tolti spesso e forte, mia signora: bisogna che vengano via tutti i peli del cammello che ancora sono attaccati al… ehm all’escoriazione. Ora si rilassi e lasci che gli dei provvedano: le porto un secchio di vernice per giocare a Holi con i colombi, che non hanno le mani e quindi può anche chiudere gli occhi.»
«Invece di farla a me adesso, non potevate farla al cammello, la ceretta? Prima? E sulla schiena del cammello, non si poteva mettere un cuscino? Ci sarà pure un cuscino nel deserto del Thar. Se l’avessi saputo sarei passata prima all’Upim, che ci sono i saldi, e per tre euro procuravo cuscini e lenzuola per tutto il corteo. Comunque il cammello non mi pare un mezzo adeguato ai percorsi lunghi, a meno di usarne due e appenderci un’amaca in mezzo: con quell’andatura tutta dondolante mi è venuto anche il torcicollo. E a proposito dell’Holi, se becco quello screanzato che…»
Un telefono attaccò a squillare in lontananza.
«Hey! È Orson: la linea di emergenza! Omar, fai venire il telefono, di corsa!»
Omar battè le mani e un elefante d’avorio galoppò in giardino reggendo sulla proboscide un telefono in bachelite. Omar si precipitò a inserire il vivavoce mentre un paravento per la privacy veniva prontamente allestito dagli altri servitori.
«Orson carissimo, che sorpresa! Meno male che qualcuno si fa vivo ogni tanto. Guarda, sono in una tale situazione imbarazzante…»
In quella venne interrotta dalla voce di Rajban, stridula e capricciosa.
«No, no e no! Ho detto no! E nel caso non lo si fosse capito, è no!»
L’ologramma di Orson stava seduto su un mucchio di calcinacci e reggeva il cellulare con telecamera rivolto verso un grande calzino bucato da cui sporgeva soltanto la parte posteriore di Rajban.
«Non essere testona – stava dicendo Orson – la tradizione è tradizione: non puoi dire a Swatch che il racconto per il suo compleanno glielo fai per Natale, su! »
«Non mi interessa! Non so cosa scrivere, non c’ho un’idea. Volevo fare un musical, ma non c’ho tempo, volevo scrivere un film, poi ho pensato che era meglio una ricetta di cucina e mi avete dissuaso tutti in coro. E allora ciccia!»
«Raj, esci dal calzino, da brava. »
«No, no e no! Ho detto no! E nel caso non lo si fosse capito, è no!»
In quella pensò di intervenire anche Tequila: «Hei, Raj bella, non puoi farlo. Io sto aspettando da una settimana, non so cos’altro fare qui senza neanche la cellulite che mi fa compagnia. Non faccio altro che fare la ginnastica facciale, ma oramai tengo la faccia più tonica di tutta l’India e non vorrei che mi scambiassero per una dodicenne dispersa nello Tsunami.»
«Lasciatemi sola! Parlo solo con i miei gatti! Siete tutti cattivi!»
Orson pensò di passare alle minacce velate: «Cara, ti capisco, ma ti rendi conto delle conseguenze? Ormai è quasi sera, il compleanno di Swatch è domani e lui ha deciso pure di smettere di fumare con il nuovo giorno che verrà. Non puoi compromettere un tale progetto: ne va della sua salute. Cosa pensi che potrebbe succedere se intuisse che non hai intenzione di scrivere la storia del suo regalo compleanno? Lo sai che ha doti di telepatia!»
«Non me ne frega un accidente! E poi non è vero che Swatch è telepatico. Domani… Domani… Domani è un altro giorno. Toh!»
«È telepatico. Ti dirò di più, e visto che sono Orson non si capisce perché dovrei mentire: Swatch lo sa già, e per il dispiacere gli è venuto male al pancino.»
«Orpola, di nuovo? Raj, guarda che così dimagrisce e si fa un fisico dell’ostia!» Intervenne Tequila.
«Come sarebbe?» Raj aveva sporto il naso dal buco del calzino.
«Sarebbe che sta meditando un atto disperato e la colpa sarà tutta tua!» Sbottò Orson.
«Ecco! È sempre colpa mia! Troppo comodo caricare gli altri di responsabilità a fini manipolativi! Non mi gestirete con i sensi di colpa! Lasciatemi sola, parlo solo con i miei gatti!»
Rajban si era di nuovo seppellita nel calzino. L’ologramma di Orson sparì e la linea cadde.
Nel frattempo il tempo passava.
O almeno, così avrebbe dovuto essere: gli ultimi raggi della sera insistevano a scaldare il calzino di Raj che lì sepolta sudava e si ostinava a tenere gli occhi serrati. Tequila guardò il sole che implacabile si accaniva sui cerotti: sembrava non essersi mosso.
Ed era proprio così: Swatch aveva fermato il tramonto.

Sulle colline della Stiria cominciava a radunarsi una certa folla di brava gente vestita in braghette di panno e bretelle. Qualcuno aveva allestito un barbecue in mezzo alla neve e giravano bottiglie di acquavite alla prugna. Una mucca forte e gentile trainava un carretto colmo di stecche di sigarette.
Swatch stava solo in cima alla collina e fissava il sole. C’era un posacenere colmo di cicche a diversi stadi di consunzione e lui fumava a ciclo ininterrotto. Avrebbe smesso col nuovo giorno. Ma chi l’aveva detto che domani doveva arrivare così presto? Aveva chiesto al sole di fermarsi e lui si era fermato.
Così Rajban avrebbe avuto tempo. Lui pure.
La vita era troppo frenetica. Guarda Rajban com’era ridotta.
Swatch smise di riflettere e si concentrò di nuovo sul sole. Gli pareva di essersi distratto un momento e che lui si fosse mosso. Accese un’altra sigaretta.
Tequila nel frattempo stava cercando di riprendere la linea. Raj non rispondeva, si sentiva solo un russare attutito. Orson con la sua latitanza sembrava dire: “Pensaci tu”. Un dromedario cominciò a sgranocchiarle i capelli mentre lei si mise a fare la prova del Coniglio Checo: proiettava la sua ombra sulla fontana oramai da mezz’ora e quella non si era mossa. Se non faceva qualcosa il sole le avrebbe fuso i cerotti tutt’uno con le chiappe.

Il Presidente Di Qua aveva corso come un matto per essere intervistato in Campidoglio con gli ultimi raggi di sole che gli illuminavano il parrucchino. Gli pareva che gli dessero una certa aria di santità. Pensava di non farcela più e invece trovò il tramonto ad aspettarlo. Ovvio, pensò: anche lui mi apprezza. E cominciò a valutare la possibilità che il sole si fosse fermato per lui.
A mezzanotte ne era sicuro. Emise un comunicato mondiale dove dichiarava che il sole, suo primo elettore, aveva decretato per tutti. Gli sorse una frase spontanea, come se fosse sempre stata lì ad aspettare di essere emessa da lui in esclusiva: Il sole, nasce e tramonta con me. E le agenzie cominciarono a volare.
Notte, notte, sempre notte. Ma che stava succedendo? Erano ormai 24 ore che il Presidente Di Là aspettava l’alba per dichiarare guerra al Buzukistan: si era perso tempo perché i suoi consiglieri sostenevano che non esistesse. Ma lui sul Risiko ce l’aveva eccome, e gli serviva proprio quello stato là per completare la linea di difesa.
Quando gli arrivò l’agenzia dell’altro Presidente, si incazzò non poco e lo avvisò immediatamente che stava venendo meno al Patto di Alleanza.
Il Presidente Di Qua, con tutto il rispetto e la riconoscenza per gli stati promotori di democrazia, stava cominciando a pensare che la democrazia era una bella cosa, ma c’erano state anche altre forme di governo, e dalla Storia tutti dobbiamo imparare. Si era fatto allestire un trono egizio e aveva riunito alcuni suoi amici costruttori: radendo al suolo alcuni quartieri oramai obsoleti ci sarebbe stato spazio per la piramide con ascensori più ganza della Terra. Era ora di dare una lezione agli arabi. Fece finta di avere il telefono scarico e non richiamò il Presidente Di Là.
Si rischiava la guerra mondiale.
Tequila disse:  «Portatemi un cammello imbottito che devo partire subito!»
Raj disse: «Gli sta bene a tutti quanti, l’ho sempre detto che il problema mondiale è il sovraffollamento: speriamo che tirino la bomba H!» E si ostinava a non uscire dal calzino.
A Naxos una delegazione di greci era partita in barchetta verso Paros con l’attrezzatura da scalata. Volevano picconare via il sole dal monticello dove probabilmente si era incastrato. Cercarono di fare leva, gli diedero di pala e usarono le bombe. Non si muoveva. Dopo dodici ore di tentativi si rassegnarono: fecero un segnale verso un albero di Plaka da cui si poteva vedere Coco che stava in spiaggia con la chitarra a cantare Knock Knock Knock on the Heaven’s Doors oramai da 270 ore: come da accordi, il cecchino lo abbattè a fucilate.
A Piacenza una delegazione di galli da pollaio aveva presentato una richiesta di pensione di invalidità per tutti: oramai avevano la raucedine per mancanza di esercizio e ritenevano che la cosa avesse raggiunto il punto di irreversibilità.
Ma nessuno era al Municipio per riceverli: in tutta Europa si era scatenata la festa dell’Happy Hour.
Tequila aveva finito sedici cammelli per arrivare presto, e la cosa l’aveva in qualche modo vendicata, a suo parere. Si precipitò a dare la buona notizia a Raj che dormiva nel calzino con tutti i gatti arrotolati.
«Rajjj! Tesoro bbbellooo! C’è l’Happy Hour più gigantesco della storia! Esci da lì che si va da Alberto…»
«Non ci casco! Tu vuoi farmi sentire in colpa.» Ma aveva messo il naso fuori dal buco, e Tequila lo interpretò come un buon segno.
«Io fossi in te mi muoverei: nessuno va più a lavorare da settimane e le scorte di alcool stanno finendo. Ci sono giusto i coltivatori di tabacco delle steppe che oramai sfiniti aspettano che suoni la campana dell’intervallo: ma c’è gente che va a dare loro il cambio, purché Swatch continui a tenere fermo il sole.»
«Bene. Così lavora solo più una fetta di mondo. Ottimo. E allora io perché dovrei lavorare? Eh? Lavora nessuno e io devo lavorare? Scordatevelo!»
Tequila aveva fatto un salto veloce in Stiria, aveva visto Swatch e aveva anche tentato di parlargli, ma lui non le rispondeva: fissava il sole con occhio fanatico e lei aveva capito che stava aspettando. Trascinarlo via da lì non sarebbe servito: il corso degli eventi sarebbe cambiato in peggio. O tutto procedeva da regolamento o sarebbe stato un disastro. Swaccino era bellissimo come sempre: il sole gli aveva donato un’abbronzatura dorata e gli occhioni azzurri sfavillavano.
Tequila pensò anche che se il tempo non passava si sarebbe sconfitto il morbo dell’invecchiamento e questo non era male. Però per fare il saluto al sole avrebbe dovuto andare in Australia e questa era una bella scomodità.
Aveva dato un bacio sulla fronte a Swaccino, gli aveva lasciato delle sigarette indiane, ed era subito ripartita per l’Italia: c’era anche Senior disperato che cucinava da giorni la stessa cena: aveva detto agli invitati di passare alle otto e non arrivava nessuno.
Ora bisognava cavare Raj fuori da quell’orribile tubo di lana.
«Raj, hai valutato che c’è in corso l’estinzione totale di tutti gli animali notturni d’Europa? Mai più gufi e civette da queste parti: stanno morendo di fame.»
Raj, che stava diventando sempre più fanaticamente animalista e aveva scritto un articolo sulla salvaguardia del virus dell’HIV, si agitò nel calzino: «Beh, da altre parti sopravvivono: è sempre notte…»
«Già. E dove è sempre notte, come fanno a mangiare gli altri animali, i pesci per esempio?»
«Si spostano, per esempio. Uffa!»
«Ah. E tu fai spostare una famiglia di criceti con neonati di 10.000 kilometri? Beh, bella responsabilità…»
Raj intanto aveva cacciato la testa fuori e fissava Tequila con sospetto. La permanenza nel calzino le aveva donato un colorito da ostrica.
«Raj, ma che colorito nobile e sofisticato! Io con tutto ‘sto strato di abbronzatura sembro uno sterratore. Certo che tu sai come prevenire le rughe eh? Mah, hai ragione: non vorrei che andando da Alberto mi tornasse la cellulite tutta di colpo…»
Rajban si stava già vestendo: molto dimagrita, era uscita da una smagliatura del calzino scivolando come un’aguglia da sotto lo strato di gatti. Si infilò la gamba di un collant a mo’ di vestito, e la fissò con delle bretelline.
«Alberto.» Disse.
Si avviarono con tutti i gatti e Tequila che nascondeva un portatile sotto la pancia del cammello.
Alberto non riconobbe Rajban, come solito. Quando capì che era lei, le chiese dove stava quel suo amico simpatico col naso alla francese e Tequila quasi faceva dietro-front tornando ad Arambol dove era in corso una session commemorativa per Coco. Ma poi si disse che lo faceva per il bene del mondo.
Si fecero subito sei Mojto piccoli e Rajban cominciava ad ammorbidirsi. Tequila tirò fuori il portatile come per caso. Rajban voleva scriverci un elenco di ricette per cocktails. Tequila allora fece una videochiamata in Stiria: Swatch era immobile, con dei ghiaccioli che gli pendevano dalle orecchie e a cui il sole conferiva un riflesso di topazio.
Quando capì che c’era Rajban al telefono si commosse, ma non volle chiedere nulla. Raj invece gli chiese un pollo alle verdurine e una Nadiva con brodo autentico. Lui disse che non poteva, doveva tenere su il sole e quel nido che degli uccellini avevano costruito sulla sua mano tesa.
Raj, vista la situazione, crollò di colpo: «Sono un essere bieco, non valgo nulla: ti rendi conto Tequi? Le mosche, per via del tepore, si saranno riprodotte in modo abnorme e staranno torturando tutti i ciuchi della Grecia, e io cosa ho fatto, invece di andare a sventolarli? Mi sono nascosta in un calzino, ecco cosa ho fatto. I miei gatti sono rimasti con la sabbietta da cambiare, il cane di sotto avrà aspettato il biscotto inutilmente per giorni e giorni e io, ripiegata nel mio egoismo, Dio mio che disgusto. Mi suicido.»
Chiese un cocktail al botulino.
Tequila Sunrise stava perdendo la pazienza. Chiese a Swatch di parlarle, ed entrambi promisero che avrebbero continuato a fumare moderatamente, a bere e a mangiare carne e tante altre cose poco sane.
Allora Raj cominciò lentamente a tuppiare sul pc. Volle specificare che questo più che un regalo era un pensierino giusto per la tradizione, e che non lo considerassero definitivo, ma almeno qualcosa stava scrivendo. Intanto Swatch fumava e la mucca trainava il carretto, sempre più vuoto perché anche la fornitura di sigarette stava per finire, e la grappa ce l’aveva solo più Alberto in un bunker lasciato dai nazisti di cui solo lui conosceva l’ubicazione.

Il mondo tremava.
La schermata del pc si riempiva di parole.
Tequila batteva nervosa il piedino e aveva attaccato a ciucciare il quinto fratino da sei litri.
I gatti fissavano immoti.
Rajban non rilesse niente. Sostò un attimo a guardare lo schermo del pc e premette il tasto Salva.
Nello stesso momento l’ultimo mozzicone che Swatch avrebbe fumato gli si staccò dalle dita e andò a conficcarsi a rallentatore nella neve.
Il sole cadde come un sasso, con gran fragore.

E fu buio, e alba altrove.

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Special contents

– Comunicato intergalattico.
– Provenienza: Colonnello Rajban.
– Destinazione: Capitano Buono Ballantines Swatch.
– Oggetto: riunione colonnelli in territorio straniero.
– Resoconto:

In data 3/11 il Colonnello Rajban riceveva con i dovuti onori il colonnello Tequila Sunrise in visita ufficiale a Londra.
Mancato clamorosamente l’incontro alla stazione Victoria, Rajban licenziava la fanfara e si dirigeva a piedi alla base numero 2, certo Novi Hotel, la cui collocazione topografica risultava alquanto approssimativa.
Dopo ore di cammino e la conseguente formazione di vesciche dolorosissime, il colonnello sbaragliava le guardie all’ingresso del suddetto hotel e raggiungeva la stanza convenuta, formulando i soliti porchi di riconoscimento.
Il Colonnello Tequila Sunrise si trovava presso la postazione abituale: il telefono.
Dopo i convenevoli di rito e una visita prolungata alla nuova biancheria esplosiva del Col. Sunrise si passava alla bevuta e alle lamentele tradizionali. Il colonnello si presentava in forma media causa stress da tournée.
In serata il Col. Rajban assisteva al concerto a Bank, indossando la regolamentare maschera contro gli attacchi chimici perpetrati dall’alito di un pubblico apparentemente innocuo.
La rappresentazione, con tutta l’orchestra e le luci molto pertinenti, risultava splendida.
A fine concerto, dietro le quinte, Rajban entrava in contatto con più civili, tra cui un certo batterista italiano, residente a Londra da diversi anni. Il soggetto in questione, che riteniamo sia di sua conoscenza, si è esibito in un concerto di bestemmie e volgarità dialettali d’indubbia rarità e originalità, al punto che Rajban ha dovuto tirare fuori il blocco degli appunti.
Il Colonnello Sunrise se ne svolazzava via il mattino seguente lasciando il Col. Rajban sola, con le bustine di shampoo e le saponette dell’hotel.
Il Colonnello Rajban rimane all’estero per il momento, base di Finchley Road, in veste di piccolo esploratore.
La lingua è ostica e le usanze pure.
In attesa di comunicati, pacche sulle spalle e pettegolezzi, militarescamente la saluto.

Tlack!

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– Naxos, Agosto
– Comunicato intergalattico
– Provenienza: Colonnello Rajban e colonnello Tequila Sunrise
– Destinazione: Capitano Buono Ballantines Swatch
– Oggetto: riunione colonnelli in territorio straniero e vacanziero.
– Resoconto:

Quelle due sgnaccherone dei colonnelli riposano le loro membra lucide e scattanti sulla setosa arena della base mediorientale. Guizzano tra i flutti, si abbronzano sulla battigia e russano tra il bambù.
Chissà dove sei tu.
Perché non sei quaggiù?
Er Colonnello Raj è impegnato nello studio dei romanzi Harmony. Spesso cade in uno stato meditativo profondo, che si chiama sonno ipnagogico, ma che qualche ignorante qua continua a chiamare pennica grufolosa.
Er Colonnello Rise approfitta del sonno ipnagogico del Raj per leggersi tutti gli Harmony e poi rileggerseli dietro le sue spalle facendo commenti del tipo: «Ah sì, lì è dove lei sta per annegare, ma poi figurati, lui la salva recuperandola con l’arpione delle balene, che le strappa tutti i vestiti, anche il corpetto, che lei avrebbe voluto morire dalla vergogna, ma poi lui le fa la respirazione bocca a bocca, e allora lei pensa che di già che è viva e forse domani non lo sarà, carpe diem e tutte le solite balle. Che schifo!»
Allora Raj gira lentamente il suo famoso sguardo omicida, quello che ha fatto tremare più di un narcotrafficante colombiano, e dice: «Perché non ti leggi quell’altro, prima che ti strappi le costole?»
E il Rise dice: «Quale, quello dove lei è una contadina che viene venduta come geisha all’unico cinese con remore di tutto il continente asiatico, che poi sembra che muoia in uno scontro tra mafiosi locali, sparisce due anni e lei si risposa con uno stronzo, ma era incinta del figlio dell’altro e quando lui ritorna lei non lo riconosce perché è travestito, ma il marito invece lo riconosce e allora s’incazza, ma per fortuna muore inghiottendo un osso di pollo? Non mi piace!»
Er Colonnello Raj si allena, scientificamente, ogni mattina, concentrata, in modo molto professionale.
Il Col. Rise annuncia: «Fitness? Ah, era ora!» e si piazza a scimmiottare Rajban per una buona mezz’ora.
Poi, mentre Rajban giace ansimante, Rise fa una corsa di venti kilometri sulla spiaggia e ottanta flessioni su una mano sola. Dopodiché s’immerge tra le correnti e sta in apnea quaranta minuti, fino a che Rajban comincia a pensare che questa volta ci è rimasta. Invece lei riemerge bronzea e con i muscoli molto più sviluppati del giorno precedente e dice al Raj, che continua velocissimamente a inflaccidire, nonostante gli sforzi: «Aho, ammè sto fitness me ffa ppropio bbene, guarda un po’ qua che chiappe!»
La taverna Three Brothers sta sempre al suo posto e i brothers stanno tutti bene e ci offrono sempre l’Ouzo. Stiamo combinando i soliti guai tradizionali.
Er Coniglio Checo te saluta.

Tlack!

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Tequila

È che tutti parlano degli attacchi di quei terroristi, della borsa, dell’etica, e di cinture che si stringono.
Ma a volte nella vita le cose accadono su livelli diversi: non quelli del telegiornale.
Tanto per fare un esempio, Tequila Sunrise stava viaggiando in metaversi tropicali, a cavallo di un bus.
Che fosse un bus del terzo mondo, con valige e galline tutte azzeppate nel vano sbagliato, non c’è dubbio, ma.
Così i bagagli si perdono.
E nel bagaglio di un supereroe non sai mai cosa ci puoi trovare, perché esiste un’apparecchiatura – che ancora non è entrata nel circuito distributivo delle fiere del benessere e che solo Orson possiede in concessione esclusiva – che oltre a miracolare l’aura, liofilizza le energie.
Tequila aveva liofilizzato le sue e le aveva messe in valigia, per tirarle fuori al momento buono.
Siccome vagava, e le piace farlo leggera, nella valigia ci aveva anche liofilizzato un altro centinaio di cose: i suoi quartetti, i suoi agenti, le sale teatrali, la voce. Gli amici, i contatti di lavoro, le idee.
Mica poco.
Ma a volte i bagagli si perdono, si dice, soprattutto se stanno sul tetto di un bus che viaggia seguito da degli asini in via di estinzione che trasportano altri bagagli e i passeggeri poco paganti.
Che nel mondo poi, una nazione decida per un presidente di colore diverso, sai che ti cambia a te quando affoghi in un 100% di umidità, a 50 gradi.
Per dirla secca il bagaglio era andato e Tequila non aveva più un lavoro, né una professione.
Se ne accorse una volta scesa al capolinea, ma soltanto dopo il cappuccino.
E anche dopo l’sms di un certo Wulf che scriveva in inglese con accento tedesco e a cui lei aveva voluto rispondere in francese con accento arabo. Si era così perso tempo prezioso, anche determinante, volendo.
Il SMS trattava di complimenti sulle sue doti artistiche, ma il fatto era che anche quelle stavano liofilizzate nel bagaglio e quindi si stava parlando di roba che al momento non era reperibile.
Tequila chiamò Rajban da un paese che non era segnato sulle carte geografiche e non aveva una rete idrica, ma ospitava la più tosta jam session del mondo: sulla sabbia intarsiata di cemento, con il Mojto caldo offerto dalla casa: «Colonex! Non tutte le uova escono dal buco: accendi un lumino di crema di carota perché qua è successo un casino. Per la crema di carota devi tagliare le carote in pezzi quadrati, usa il coltello di ceramica che ti ho regalato nel 2005 e che dovrebbe essere nel cassetto dei maglioni, fai bollire con qualche ciuffo di bardana, basilico, agrifoglio e farina di cocco, scola lentam… »
Rajban eseguì senza parole: aveva la pressione bassa.
«Comunque sai che ti dico?» Continuò Tequila entusiasta.
Rajban non rispose: aveva la pressione bassa e un gatto le dormiva sulla trachea.
«RICOMINCIO DAL LISCIO!» E chiuse la telefonata.
Rajban voleva accendere lo stereo in segno di simpatia, ma aveva una forte anemia e soprattutto lo stereo non funzionava più, come anche il suo apparato urinario.
Tequi interpretò il suo silenzio come un EVVAI e si mise a scrivere una mail anche a Raul Casadei.
«Bavaaa» Cercò di sillabare Raj, ma non la sentì nessuno: aveva la tensione delle corde vocali bassissima. Era venuto un accordatore, ma si era sentito male sulle scale e non ce l’aveva fatta ad arrivare al primo piano.
Casadei era a fare dei pediluvi per dei calli che gli erano venuti all’ultimo concerto con i Camperos di Romagna. Non rispose alla mail di Tequi perché stava litigando con il suo agente per questo.
Tequi intanto aveva arrangiato il Tango delle Capinere e non si lasciò intimidire: trovò un ingaggio per una serata a Bagnoli di Polentaria, una provincia del Nord: cercavano un suonatore di fisarmonica e lei ne aveva trovata una avanzata, proprio su quel bus che si era inghiottito tutto il resto. Forse era un segno del destino.
Lo spettacolo che ne uscì impressionò molto i partecipanti: tutti volevano conoscerla e imparare quel passo saltellante che faceva, su un piede solo, mentre sfrandava la fisarmonica con il plettro. Il suono non usciva ben mixato, quindi Tequi aveva fatto la fisarmonica a voce e nessuno si era accorto che la suonava in playback.
Un uomo tenebroso con la cravatta di Gatto Silvestro però, le si fece sotto con alito arrogante: «Famme un po’ vede’ come che ‘tte bali.» Disse.
Era un romano importato, ed era lì perché aveva organizzato un torneo di calcetto per amici suoi, tutti calvi, in un campetto vicino.
Tequi disse: «Sarai mica di Favignana?»
«Eh?» Rispose lui.
Cosi lei poté aprirsi libera e raccontargli i sogni che non aveva ancora sognato.
Lui ordinò da bere e sapeva cosa piaceva a lei, chi sa come.
Lui disse: «Peccato che non cucini come canti, lo so che la fisarmonica aveva il cavo rotto, che ti credevi, sono musicista ascendente elicottero, io.»
Lei disse: «Della musica ho perso tutto.»
«Tranne il suono.» Disse lui.
Tequi era colpita: si fece prestare il fornello della sagra e gli spadellò due gamberi in salsa di castagne per mostrargli simpatia.
Lui chiese un pianoforte.
Non era nel menù, ma giusto in quel momento Orson si era accorto che c’erano dei bagagli su Salvelox che non avrebbero dovuto esserci. Non che ci avesse capito qualcosa, ma aveva deciso di liberarsi di uno Steinway a coda che ingombrava. Si materializzò sulla piazza della sagra assieme alla parrucca di Marcella Bella, e questo per far capire quale confusione che c’è lì in magazzino.
Tequi, come vide il piano, nessuno sa perché, perse le scarpe. Ma non si mosse, che non ne sentiva nessun bisogno. Guardò il cielo e le andava bene così.
Lui si mise a suonare e rideva. «Sono i gamberi credo.» Disse, mentre la cravatta di Gatto Silvestro si incastrava su una sesta che Tequi non aveva mai sentito.
Gli astanti cercarono di ballare, ma il ritmo non permetteva cose banali, di quelle che si possono fare con la pancia piena di salsicce.
Tutti guardarono Tequila sperando che ci desse un’aggiustata con la fisarmonica. Ma anche quella era svanita sostituita da un vestito bianco da Iniziata: chi ci capisce è bravo.
Tequi avanzò senza senso in mezzo alla piazza, e non faceva freddo. Cantò solo lei, ma ognuno pensò di cantare e nessuno si accorse che era un concerto solista.
Alla fine tutti fecero l’applauso dicendosi: ‘dovrei incidere un cd’.
Tequila e Gatto Silvestro invece fecero un progetto e questa volta non ebbero bisogno di nessuno: funzionava da solo.
Quelli del business lo scoprirono, e trovandolo interessante cercarono di farsi sotto, ma la sagra nel frattempo aveva chiuso, tranne il banchetto dello zucchero filato: alla fila di critici pieni di belle frasi da editare, Rajban rispondeva, con le mani appiccicose, che potevano avere la nuvola alla fragola, ma dovevano portarsi lo sciroppo da casa.
Perché lì, dove non c’era più niente che servisse davvero, anche l’orzata era finita.

————–

Rajban

Il Principe Veryfico stava facendo un brutto sogno: la festa del suo compleanno si svolgeva nel posto sbagliato e il locale era scadente. Avrebbe dovuto esserci un clima tropicale e invece faceva freddo. Anche gli invitati erano strani, e il suo ricco vestito, solitamente tempestato di azioni preziose, si era trasformato in un mantello fuori moda con il collo di ermellino smangiucchiato. Per giunta si ritrovava senza stivaletti, a piedi nudi, proprio come quella tizia che continuava ad entrare e uscire da tutte le porte, sempre più ingioiellata, e che non si capiva cosa volesse da lui.
Quando la bambina brunetta sbucò dalla torta e si mise ad inseguirlo con un’accetta, decise che era il caso di svegliarsi: sapeva di stare sognando perché aveva sempre tutto sotto controllo, quindi avrebbe anche potuto vedere come andava a finire, ma quella era davvero la mattina del suo compleanno e voleva cominciarlo secondo tradizione. Mise il sogno in pause: l’avrebbe guardato registrato una delle notti successive.
Aprì gli occhi e controllò subito il panorama dagli oblò del suo palazzo galleggiante a forma di grande veliero. Niente uffici, bene: aveva ordinato il fondale Polinesia che era stato prontamente inserito.
Un tucano seduto su una bitta d’oro a zampe incrociate lo fissava attraverso i vetri. Che guardasse pure.
Si mise pigramente in ascolto di rumori vaghi e lontani, che erano probabilmente i preparativi della cerimonia. Quest’anno aveva chiesto ai suoi sudditi un regalo bizzarro più che mai, un po’ per mettere alla prova lo loro fedeltà, ma anche perché non sapeva più cosa chiedere: aveva tutto.
Effettivamente non c’era niente che non potesse avere, primo perché era ricco, e secondo perché quando voleva una cosa, la cosa si spaventava talmente che si consegnava da sola: tutti sapevano quanto fosse determinato.
Indossò una vestaglia calda sopra il pigiama regale e si avviò alla porta che dava sull’ala pubblica con un sorrisetto compiaciuto: come ogni anno, il giorno del suo compleanno si alzava da solo, senza servitori e senza carrucole, tanto per fare un po’ di movimento.
Adesso che ci pensava, il tucano c’era anche l’anno precedente, stessa postazione. Forse era lui che depositava silenziosamente il regalo davanti alla porta. Però l’ultima volta il pacco era talmente grosso che si era dovuto aprire con una gru di platino che era arrivata in allegato. Questo significava che quell’essere dall’aria patita doveva possedere una certa qual baldanza per riuscire a trasportare cose simili. Non che la cosa stupisse il principe Veryfico: nei fisici più fragili a volte si nasconde la mente più forte e forse il tucano trasportava le cose col pensiero. Non era da tutti, ma non era difficile, lui lo faceva spesso.
La grande porta con lo stemma di design scivolò sui cardini silenziosi, aprendosi come per magia.
Chissà come avevano impacchettato i neuroni. Sì, perché aveva chiesto dei neuroni come regalo di compleanno, tanto per farsi due risate: ne possedeva molti di più di tutti i suoi sudditi messi insieme, ovviamente, lo sapevano tutti. Era proprio curioso di vedere quanti ne avrebbero trovati.
Forse si erano dovuti rivolgere a cliniche estere di espianti illegali, pensò all’improvviso: l’idea di neuroni di seconda scelta lo turbò e dovette chiudere gli occhi per scacciare l’immagine nefasta. Decise che in ogni caso ne avrebbe chiesto la provenienza, e nel dubbio avrebbe magnanimamente ringraziato e li avrebbe subito sepolti in un simpatico barattolo.
Il principe Veryfico sbattè le palpebre e guardò una seconda volta, per essere sicuro che non fosse un’allucinazione.
Niente pacco regalo.
La porta si apriva sugli scaloni, gli atri, le finestre alte e luminose. Nessuna barriera infiocchettata si frapponeva fra lui e tale vista grandiosa.
Avvertì come un giramento e capì che stava per venirgli mal di testa. Anzi, una specie di prurito, come di una piuma che lo solleticava. Sollevò lo sguardo.
Sulla porta regale, proprio in mezzo allo stemma imperiale, c’era una busta malamente inchiodata da una freccetta piumata.
Volendo scommettere, si sarebbero dette le piume del tucano.
Il principe Veryfico cercò di mantenere un atteggiamento annoiato e dignitoso, mentre staccava la busta e l’apriva come se si trattasse di un dispaccio: maledetto Rajban, non l’aveva invitato e si era presentato lo stesso.

– Comunicato.
– Sede: regale.
– Oggetto: regalo.
Att. S.M. Principe Veryfico.

Caro Verry, buon compleanno. Non ti lamentare troppo del fatto che invecchi, lo fai tutti gli anni e sta diventando una palla e poi il prox anno sarà anche peggio, fidati. Bella idea quella dei neuroni, si sono tutti talmente stressati a trovarteli che sono l’unico rimasto a possederne ancora qualcuno: te li regalerei volentieri, ma non mi ricordo più dove li ho messi l’ultima volta che gli ho passato il filo interdentale, e comunque puzzano troppo di tabacco, quindi so che tanto non li vuoi, finetto come ti ritrovi.
Mi è toccato fare una missione dell’ostia, ma credo di avere trovato qualcosa di adatto all’occasione, anche se si tratta di un neurone solo. È speciale però: l’ho scoperto carotando la calotta polare, sotto 2000 metri di ghiaccio paleolitico, nel cuore magmatico di una sfera di minerale sconosciuto che galleggiava in acque a temperatura ambiente in cui nuotavano dei vermi fosforescenti.
Gli altri tizi della missione sono tutti morti, contaminati dalla sfera credo, e io e l’orso polare ce li siamo mangiati. Io ho digerito benissimo, ma l’orso l’ho dovuto portare dal veterinario: i soliti problemi che insorgono durante le missioni.
Il neurone è probabilmente di provenienza extraterrestre e sembra un tipetto astuto. Non voleva venire via da lì, diceva che fuori faceva freddo e abbiamo dovuto convincerlo con qualche concessione extra: un paio di birre e un’altalena che lo tenessero occupato nell’attesa. È tutto nel pacchettino ai tuoi piedi, i fori servono per farlo respirare.
Un’ultima raccomandazione: il neurone ha la strana tendenza a fingersi altro, e se lo lasci parlare troppo t’impappina il cervello con tutte le sue storielle.
Sono certo che saprai addomesticarlo, io per la fretta ho dovuto stordirlo, perché con la scusa che aveva sempre freddo aveva già convinto l’orso a fargli un cappottino con la sua pelliccia lavorata all’uncinetto. Spero di non averlo danneggiato, altrimenti che regalo originale sarebbe, di danneggiati ne hai già tanti… harf harf harf!
Scheeerzo.

Tlack!
Tuo Raj.

Il principe Veryfico avrebbe voluto mettersi le mani nei capelli, ma non voleva spostare la corona e soprattutto non aveva i capelli. Scandagliò il pavimento con lo sguardo preoccupato: non l’aveva notato prima, ma c’era un minuscolo cubetto avvolto in carta da salumiere.
Si accorse all’improvviso anche delle migliaia di sudditi che si erano ordinatamente inginocchiati riempiendo persino la riserva di caccia e la consolle del D.J. Attaccarono ad applaudire tutti insieme mentre partivano i fuochi d’artificio augurali. L’elicottero era pronto per portarlo nella sala della colazione, piena di panini al latte con le candeline, al piano di sotto.
Rimase lì a fissare stranito tutte quelle facce sorridenti tra striscioni e palloncini, il ciambellano colto da un attacco che sembrava epilettico, ma era solo la vibrazione del telefono di Sua Maestà, che sparava notifiche di auguri a raffica.
Lui a quel punto avrebbe soltanto voluto farsi un’ipodermica di marron glaces. Impose il silenzio con un cenno elegante della mano, diede il benvenuto a tutti e annunciò che avrebbe fatto colazione più tardi, che la festa cominciasse pure.
Troppo di fretta si ritirò nelle sua stanze con la busta e il pacchetto, lasciando tutti interdetti.

Veryfico provò a rileggere la lettera nella speranza di stare ancora sognando. Un miserrimo neurone. L’avrebbe fatta pagare cara a tutti.
Il pacchetto sembrava vuoto, tanto era leggero. Se lo si scuoteva faceva rumore di vetri rotti. Decise di aprirlo con cautela, pronto a stecchire la bestia con una paletta elettrificata in caso si fosse mossa troppo in fretta.
Il neurone era grigio e sembrava un uovo di seppia. Si trovava in una specie di gabbietta per uccelli e spenzolava esanime dalla piccola altalena, le gambette abbandonate e le braccine strette intorno a un ciuffo di peli chiari. Due bottigliette verdi e senza tappo rotolavano sul fondo della gabbia: sembravano quelle di plastica che arredano le dispense delle case di bambola.
Veryfico fece ronzare la paletta elettrificata vicino al neurone per vedere se dava segni di vita.
Il neurone aprì un occhio bollicinoso e lo orientò lentamente fino ad inquadrare il principe. Dopo pochi secondi di contemplazione, scattò in piedi perfettamente sveglio: «Salve padrone! Eccomi umilmente al tuo servizio: apri la porticina della gabbia ed esprimi i tre desideri!»
Veryfico aveva i riflessi pronti e non era nato ieri, purtroppo. Non batté ciglio e continuò a fissare il neurone mentre lui ripeteva la frase in quindici lingue diverse. Quando lo vide sbracciarsi con i segni internazionali per i sordomuti decise di intervenire:
«Tu non mi freghi – disse – questa è un’altra storia e la conosco già: ho visto il dvd nel ’98.»
Il neurone lo fissò con una certa indifferenza. Si mise a dondolare sull’altalena mentre valutava la situazione.
«Pfiu, avevate ancora i dvd nel ’98, o è il tuo Paese a essere arretrato? Comunque, bene, dico, non è cambiato molto dall’ultima volta che ho visto un terrestre: anche tu sembri parecchio peloso.» E accavallò le gambette con fare annoiato. «O.K., ammetto che hai ragione: avresti dovuto sfregarmi la testina per esprimere i tre desideri, solo che finché sono nella gabbietta non puoi farlo. Ti suggerivo di tirarmi fuori per quello, poi ti avrei precisato meglio. Ma vedo che sei uno a cui non sfugge nulla e con cui è meglio parlare chiaro fin dall’inizio. Mangiate ancora quelle cose gialle con la buccia scivolosa o avete fatto qualche progresso almeno nella dieta?»
Veryfico valutò che il neurone si era già guadagnato la pena capitale tramite squartamento, ma voleva qualche altra informazione. Decise di ignorare le provocazioni: ultimamente si era fatto meno impulsivo e aveva scoperto che a volte funzionava.
«Sei un neurone?» Chiese, col tono che non ammetteva omertà.
«Non saprei – disse il neurone alzando un sopracciglio – del padre non sei mai sicuro. Mia madre era una seppia.» E allargò un sorriso sdentatamente infernale.
Veryfico colse l’allusione e si preoccupò assai. Se era un neurone leggeva nel pensiero, ovviamente: tutti colleghi suoi. Rischiava l’ammutinamento del suo prezioso apparato fonda-mentale. Sentiva che sarebbe stato bene schiacciare subito il neurone con un libro pesante, ma c’era qualcosa che lo tratteneva dal farlo.
Provò a fare piazza pulita di tutti i pensieri.
Intanto il neurone si dondolava in altalena, apparentemente intento a mettersi le dita nel naso.
«Perché dondoli?» Chiese Veryfico. Aveva deciso di essere spontaneo, niente strategie, cercava di non pensare. Era la prima volta che ci provava, a non pensare. Al solo pensiero gli era venuto un senso di vertigine ma aveva deciso di non pensarci. Pensava di riuscirci. No, cioè, ci sarebbe riuscito, ma non doveva pensarlo.
«Non dondolo.» Disse il neurone. «Perché pensi che dondolo?»
«Tu dondoli! Non c’è bisogno di pensarlo, basta guardare!» Veryfico ora era sulla difensiva e se ne accorse una frazione di secondo troppo tardi.
Il neurone sollevò gli occhi al cielo: «Apparenze, pregiudizi borghesi. Io oscillo…»
«Ah, e quale sarebbe la differenza?»
«Pensaci!» Disse il Malefico Neuri incrociando le braccia.
Veryfico decise prontamente per una piccola modifica al piano Zero Pensieri: stava aprendosi un file mentale d’emergenza con doppia password di protezione, alimentato da una fonte indipendente, la griyzlisporicina retard.
Fissò il neurone, che a dispetto della sua baldanza era evidentemente infreddolito. Benché fosse noto per il suo cuore di pietra, Veryfico fu colto da un vago senso di pena a vederlo lì nella gabbia, lontano da ogni luogo familiare. Gli venne subito voglia di prendere un grosso catenaccio per rinforzare le sbarre e soffocare così quello stupido sottoprodotto mentale che ancora ogni tanto produceva, suo malgrado: l’emozione priva di una ragionevole convenienza.
Poi però gli sovvenne che essendo nella fattispecie l’emozione una sottocategoria di pensiero non codificabile, poteva pure giocarsela: guardò il neurone affabilmente e diede una sventolata di ciglia che avrebbe scatenato un tornado nella galleria del vento: «Hai freddo? Ti capisco sai, ho sempre freddo anch’io: potrei prestarti una sciarpina. Secondo il mio modestissimo parere se dondo… ehm, oscilli, smuovi l’aria e prendi ancora più freddo.»
A quelle parole il neurone bloccò magicamente il dondolio dell’altalena in un punto del percorso che non si sarebbe detto scientificamente possibile: sembrava un fermo immagine. Lo guardò a occhi spalancati. Improvvisamente cominciarono a crescere delle ciglia anche a lui, che prima non possedeva: «Davvero lo faresti?» Due lacrimoni tremolanti scivolarono lungo le ciglia nuove e caddero sul fondo della gabbietta con un piccolo splash.
«Sii, mi fa piacere che i miei ospiti siano a loro agio, oggi è il mio compleanno, ci tengo davvero!»
«Oh santo cielo che maleducato, a saperlo! Tanti auguri! Se potessi uscire da qui mi fionderei a cercarti un regalo. Veramente. Cosa ti piacerebbe?» Chiese il Neuri avvicinandosi come per caso alla porta della gabbia con l’espressione più ingenua che Veryfico avesse mai visto e che gli sembrò quindi subito sospetta.
«Hum, se proprio ci tieni a farmi un regalo, potresti essere carino per una volta e dirmi perché oscilli: scusa se insisto ma mi è rimasto aperto il file. E prima di liberarti mi piacerebbe sapere chi sei: non so niente di te, ma ti trovo interessante… » Disse Veryfico con occhio sempre più frondoso. Aveva capito che questo impressionava il neurone.
Il neurone sembrò di nuovo come ipnotizzato. Teneva le manine timidamente giunte: «Io… oscillo… – ripetè – noi El..hem..oni lo facciamo sempre, soprattutto quando siamo in buona compagnia!» E attaccò a sgambettare come in una specie di danza bavarese. «Si tratta di un modo di vivere la vera essenza: tutto accade durante l’oscillazione, capisci? Lì, nel mezzo dei due punti di arrivo, che poi sono anche quelli di partenza. Praticamente io esisto nel viaggio tra i due estremi che delimitano il mio esistere e lo rendono percepibile: hai presente la musica? Ecco, la corda di uno strumento se oscilla emette un suono, la vera essenza del suo essere corda di strumento. La sua esistenza ha luogo nell’oscillazione, senza la quale è semplice, indefinita materia. Eppure la musica esiste al di là della corda, e poiché è l’Essenza, sboccia ovunque, accade, crea ciò che per sua stessa definizione è in perpetuo divenire. Insomma, caro mio, l’esistenza stessa sembra oscillare nella sua indecisione di essere materia senza fine alcuno oppure solo fine vibrazionale senza materia.»
«Hum, mi sembra un discorso un po’ New Age, fammi un esempio pratico.» Disse Veryfico con un sopracciglio sollevato.
«La tua stessa vita è il passaggio di questo momento che traghetta il tuo passato verso il futuro, capisci? E non c’è stasi possibile: tu tendi verso ciò che non hai, per poi raggiungere il punto e tornare a ciò che hai lasciato. In mezzo vivi. Tutto il tuo corpo oscilla tra inspirazione ed espirazione, non vi è nulla che stia fermo, ma tutto va e viene in un pulsare continuo. La stasi è una chimera pericolosa: non si è una cosa o l’altra, così come non si esiste in quanto soggetti svegli o dormienti, ma si esiste nell’oscillazione quotidiana tra il sonno e la veglia, che a loro volta si congiungono nel punto di passaggio da uno all’altro, e che inverte costantemente la direzione del tuo vagare. Voler esistere di qua o di là significa diventare materia amorfa.»
«Questa è una paraculata!» Sentenziò Veryfico incrociando le braccia. «Non mi convinci.»
Intanto aveva archiviato un po’ di dati sul neurone e dal file stava uscendo la stampata del profilo, in una delle sue aree segrete. Dopo avrebbe guardato il dossier e deciso se il neurone poteva avere un impiego da qualche parte.
Prese un grosso lucchetto e si accinse ad assicurarlo alla porta della gabbietta. «Ora devo andare, è il mio compleanno, sai. Mi stanno aspettando al Pelle di Tucano dove ho un tavolo prenotato. Vengo a trovarti dopo. Forse.»
Il neurone lo guardò con aria implorante. Poiché non suscitava alcuna reazione attaccò a piangere a fontanella: le lacrime inondarono subito la gabbietta e lui si trovò presto immerso fino alle ginocchia. Si buttò contro le sbarre sporgendo i braccini, disperato: «Oddio!» Gridò. «Salvami, principe, ti imploro! Ho imparato a nuotare solo il secolo scorso e l’umidità danneggia i miei circuiti! Fatemi usciiire!»
Il neurone finse uno svenimento plateale. Veryfico non ci badò e ne approfittò per sistemarsi la corona allo specchio: il Pelle di Tucano era un locale che gli piaceva, ma non era mai perfettamente a suo agio lì dentro.
Diede un’ultima occhiata al neurone: era sveglio e dondolava piano a pancia in giù sull’altalena guardando desolato il fondo della gabbietta.
Veryfico si avviò verso la porta.
«Dovresti vestirti da ranocchio» Disse il neurone con un sospiro rassegnato. «Non sei uno da quattro minuti, e quelle sono tutte principesse tormentate e frettolose: non devi cercare di parlarci, devi fare leva sui loro miti inconsci. Fingiti ranocchio, fatti baciare e fagli la sorpresa. In fin dei conti te lo puoi permettere: sei principe.»
Veryfico si bloccò con mano sulla maniglia. «Hey, ma ti sembrano ragionamenti da fare? Che razza di neurone sei?» Voleva fingere distaccato fastidio, ma il discorso sul ranocchio l’aveva turbato, benché a lui non interessassero particolarmente gli animali.
Il neurone gli rifece silenziosamente il verso mimando un disgustato bla bla. Poi mise le manine sui fianchi e assunse un’espressione polemica: «Sono il neurone che ti manca, no? Quello della fantasia. Ma gli altri che hai: fanno qualcosa o mi devo occupare io di tutto? Non mi sembrano molto svegli: avrebbero dovuto arrivarci da un pezzo!»
Veryfico si rese conto che era tutto vero: poteva trattarsi soltanto di un neurone inutile, visto chi glielo aveva procurato. «E che me ne faccio di te? Non mi servi.»
Il neurone assunse un’aria offesa: «Certo, hai ragione! A cosa posso mai servire io, e quei quattro come me che hai nella testa, e che sono anni che vengono tenuti in ostaggio dagli altri neuroni cattivi, solo perché sono più distratti e non hanno costanza produttiva! Ammazzali tutti con un virus informatico, forza, cosa aspetti! Che ti importa a te se una minoranza è perseguitata, imprigionata, impossibilitata a oscillare e in preda ad atroci sofferenze che tu avverti, ma di cui non capisci l’origine?  Ho-ho: sai cosa ti dico? Stecchiscili tutti con un bel pastiglione, ma scordati, e ripeto, scordati, che io accetti di assistere ancora a questo scempio genocida: me ne vado!»
Sgusciò come una saponetta tra le sbarre della gabbia e marciò deciso verso la porta.
«E bravo! Sei proprio un furbone! Sparisci e non farti pestare da nessuno che mi sporchi i tappeti, brutto pallone gonfiato! Sei inutile e insulso! Io volevo più RAM, non più fantasia! Hai capito?!» Strillò Veryfico perdendo il controllo.
«Più RAM? Per farne che? Per ricordarti tutte quelle cose eccitanti della tua vita, come il tuo numero di scarpe? Tz.»
«Insomma, ma che vuoi da me?» Veryfico era senza fiato e molto arrabbiato, ma quel neurone che se ne andava gli stava dando un certo formicolio di cosa perduta e che invece avrebbe dovuto appartenergli per diritto.
«In sequenza logica o volitiva?»
«Eh?»
«O.K., volitiva: voglio una giacca ganza di ermellino, due panini al latte, un giro in elicottero, ma l’autista deve guidare piano, e poi naturalmente voglio che mi porti al Pelle di Tucano
Siccome Veryfico lo stava fissando in stand by aggiunse: «Potremmo anche portarci il Raj, così se non sai cos’altro fare, le fai i dispetti.»
Si guardarono a lungo negli occhi.

– Comunicato
– Sede: locale notturno rumoroso.
– Oggetto: rapporto.
– Att. Egr. Gr.Cp. Orson.

Attuale posizione del Neurone: nel taschino di Veryifico in veste di suggeritore, protetto da un ombrellino da cocktail.
Condizione: ubriaco.
Segni utili al riconoscimento rapido in caso di intervento: giacca di ermellino, manette, cannuccia e bicchiere. Sorriso accecantemente sociale.
Attuale posizione del principe Veryfico: in oscillazione continua tra numerosi soggetti in minigonna.
Condizione: beata.
Segni utili al riconoscimento rapido in caso di intervento: completo costoso di strano colore verdastro, labbra a forma di cuore eccessivamente protese. Sorriso accecantemente sociale.

Conclusioni:
Uno schifo, me lo si lasci dire.
Posso tenermi il tucano?

Tlak!
Rajban.

Fine

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