Plastica negli oceani: come combinare un casino senza risolvere nulla.
Non passa settimana senza che qualcuno scriva un articolo dai toni gravi sulla situazione dell’inquinamento da plastica negli oceani, postando foto drammatiche di animali morti e bambini che sguazzano tra rifiuti galleggianti. Un articolo in particolare, uscito in concomitanza con la normativa che imponeva un costo ai sacchetti di plastica per la verdura nei supermercati, ha scatenato uno scontro ideologico tra coloro che protestavano per l’ennesima tassa, e i virtuosi, che proprio sventolando foto di ex luoghi paradisiaci ora inquinati, sostenevano che la tassa fosse la giusta pena da subire per il “nostro” comportamento peccaminoso.
Ovviamente si dà per scontato che la plastica che galleggia, formando intere isole negli oceani, arrivi dal mondo ricco: cosa vuoi che consumino quei quattro poveracci che vivono di banane nel Terzo Mondo? E soprattutto: cosa vuoi che capiscano quelli là del danno che fa la plastica nei mari? Dobbiamo pensarci noi: aumentando i costi delle buste, eliminando le cannucce, riciclando, e soprattutto convincendoci che il cartoccio che buttiamo per terra a Trebaseleghe raggiungerà senz’altro il Mediterraneo, si dirigerà spedito e incurante delle correnti a Gibilterra o a Suez, attraverserà gli stretti e navigherà per migliaia di chilometri per riunirsi infine ai suoi amici oceanici.
Così, l’occidente fa quella cosa perversa che gli piace tanto fare: autoaccusarsi in modo stucchevole di qualunque cosa per essere sempre al centro di tutto e insistere sulla sua superiorità, morale e culturale. Se non ti adegui alla moda del colpevolismo generico e provi a ragionare, sei matto o nazista.
In questa situazione emotivamente calda, si insinuano sempre soluzioni moralmente adeguate a cui aderire con facilità: oramai è pieno di siti che promettono di ripulire i mari con flotte di navi speciali e capitani coraggiosi 7/24 tutto l’anno. Contribuire è facile: basta comprare un oggettino da 20 euro e si alleggerisce magicamente il mare da un chilo di spazzatura galleggiante. Nessuno ha mai visto queste navi al lavoro, mentre i volontari che si offrono non sono mai contattati se non per qualche campagna di pulizia delle spiagge a titolo promozionale.
Le domande che nessuno si fa, avendo già trovato la soluzione espiatoria a 5 centesimi per busta o a 20 euro per braccialettino, potrebbero essere:
1) Serve davvero raccogliere plastica in mare, con consumo di risorse, carburante e quant’altro, se per ogni chilo eventualmente recuperato se ne riversano contemporaneamente tonnellate in qualche fiume, da qualche altra parte?
Gli esperti, quelli che nessuno si fila per il semplice motivo che non offrono soluzioni da cartone animato, dicono di no, che sarebbe meglio prevenire l’inquinamento di terra e fiumi.
2) Da dove arriva veramente tutta questa plastica?
Non c’è neppure bisogno di viaggiare: la risposta è nelle fotografie, se solo le si guarda attentamente:
Ciabatte infradito di infima qualità, uniche calzature usate nei paesi poveri e caldi, e tanto polistirolo che proviene da contenitori per cibo da asporto, da scatole per tenere in fresco il pesce e da galleggianti per la pesca. Ci sono anche molte bottiglie vuote di bibite e di prodotti economici per le pulizie.
Per quante foto di denuncia sul degrado dei mari e delle spiagge del Terzo Mondo si osservino, è raro individuare rifiuti che possano provenire dai paesi ricchi o dai loro turisti: poche confezioni di prodotti solari, lozioni per le zanzare, nessuna ciabatta firmata, nessuna confezione di prodotti noti, che comunque si trovano in vendita anche in questi Paesi.
Sembra che la maggior parte della spazzatura che galleggia negli oceani e deturpa le spiagge tropicali sia costituita da oggetti in uso alle popolazioni locali, in particolare i vassoi bianchi per il cibo da asporto, diffusissimi in Asia e Centro America, nei quali sono consumati pasti molto economici.
Forse sarebbe ora di spiegare ai benpensanti che vanno a Bali all inclusive 5 giorni e 4 notti, che la popolazione locale non cucina più il riso sul fuocherello da almeno vent’anni. Il fast food costa uguale ed è molto più saporito (oltre a dare dipendenza). Un bicchierone di plastica contenente aromi artificiali, spaghetti di riso prodotti in pessimo modo e molto glutammato, costa pochi centesimi e si trova in ogni supermercato dell’Asia. Lo si riempie gratis di acqua bollente al distributore che c’è all’uscita del supermarket e si pranza sul marciapiede, con il cucchiaio di plastica inserito nella confezione. Anche certe bibite prodotte localmente sono molto popolari: spesso costano persino meno dell’acqua in bottiglia, soprattutto nei paesi dove l’acqua dei rubinetti non è potabile (non che l’acqua usata per queste bibite sia molto meglio).
Una volta finito il pasto, spesso l’unico della giornata, si butta tutto per terra. Il supermercato alla chiusura spazza tutto in un angolo o nel primo rivolo. Perché volendo la spazzatura la si può depositare nei posti giusti, ma sono lontani e costano. Il canale dietro al supermercato è gratis.
I nostri 5 centesimi in più per la busta o i 20 centesimi della Francia, o l’acquisto di simpatici gadget, non cambiano di una virgola questa situazione.
Il junk fast food, ma soprattutto la commercializzazione di contenitori destinati a prodotti alimentari di basso costo e largo consumo, stanno arricchendo moltissime persone. Un vassoio anonimo di polistirolo per il cibo costa su Ali Baba tra gli 0,023 e i 0,033 centesimi ed è rivenduto al ristoratore del terzo mondo con un ricarico enorme (vedi QUI).
Le malattie legate a cattiva alimentazione e al consumo di alimenti scadenti in generale (e spesso proibiti nei nostri Paesi) sono in aumento vertiginoso nei paesi poveri, dove non c’è assistenza medica adeguata. Se noi possiamo permetterci di vivere novant’anni anni a suon di cardioaspirine e bypass, loro no. Se cercavamo un modo per risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale senza sentirci troppo in colpa, visto che nessuno obbliga questa gente ad avvelenarsi – lo fanno da soli e con molto entusiasmo – l’abbiamo trovato.
Ma questi poveri abitanti dei paesi sottosviluppati: si rendono conto della situazione?
La risposta è sì, non sono mica scemi come li vogliamo pensare. E per capire che la spazzatura che galleggia nell’acqua fa schifo, e che certo cibo fa venire l’acidità di stomaco, non c’è bisogno di avere fatto ragioneria.
E allora perché non fanno qualcosa?
La risposta è la stessa che danno gli italiani che si comportano allo stesso modo, e ce ne sono tanti: eh, sì, però, e comunque è colpa degli altri (segue lista a caso tra disoccupazione, autorità, stranieri, turisti, immigrati, il vicino cattivo, la società, il mondo, gli alieni).
Il fatto è che anche nei paesi ricchi ci sarebbero le strade e le spiagge piene di spazzatura se non ci fossero delle leggi e dei servizi a pagamento di pulizia costante. Quello che noi vantiamo come “civiltà” e “cultura” non basterebbe senza controlli e sanzioni. Sarà per quello che abbiamo fatto di colpa e punizione il nostro passatempo preferito.
Nei paesi poveri non ci sono leggi che proteggano l’ambiente, e sporcare costa meno che tenere pulito. Molte civilissime persone buttano la loro spazzatura nei sacchetti di plastica (che là non costano nulla e sono distribuiti a piene mani dai supermercati, non si sa perché), ma poi chi raccoglie questi sacchetti li butta nel fiume più vicino per non pagare le discariche. La gente vede tutta quella spazzatura e ci butta anche la propria, tanto non fa più differenza, tanto lo fanno tutti e a certi panorami ci si abitua, senza vederli più.
Si tratta della stessa “cultura” che porta a seppellire rifiuti tossici nelle campagne e che ha permesso a una nota linea di traghetti tra Italia e Grecia di affondare la spazzatura di bordo a ogni traversata, per anni, nel Mare Adriatico, per non pagare la tassa d’asporto rifiuti in porto. Io dormivo sul ponte, e ogni volta, a notte fonda, osservavo questi dell’equipaggio buttare di nascosto enormi sacchi al di là del parapetto, e mi chiedevo come mai nessuno trovasse strano che un traghetto con mille persone a bordo non avesse spazzatura da scaricare all’arrivo. La situazione è cambiata soltanto quando le autorità sono intervenute, forse anche dietro protesta della gente, ma soprattutto perché volevano che la tassa di asporto rifiuti fosse pagata comunque.
Centinaia di enormi navi da crociera attraccano ogni giorno in paesi sottosviluppati e scaricano i loro rifiuti seguendo regole internazionali: pagano, affinché i rifiuti siano presi in consegna al porto. In molti casi però non è possibile sapere dove finisca la spazzatura, e sono quei casi in cui finisce nella baia accanto. Aumentare il costo dei nostri prodotti non riciclabili non influisce su questo andazzo.
Sono stata in alcune isole indipendenti dei Caraibi per un po’ di tempo, e anche lì, a pochi metri da residence turistici costosi e puliti, la situazione dei rifiuti è drammatica. Nei villaggi, il primo spazio libero tra le case diventa una discarica con la quale tutti si abituano a convivere, tanto viene spazzata periodicamente dalle piogge.
Nei supermercati la commessa alla cassa fa anche il servizio imbustamento: mette la tua roba in un sacchetto di plastica anonimo e nero, uno per articolo. Quando il turista di turno attacca ad agitare le mani e insiste per avere un sacchetto soltanto, viene guardato con la rassegnazione che si riserva ai matti.
Eppure non c’è stata una volta che, riponendo il mozzicone della mia sigaretta in una tasca del marsupio invece di seppellirlo nella sabbia, io non sia stata approvata con un cenno della testa dai locali, a dimostrazione che la consapevolezza c’è. Nonostante questo, proprio le stesse persone se ne andavano lasciando ogni tipo di pattume sulla loro spiaggia. Guardando quello che restava, mi tornavano in mente certe foto dei giornali italiani degli anni settanta, che ritraevano i litorali dopo il passaggio vandalico delle famigliole in gita domenicale. Anche noi lo sapevamo che era sbagliato. Lo sanno anche loro.
Penso quindi che sia ora di piantarla con l’arroganza di quelli che “se non ci pensiamo noi, se non paghiamo noi, anche a casaccio, nulla si muove”. I governanti di questi Paesi, perlopiù dipendenti dal turismo, per quanto corrotti o indifferenti siano, non amano essere accusati di sporcizia e ci tengono alla loro immagine. E i cambiamenti, in quei Paesi, possono avvenire molto più in fretta che nei nostri. Bando pertanto agli atteggiamenti di buonismo velato di sufficienza e al colpevolismo complottaro del “siamo noi che li paghiamo per tenersi i nostri rifiuti”. Non siamo sempre i protagonisti di ogni evento, e in questo caso i rifiuti non sono tutti nostri, almeno quelli che galleggiano nel mare.
Haiti, Caraibi: i rifiuti sono prevalentemente oggetti di uso comune, in particolare i contenitori bianchi di polistirolo.
Abbiamo la creatività e il denaro per invogliare questi Paesi ad assumere comportamenti più oculati e persino convenienti per loro. Un ragazzo di nome Gary Bencheghib ha filmato il fiume più inquinato del mondo, a Giacarta. Non si è cosparso il capo di cenere, non ha gridato al disastro: ha fatto un buon reportage e ha fatto in modo che fosse visto da qualche milione di persone. Numero sufficiente per preoccupare il presidente dell’Indonesia per gli eventuali effetti sul turismo e sulla politica a livello internazionale. Questo è il risultato.
Per quanto riguarda l’Italia, paese di indignati e scandalizzati per eccellenza, si potrebbe fare una cosa semplice, oltre che riciclare: passare in un porto e perdere dieci minuti per informarsi su come funziona l’asporto rifiuti dalle barche e se è a pagamento e se tutti se ne servono, o c’è chi invece sembra non avere mai spazzatura a bordo. Sulle spiagge italiane, dopo una mareggiata, si trovano molte confezioni di plastica che non hanno a che fare con i bagnanti: sono bottiglie di detergente, e quelle i bagnanti non se le portano. O arrivano delle abitazioni, e in tal caso occorrerebbe verificare il sistema di asporto rifiuti della città, o arrivano delle barche. Semplice.
Le leggi ci sono, fare pressione perché vengano applicate è un po’ più utile che lamentarsi, e dovrebbero farlo tutti, come vera azione ecologica, invece di limitarsi a comprare le matite che germogliano.
A volte il progresso si ferma non perché c’è qualche “cattivo” o “ignorante” che lo ostacola, ma perché ci sono tante “bravissime persone” che non riescono a tenere il punto, neppure in una discussione per iscritto. Si parte dal problema della plastica che galleggia nei mari, e invece di cercare di ragionare su quello, come in una valanga ci si allarga al problema dei rifiuti tossici, la globalizzazione, la deforestazione, l’olio di palma e il sesso dei pesci. Alla fine la matassa risulta così ingarbugliata che si può soltanto fare harakiri accusandosi anche della bomba di Hiroshima, fare una partita a Farfalle Kyodai, e un po’ di shopping.
Quando ho cominciato a ripulire le spiagge del Galles, nel 2014, si stimava che nel mare ci fossero 5 trilioni pezzi di plastica. Oggi, nel 2019, sono 50 trilioni.
Questo è il mio ultimo giorno di raccolta, poi smetterò. Ho perso.
Alan Cookson (The Gurdian)
Allargandomi a mia volta, ma restando in tema di ecologia e di aiuti, qui mi permetto di suggerire un modo facile per risparmiare risorse importanti come l’acqua e la carta, salvando persino soldi, ma che curiosamente non è mai suggerito da nessun giornale: Libri digitali e loro implicazioni etiche sconosciute
Il silenzio degli intelligenti
Elefanti africani: perché dovremmo preoccuparci, tutti
Reportage dall’Africa: di leoni qua non ce n’è più nessuno
Grazie, fa davvero riflettere.. e capire che…siam messi male..
Bene, visto che mi fa l’onore di argomentare ciò che pensa, le rispondo volentieri. Innanzitutto, questo articolo si riferisce in particolare alle isole di plastica galleggiante, larghe chilometri, che si trovano negli oceani, e non nel mar Mediterraneo. Credevo fosse chiaro dal titolo, ma noto che non sempre è così. In secondo luogo, sebbene io abbia diritto di scrivere la mia personale opinione, di solito prima di farlo specifico che è solo un mio pensiero. Quando non lo faccio (e qui non l’ho fatto) è perché parlo di luoghi in cui ho vissuto mesi, andando in giro a fare domande, e mi sono in seguito confrontata con persone esperte. Per esperte intendo persone, in questo caso, che si occupano proprio del problema dello smaltimento rifiuti, che si confrontano e discutono regole internazionali nelle sedi ufficiali e che qualche volta mi fanno l’onore, a seguito di mie domande imbarazzanti, di rispondermi onestamente. Quindi sappia che no, purtroppo fare “qualcosa”, “creare consapevolezza” e “meglio che non fare niente” non valgono. Anzi, spesso sono azioni deleterie, e non sono solo io ad affermarlo. Si figuri se non piacerebbe anche a me pensare di “avere dato un contributo, per quanto piccolo”.
Il mio contributo è questo, e in sostanza dice: occorre calcolare bene le conseguenze delle azioni, anche quando queste azioni ci paiono buone. Perché questa sensazione di “essere nel giusto” è spesso riferita solo a noi e creata dal nulla da un social media manager. E questo purtroppo non vale solo per l’inquinamento.
Le faccio un esempio, anche a costo di dilungarmi.L’isola di St. Lucia è un’isola dei Caraibi, 170.000 abitanti. meno turistica della vicina Martinica. Ci approdano “solo” circa tre grandi navi da crociera al giorno (anche 5000 passeggeri ciascuna), per 300 giorni l’anno. Su quelle navi ci siamo noi dei mondi ricchi, che ci siamo concessi una vacanza di lusso e che comprende bibite, cannucce, ombrellini, e tantissimi oggetti di plastica di uso diretto o indiretto. Anche se si trattasse per assurdo di un solo rifiuto di plastica a persona, si parlerebbe di almeno 10.000 oggetti, moltiplicati per 300 giorni: tonnellate di tonnellate. Questa è un’idea (riduttiva) della quantità di spazzatura che viene sbarcata in una sola isola, dei soli Caraibi, dai soli turisti da crociera, in un anno. Si immagini tutte le isole turistiche del mondo. Vogliamo eliminare le crociere? A me va bene. Ma non basterà pagare qualche centesimo a busta in più per mantenere chi rimarrà senza lavoro e i commercianti dei paesi poveri che vivono dell’indotto.
Le navi da crociera seguono rigide regole internazionali per lo smaltimento di rifiuti. Pagano per scaricare questi rifiuti all’approdo. Non possono girare con tonnellate di rifiuti a bordo. Se diminuissero la quantità di cose usa e getta, dovrebbero aumentare la quantità d’acqua che trasportano per lavare tutto, consumando energia, aumentando i costi e riducendo spazi e servizi.
Qui c’è un altro pezzo del problema: noi amiamo fare beneficenza, ma non siamo disposti a pagare di più e ad avere meno servizi.
L’isola prende il denaro e i rifiuti. Dove li mette poi quei rifiuti? Dove gli pare. Controllare non è quasi mai possibile: si tratta di Paesi con governi indipendenti, sui quali non abbiamo alcuna autorità, anche se ci piace pensare che siano dei piccoli zoo gestiti da noi. Pretendere che un governo indipendente renda conto di ciò che fa si chiama Ingerenza e ha conseguenze politiche serie. Ma noi lo faremmo per il bene dell’ecologia mondiale. Sì, ma se lo faccio io, lo può fare anche qualcun altro e magari per altri motivi. Per evitare tensioni internazionali (che costerebbero armi e vite), si lavora di diplomazia, con tempi lunghissimi e risultati spesso deludenti.
Comincia a girarle la testa e sente il bisogno di una soluzione immediata che la faccia stare meglio? Ecco perché le soluzioni facili si sprecano sul Web.
Ma parliamo della popolazione locale di St. Lucia, che mangia solo cibo confezionato che costa meno del cibo fresco e del gas per cucinarlo. In Italia, lei può decidere di mangiare solo cibo del suo Paese e probabilmente guadagnarne in salute. Solo che l’Italia è uno dei pochi paesi al mondo che ha varietà di cibo. A St. Lucia è impossibile allevare bovini, piove la maggior parte del tempo e ci sono monocolture: banane, canna da zucchero, cacao. Qualunque altra cosa deve essere importata, via nave, grossa, perché parliamo di un mare dove onde alte tre metri sono mare calmo. Una mela può arrivare a costare 4 euro. Acque nere e acque bianche si mescolano a ogni grande pioggia e paradossalmente l’isola rimane senz’acqua utilizzabile.
Cosa dovrebbero fare se non comprare bibite in bottiglia? Chi mette il denaro per costruire un inceneritore/sistema di riciclaggio su un’isola di sole 170.000 persone? Chi paga per rifare il sistema fognario di un’isola vulcanica investita da cicloni stagionali e dove in ogni caso non ci sarebbero i soldi per fare manutenzione in futuro?
Potremmo pagare noi, invece di disperdere denaro in mille fiumi di simpatiche iniziative che ci piacciono perché ci fanno sentire subito un po’ eroi. Solo che c’è sempre la faccenda dell’ingerenza: chi controlla che tutto sia fatto e il denaro non intascato?
Per evitarle altra frustrazione (siamo ancora solo alla punta dell’iceberg) le dirò che almeno a St. Lucia c’è una discarica regolamentata. Ci sono andata e non mi dimenticheranno: erano talmente basiti che ci fosse qualcuno lì a fare domande invece di stare in spiaggia, che hanno risposto a tutto senza pensare.
Spesso in questi Paesi ci sono anche persone del luogo che cercano di sensibilizzare la gente e di dare il buon esempio. Lo fanno a titolo di iniziativa personale e raramente sono aiutate dalle simpatiche e scintillanti organizzazioni che si pubblicizzano sul web. La conseguenza è che loro, essendo davvero là, sono spesso minacciate e a volte uccise per ciò che cercano di fare. Tutto questo mentre noi “facciamo qualcosa” comprando un gadget o pagando una mini tassa, sempre a noi stessi.
La soluzione? Se c’è non è a portata di click. Però intanto si potrebbe iniziare a imparare qualcosa invece di insegnare: i problemi, quando sono grossi, sono sempre stratificati, con situazioni contraddittorie. Occorre saper individuare chi è veramente in grado di risolverli e questo è il nostro vero difetto: non sappiamo farlo. Grazie al modello di informazione a cui siamo oramai completamente assuefatti, pretendiamo di fare da noi, ma in fretta e senza fatica personale. Noi ci schieriamo e litighiamo tra fazioni. Nel frattempo c’è chi approfitta della nostra presunzione di moralità e crea situazioni sempre più difficili da gestire.
Queste associazioni sono sbagliate? No.
Servono? Veramente, no.
Sottraggono risorse e attenzione a una possibile reale soluzione? Purtroppo sì.
Perché non ci sono più informazioni serie e dettagliate su questi argomenti? Ci sono, ma sono noiose da leggere e non le condivide nessuno, sono spesso in inglese.
Vuole fare qualcosa? La prossima volta che è al mare, anche in Italia, vada davvero in porto a chiedere ai pescherecci come funziona lo smistamento dei loro rifiuti, come ho suggerito nell’articolo. Se non le rispondono, scriva davvero un rapporto alla capitaneria di porto. Se ci fossero proteste tante quanti sono i gadget venduti in nome dell’ecologia, le assicuro che ogni porto sarebbe una zona ecologica d’eccellenza.
Tenga i 20 euro del gadget: a volte servono per prendere un taxi e filarsela alla svelta dopo avere scatenato un vespaio con semplici domande.
Articolo bello e interessante, complimenti.