PRIMO BACIO monologo teatrale femminile
Se mi piacesse parlare di baci, ne parlerei.
Ma non mi piace baciare, quindi preferisco non parlare.
Lo so! Parlare non è baciare: sono due cose incompatibili, o l’una o l’altra. Lo so.
Comunque era per dire che a me i baci fanno venire in mente un bus.
In risposta ad una ipotetica domanda del pubblico:
Sii, lo so: cosa-c’entra-il-bus.
Non sono mica fuori, lo so che il bus non c’entra. Non dovrebbe, lo so. Ma c’entra.
Comunque.
Il mio primo bacio lo ricordo bene, perché è stato anche l’ultimo. Di una lunga serie.
In risposta ad una ipotetica domanda del pubblico: Eh?
No che non lo so di cosa sto parlando! Quando si parla di primo bacio non so di cosa si sta parlando, non ho capito la domanda. E allora?
Non ho neanche capito bene cosa sia successo, cioè ho capito, non sono mica ebete, ma non ho colto… il succo dell’esperienza, diciamo.
Comunque: era tutto regolare, avevo 14 anni e mia madre, preoccupata di cose che non ho mai capito, ma che lei sosteneva potessero capitare ad una ragazza inesperta, non ha spiegato inesperta di cosa, mia madre dicevo, ha pensato bene di avvisarmi che, per via del fatto che adesso non potevo più correre senza reggiseno, pena dolori strappanti a tutto il torace, avrei dovuto stare molto, ma molto attenta.
Attenta a cosa non lo disse.
Io pensai che questo avesse a che fare con la scuola: se non correvo perdevo sempre l’autobus e arrivavo tardi. Probabilmente avrei beccato una montagna di note.
Ma lei ce l’aveva con i maschi.
Diceva che i maschi sono razza infingarda, e che hanno delle cose, tipo… delle fisse: vogliono toccare le donne, soprattutto nei punti in cui il corpo delle donne sporge.
Siccome io avevo nuove sporgenze, i tentativi di toccamento da parte dei maschi sarebbero aumentati. Matematicamente parlando sembrava che sarebbero aumentati del duecento per cento.
Secondo mia madre dovevo fare di tutto per impedire che questo accadesse.
A me la missione sembrava ardua: di gomitate alle sporgenze sul bus ne prendevo in continuazione (se sono bassa e devo alzare il braccio per tenermi, non è colpa mia), e quindi dissi a mia madre che non ci potevo fare molto: o alla maniglia del bus mi ci attaccavano con un braccio artificiale senza ascella, o a scuola mi ci mandavano in taxi, che sarebbe anche stato meglio.
Ma mia madre specificò che non era così semplice: i maschi spesso manovrano indirettamente e non si capisce subito a cosa vogliano arrivare.
A cosa realmente vogliono arrivare i maschi mi dimenticai di chiederlo a mia madre, e poi non ci fu più occasione.
In mezzo a tutto ‘sti tira e molla, sembrava che ci fossero dei punti fermi a cui aggrapparsi per valutare la situazione: le manovre di aggiramento dei maschi erano note, i maschi sono ripetitivi. Mia madre disse che avrebbero prima cercato di baciarmi.
Bene, pensai io, così si avvicinano abbastanza perché gli possa tirare una testata ed evitare le gomitate.
Ma mia madre era fissata con ‘sto bacio. Mi disse: “Al massimo un bacetto ma niente di più”
Di più di cosa non lo disse.
Fu per questo che mi informai tra colleghe. E successe un casino: sorrisetti, allusioni, non ci capivo niente. Ma tutte trovavano mostruosamente ridicolo che non avessi mai baciato nessuno.
Perché bisognasse per forza baciare qualcuno, non lo dissero.
Però mi spiegarono, tanto per impressionarmi, che si trattava di baci di un certo tipo, non quelli normali, e che avevano tutta una tecnica complicatissima, al punto che se baciavi uno questo era subito in grado di stabilire che non sapevi baciare, indi non avevi mai baciato nessuno, indi eri una sfigata.
Mia madre ce l’aveva con il reggiseno, queste con il bacio brevettato.
Siccome la cosa nell’insieme mi stava procurando serie difficoltà sul bus, dove nessuno mi pareva cercasse di baciarmi, ma in compenso le gomitate le beccavo a raffica, e a scuola tutti mi facevano schioccare l’elastico del reggiseno sulla schiena e neanche questo era divertente, pensai che se mi fossi fatta spiegare meglio mi sarei umiliata molto, ma magari avrei risolto la questione e capito il rapporto che collegava tutte ‘ste cose per le quali, pur avendo sempre avuto una bocca, questa era diventata uno strano centro di smistamento non si sa di cosa, verso posti nei confronti dei quali non c’era alcun visibile collegamento fisiologico.
Chiesi istruzioni, soffrendo come un cane.
E di già che c’ero, feci una specie di ricerca estrapolando da vari insegnanti.
Ne venne fuori che il bacio si doveva fare a bocca aperta ma non troppo, aspettando che l’altro ci infilasse la lingua, nella bocca, ma non aspettando troppo, eventualmente invitando, non si capiva con cosa, visto che non si può parlare con la bocca piena: con un biglietto?
Invitando, comunque, non mi ricordo che cosa.
A questo punto le informazioni diventavano dispersive: chi diceva di operare un’intrusione reciproca con vorticamento combinato in senso orario, chi dava consigli di risucchio ammortizzato acusticamente, chi si raccomandava per l’alito, chi diceva attenta alla saliva, chi diceva poi le cose vanno da sole.
Data la voragine di ignoranza da cui mi dovevo riscattare, decisi che non avevo più il tempo di baciare da principiante: il mio primo bacio avrebbe dovuto essere professionale, per far credere al manipolatore in questione che non aveva a che fare con una appena scesa dall’albero.
Iniziai ad esercitarmi: tentai di baciarmi il dorso della mano, ma, a parte per la temperatura, non aveva caratteristiche atte a quelle di un esperimento con tutte le varianti.
Mi venne in mente che il baciatore sarebbe probabilmente stato più alto di me e quindi ci provai con il muro, a testa piegata verso l’alto.
Ma non era tridimensionale.
I guai cominciarono quando feci l’esperimento con un albero di taglia giusta: passò un vecchio che mi disse: “Bambina, cosa fai ‘ste porcherie?” e lì non capii: il maiale, secondo mia madre, avrebbe dovuto essere l’albero.
Allora ripiegai su un peluche centenario, nella solitudine della stanza mia e di mio fratello. Ma proprio in quel momento lui entrò come un cinghiale alla carica e disse “Ohi stronza, molla Paciugo, mangiati i tuoi”
Mio fratello aveva dieci anni e ficcava i peluche tra le corde del pianoforte, per farlo suonare come l’oltretomba. Quando mia madre li rinveniva, dopo mesi, erano deformi e intrisi di polvere e di ossido: mi venne la tosse, come se avessi baciato uno con l’influenza.
Anche questa poteva essere un’esperienza realistica.
Per ritorsione tentai di approfittare di mio fratello mentre dormiva: la bocca aperta la teneva, e pensai che almeno avrei potuto prendere le misure, ma russava come un motoscafo e mi beccai un sacco di sputi.
Per giunta gli feci solletico coi capelli, lui mosse la mano come per scacciare un moscerino e mi tirò una sberla da elefante.
Il tempo stringeva ed io ero riuscita a fare vorticare in senso orario e antiorario un cubetto di ghiaccio in un bicchiere stretto, prima che mia madre me lo togliesse e mi facesse un discorso sull’alcolismo.
Quando mi beccò a trafficare con un ciuccio, mi prese un appuntamento con la psicologa della scuola. Un’altra figura di merda.
Infine arrivò la gita di classe, il tempo di prova era scaduto e non potevo più tirarmi indietro: eravamo su un bus.
Durante il viaggio di ritorno mi consegnarono un prototipo, uno coi brufoli: dovevo baciarlo in quel modo là.
Tutti erano già incastrati a groviglio tra i vari sedili e c’era un silenzio cigolante.
Quando l’autista spense la luce per farci dormire, il prototipo si tuffò, e io sperai che volesse darmi una testata. Ma non era così.
Allora mi buttai anch’io e cercai di fare il lavoro più professionale che potevo, sperando che quello non mi attaccasse la febbre che aveva sul labbro inferiore.
Per l’alito mi ero premunita fumando due sigarette di seguito e l’unico problema che avevo in quel momento era una nausea tremenda, dovuta anche al molleggiamento del bus.
Ci lavorai per un’ora, poi lui mi spinse via.
Io avrei voluto continuare perché per me a questo punto era una questione di vita o di morte, quindi finché mi avessero retto i muscoli facciali e fosse rimasto un pezzo di lingua a uno dei due, non avrei mollato per prima: ero abbastanza allenata a tenere la bocca spalancata dal dentista.
Ma lui mi spinse via e si mise a giocare col telefono, mentre a sedili alterni spuntavano crape di curiosi che non si fanno mai i cazzi loro.
– Come va, mandrillo! – chiese un prototipo due file indietro.
– Minchia, è assatanata! – starnazzò il mio prototipo a tutto il bus.
Scattarono certe risatine che mi fecero venire voglia di spaccargli la carotide, anche se non mi aveva toccato le tette.
Invece gli dissi:
– Cazzo c’hai? –
– Minchia, ma come cazzo baci, mi hai fatto una lingua come un melone! –
– Ma va a cagare – gli dissi io – impara a baciare. –
Lui si mise a fissare il buio fuori dal finestrino. Col tempo ho pensato che probabilmente non era sicurissimo della sua tecnica manco lui.
Non ho più baciato niente.
Vivo in una comunità dove il bacio, come manifestazione emotiva, è vietato.
Appena ho preso la patente non sono mai più salita su un bus.
E questo è quanto.
L’attrice che legge il monologo nel video è Valentina Veratrini
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