Misteri di cacao in Nicaragua
“Bienvenidos al museo del cacao. Tutto ciò che vedete risale al lontano 2005.”
Come europea sono già inceppata. Poi mi ricordo che questo è il Nuovo Mondo ed è anche molto sismico: tutto ciò che ha più di 30 anni è preistoria e un Nicaraguense che ho incontrato voleva sapere di più sul Colosseo, ritenendolo antichissimo, vecchio almeno di 100 anni.
Qui in Nicaragua tutti sanno cosa vuol dire rivoluzione ma avrebbero qualche perplessità ad associarla al termine industriale, per esempio.
Sulla porta del museo del cioccolato di Matagalpa c’è quello che io chiamo welcoming dog: l’immancabile cane, in questo caso nero e gigantesco, sdraiato esattamente dove noi mettiamo il tappetino d’ingresso. È un cane in gamba, che come in molti altri paesi del mondo non è un pet, ma piuttosto un individuo che vive tra gli umani una vita libera e parallela, basata sulla reciproca utilità: gli umani gli forniscono un po’ di cibo comodo e lui in cambio distingue i buoni dai cattivi dalla sua zona, soprattutto di notte.
Ma mi sono già distratta. “Fino al 2005 – spiega la ragazza che fa da guida e che parla soltanto spagnolo – noi non sapevamo che con il cacao si facesse il cioccolato: usavamo i semi tritati con acqua e mais per fare la nostra bevanda nazionale, il Pinolillo. Siamo i maggiori produttori mondiali di cacao e non sapevamo quale ricchezza avessimo tra le mani!”
C’è dell’entusiasmo nei suoi occhi e un certo disappunto nella voce. A me che ho il mito del buon selvaggio sembrano segni incoraggianti di progresso, e colta da bonarietà mi si sbiadisce la domanda che fino ad un attimo prima urgeva dolorosa: “Vuoi dire che i tuoi antenati hanno lavorato in queste piantagioni per centinaia di anni e non hanno pensato di scoprire cosa se ne facessero gli europei di tutto quel cacao?”
Ma andiamo avanti. In questo castello-museo stile fanta-scozzese e già ammuffito a causa del clima tropicale, costruito da un giovane olandese che si aggira barcollante per i corridoi, ci sono un paio di vetrinette che sembrano risalire al periodo coloniale e che ospitano generazioni di tarme. C’è anche una piccola cucina per gli assaggi. Tutto è così semplice e privo di qualunque fantasia e iniziativa che mi chiedo se si tratti di indolenza nicaraguense o di alcolismo associato ad abuso di sostanze.
Nelle vetrinette sopravvivono tristi e impolverati alcuni prodotti, secondo la nostra guida incredibili e mirabolanti, che si posso ottenere dal cacao: cioccolatini, barrette Nestlè, ovetti Kinder. Persino un deodorante e un bagnoschiuma al cioccolato. Il posto d’onore è riservato al Labello. Sì perché dal cacao si può anche ricavare del grasso, che è molto prezioso per la cura della pelle, dice la guida. Loro ci hanno provato ad estrarlo, lì al museo del cacao, con delle presse, ma è molto complicato e per il momento ci hanno rinunciato. Son cose moderne che richiedono ricerca.
In cucina ci aspettano tre cioccolatini di foggia semplice, una brocca d’acqua e del caffè. Ce li sbafiamo ingordi e siamo subito trascinati ad ammirare i macchinari per la produzione. Tutto è racchiuso in pochi metri quadri e il tentativo di fingere che quella sia una piantagione con fabbrica di cioccolato annessa è un po’ patetico. Ma è chiaro che la ragazza che ci guida, noi soli clienti, crede che i macchinari, tutti di fabbricazione europea e risalenti alla fine dell’ottocento, siano all’avanguardia: non funzionano più a vapore, sono state fatte delle modifiche e adesso si usa l’elettricità.
Ci sono dei cestelli di ferro rotanti per arrostire le fave di cacao, c’è la macchina che separa le fave arrostite dalla buccia. C’è la macchina che trita e quella che mescola lo zucchero al cacao scaldando leggermente l’impasto affinché lo zucchero si fonda dolcemente. Un vero museo dell’ingegno teutonico del diciannovesimo secolo.
Nell’ultima sala ci fanno assaggiare dei lingotti di cioccolato con diverse percentuali di zucchero. È un cioccolato diverso, sabbioso e croccante, che non si scioglie in bocca e mi sembra la vera scoperta della gita, ma è un’opinione solo mia. Ai turisti drogati di Nutella e cioccolata da supermercato, non piace granché.
Quello che rende il sapore diverso, in questo cioccolato, è l’uso di zucchero normale invece dei soliti sciroppi industriali. Lo zucchero vero conferisce un retrogusto di caramello. Il burro di cacao è ancora tutto lì dentro, non è stato estratto come spesso succede nella preparazione occidentale per essere sostituito con grasso meno pregiato o latte condensato.
Nella sala delle antichità c’è un comune pestello di legno e una pietra sagomata, che ci raccontano quanto una volta le povere donne del luogo tanto faticassero a tritare il cacao. A questo punto si tratta di ricatto morale e ci decidiamo a comprare una decina di lingotti ben incartati che non arriveranno mai in patria perché mangiati prima; la zia può farne a meno, quell’amica là in fondo anche se le porto un pareo fa lo stesso, a mio padre piacerebbe, ma poi gli fa male. E mio fratello, come faccio a portargli la barretta rimasta che sono in quattro in famiglia?
All’uscita la guida ci abbandona soddisfatta e ci fermiamo a fumare una sigaretta davanti ad un germoglio di bambù di 5 metri che sembra l’asparago gigante di un mondo alieno.
Passa l’amico ubriaco del proprietario ubriaco. Ha un vassoio in equilibrio precario su cui sono posate delle delizie che ci offre: palline di cacao mescolato a panna e rum, praticamente la ricetta di Natale di mia mamma. Lui ci dice ridacchiando e sputacchiando che questo sarà il prossimo scoop sul mercato mondiale, non appena l’avranno messo a punto in Olanda. Noi approviamo entusiasti e assaggiamo numerosi prototipi.
Una vera scoperta questo Museo del Cacao, chiuso a Matagalpa sulla collina, succube del tempo meteorologico, sospeso nell’isolamento alcolico.
Molti coltivatori di cacao, nel mondo, non hanno mai saputo in cosa si trasformassero le fave che coltivano e non hanno mai assaggiato il cioccolato. Qui un video sui coltivatori della Costa d’Avorio e la loro prima volta con il cioccolato.
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