Lezioni di vita a Dar es Salaam
“Cosa c’è a di bello a Dar es Salam? Com’è la spiaggia? COSA FAI lì? Vacanza? Lavoro?”
Aspetto, Rafiki. Respiro (piano) e aspetto. Hai presente quando sei seduto al cinema prima del film? Cosa fai? Aspetti. E guardi la pubblicità.
La pubblicità è sempre utile, in un paese straniero: ti insegna la lingua e gli interessi delle persone del posto. Non capisco ancora lo swahili ma ti posso già dire che Facebook qui è popolare, e che la pavimentazione a piastrelle chiare e lucide è l’ultimo grido in fatto di arredamento. E sto guardando i cartelloni pubblicitari soltanto da qualche minuto, sai? Saranno al massimo cinque minuti che cerco di attraversare Mwai Kibaki Road senza riuscirci.
Va bene, non sono un genio ad attraversare le strade: una volta a Bombay ho fatto quaranta minuti di tentativi prima di attaccarmi a un passante indiano. Gli sono stata così addosso che credo volesse chiamare la polizia.
Anche questa volta sono sola, bianca come un faro, sperduta, e con uno stupidissimo marsupio sul quale sembra esserci scritto: “prego derubare”.
A Dar es Salaam i crimini contro la persona sono bassi, ma i borseggi abbastanza frequenti.
Ci sono 40 gradi, 50 sull’asfalto. Umidità: circa una secchiata.
I sandali, quelli più comodi che ho, a causa della pelle sempre madida, mi hanno procurato due vesciche. Ho quindi comprato un paio di ciabatte con le perline colorate: anche quelle mi procureranno delle vesciche sui piedi, ma in posti diversi rispetto alle precedenti. Ho ancora qualche centinaio di metri di autonomia, prima che succeda.
Devo comprare dei cerotti.
Le ciabatte sono carine, molto africane, le vendono anche a Mykonos.
Sudano.
No, aspetta, è la crema solare ad alta protezione che ho messo sulle tibie: si è liquefatta e mi sta facendo una pozza lattiginosa sotto i piedi.
Devo arrivare a Downtown e sto tentando di prendere un Bajaj, il piccolo taxi a tre ruote che qui è diventato tanto popolare negli ultimi anni. Si pronuncia “Bagiagi” (quasi come “bagigio”, per i veneti, n.d.r.) oppure “Badshiadgiu” volendo fare un po’ gli africani. Costa meno di un taxi vero. O almeno, così dovrebbe. Ma i guidatori, appena mi vedono pivella, sparano cifre spropositate.
Allora io faccio la dura, piazzo le mani sui fianchi (dove avverto improvvisamente un vestito fradicio e tutto appiccicato) e dichiaro che non c’è problema: IO piuttosto vado a piedi.
Che non si credano che trovo i soldi sugli alberi, io.
Cosa vuoi che sia: saranno due ore di cammino lungo una statale senza marciapiede sotto il sole a mezzogiorno.
I guidatori di Bajaj ripartono tutti, abbandonandomi senza rimorso.
Io m’incammino imperterrita: occhiali da sole, niente cappello, crema che cola e marsupio sul fianco più distante dalla strada. Se ci camminano gli africani, posso farlo anch’io: in fondo quando vado alle terme sto nel bagno turco due ore, e pago pure.
Mai svenuta io, al bagno turco. Sono italiana, mica danese, al massimo mi scotto il naso. Dormire ho dormito, mangiato no, meglio, che così non sono sulla digestione. Bevuto, ieri ho bevuto, ma ora mi compro una bella Coca gelata al primo baracchino, me ne verso metà sulla testa e l’altra me la faccio di colazione, finalmente, senza nessuno che strilla: “Oddio, ma che schifo! Ma come fai!”.
Indietro non ci torno, non la faccio la figura di quella che è partita dicendo: “Vado sola, che problema c’è, sono tutti amici miei, Mambomambo!”, e poi torna mezz’ora dopo, senza manco essere riuscita ad attraversare la strada.
Scordatelo.
Io a Venezia cammino anche otto ore, sono un cammello. Io, ho una sveglia parlante con collegamento satellitare: sai quali sono le prime parole che sento io al mattino, qui, a Dar es Salaam? No, veramente, lasciatelo dire:
“Oggi, martedì 5 gennaio del 2016, il sole a Dar es Salaam sorge alle 6:13 e tramonta alle 18:43. La luna è calante: sorge da sud-est (102º) alle 2:11 e tramonta al sud-ovest (256º) alle 14:46.
La prima alta marea è alle 0:30 e la seguente 13:05. La prima bassa marea è alle 7:05 e la seguente alle 19:00. Il coefficiente di maree oggi è 53. Le altezze delle maree di oggi sono 2,8 m, 1,5 m, 2,5 m e 1,4 m.”
Madonna che spavento! E questo che vuole?
Ah, giusto, il Bajaj.
– E come no, certo! Sai che ti dico? Di più, ti voglio pagare di più: 100 dollari per fare sette chilometri su questa lussuosissima Apecar tenuta insieme col nastro adesivo. No! Non mi devi rispondere “O.K.”: era sarcasmo, capisci? –
Non ha capito. Parlano meno inglese di quanto pensassi.
Procedo. Sono già le 11,30. La marea sta salendo. Però non so più bene da che parte sarebbe il mare, mi sta venendo mal di testa. Strano: non ce l’ho mai. Anche un po’ di nausea.
Nessun problema, sono adattabile io: prenderò acqua invece della Coca, per una volta, e me la verserò tutta in testa, va bene. Nessun problema.
Cammino contromano, così se vedo che stanno per investirmi, salto nel fosso.
Il fosso è pieno di liquame spaventoso: forse rischio meno se mi faccio investire. Oltre il fosso c’è ancora una striscia di terreno dove piante e fiori coloratissimi sono coltivati in contenitori riciclati, pronti per essere acquistati al volo e ripiantati in giardini lussureggianti.
Se fossi una che ragiona, mi renderei conto che si tratta di un formidabile allevamento di zanzare e quindi di un bacino inestinguibile di malaria in una città che conta milioni di abitanti. Ma sono un’occidentale rimbambita dalle immagini dei magazine femminili e quindi trovo che si tratti invece di una buona idea, anzi, dovrebbe essere adottata in molti altri posti: la strada è più bella da vedere, molte persone in questo modo si guadagnano la giornata stando semplicemente sedute tra le piante all’ombra, ridacchiando quando mi vedono passare e innaffiando i fiori con il liquame del fosso. Incredibile come dell’acqua così sporca possa alimentare tanta pura bellezza.
Adesso però devo proprio attraversare la strada.
Ok, non devi necessariamente riuscirci al primo colpo.
Al secondo tentativo quasi mi faccio investire dal Bajaj che vuole vendermi il passaggio. Ora ci sono 43 gradi, umidità al 300% e ho già una nuova vescica: litigo subito col conducente che se ne riparte offesissimo, lasciandomi lì.
Rimango ferma a fissarmi le ciabatte per raccogliere le idee. Lo so che quelli seduti oltre il fosso stanno di nuovo ridacchiando e parlottando in swahili alle mie spalle: adesso la lingua comincia già a suonarmi familiare:
– Senza ‘a tecnica ggiusta, non vinci a’ bustaa, yo yooo. –
Mi giro di scatto: secondo me è un’allucinazione da colpo di sole, ma prima voglio darmi una chance.
Niente: c’è un cinese seduto su una sedia scassata e quattro tanzani intorno che sghignazzano e mi fanno stupidi cenni.
Decido per un sorriso da vecchia colonizzatrice assassina di elefanti e volgo le spalle, sicura della mia stirpe di prodi avventurieri.
In fondo neanche Karen Blixen era priva di nevrosi.
– Senza ‘a tecnica ggiusta, non vinci a’ bustaaaa. Che non sei italiana? Sì che sei italiana! Vieni qua!. Passa di là! –
È il cinese che parla.
Uno potrebbe dire che solo a me succedono certe cose, ed è proprio così: questa non è neppure lontanamente in cima alla lista delle cose più grottesche che mi sono capitate, al massimo la più assurda della giornata, ma è solo mezzogiorno.
Adesso sai cosa caspiterina ci faccio qua, Rafiki.
I cinesi in Tanzania non sono rari, anzi, stanno silenziosamente invadendo l’Africa intera. Qui c’è il porto più grosso dell’Africa orientale, dal quale partono navi che vanno e vengono da tutto il mondo, con le loro mercanzie a vario grado di legalità.
Un cinese che parla come un boss della camorra però non l’avevo ancora incontrato.
– Yoo, evvieni qua che non ti mangiamo: che c’hai, paura? –
Io paura? Ma mi hai guardato bene in faccia? Stavamo giusto dicendo, con la Karen Blixen, che assomiglio un casino a un guerriero masai amico suo.
Respiro di fuoco, respiro di fuoco.
No, così iperventilo, mi gira già la testa. Respira di pancia, respira di pancia. Dritta, cammina dritta. Ma perché ci vai? L’ombra, mi serve l’ombra.
Passo sul ponticello di assi marce, largo 20 centimetri, che scavalca sbilenco il fossato di cemento, largo un metro e mezzo, dove scorre la fogna: sì, decisamente meglio essere investita.
Uno degli scagnozzi si alza e mi lascia il suo posto sulla tanica-sedile. Il cinese pare essere proprio un qualche tipo di boss: se scopro che è nel traffico dell’avorio, lo geo-localizzo ai gruppi degli animalisti, formo un commando, e lo sgozziamo prima che il sole tramonti due volte. Col movimento di marea giusto, non lo troveranno mai.
– Dove devi andare? –
– Da nessuna parte, sono giornalista e sto facendo un servizio sui Bajaj per la stampa italiana. Abito qui dietro con il mio compagno e 7 guardie masai. Armate. –
Questa è una cosa che ho scoperto di recente: basta dire di essere giornalisti e sono tutti contenti. Mai nessuno che risponda: “Eh? Un servizio su che??”. Qualunque cosa sia, lo trovano sempre molto interessante.
– Curioso sentire parlare italiano qui: lei lo parla molto bene! –
– Perché sono di Napoli, che non si vede? –
Non ridere. Qui non siamo alla bocciofila di Mirandola, non ridere. Fai la faccia interessata.
– Sono nato e cresciuto a Napoli yo. Sono italiano. –
I ‘cu faci n’Africa ‘inti mezzu i piantini e quattro bricanti coi denti come tasti di pianoforte, picciotto yo-yo?
– Ma pensa! Bello! È tanto che si è trasferito qui? –
– Eh, una vita. Una vita di stenti! Vuoi bere qualcosa? –
– Sì grazie, una Cocacola. Anche Pepsi andrebbe bene. Che afa, eh? –
– E quanto la paghi, la Cocacola? –
Ah, ecco, ci siamo. Sei un’idiota.
– Quanto lo paghi? – insiste indicando un venditore ambulante dall’altra parte della strada.
– Ah, volete una Coca? Ve la offro volentieri! Magari io prendo l’acqua. –
– No. Yo. Ti ho chiesto TU quanto la paghi la Cocacola: 1000 scellini? –
– … Sì.-
– E allo Shopping Center? Quanto la paghi? –
– Uguale, credo. –
Cioè 1000 scellini: quello è giusto, perché lo Shopping Center ci paga le tasse. Ma quelli della strada no. Tu paghi 1000 scellini perché sei turista: se vado io non pago 1000 scellini. Capisci? –
– Ah, beh, sì certo! Lei quanto la paga? –
– Questa domanda non me la devi fare. Ora facciamo così: tu dai 4000 scellini al ragazzo e lui va a comprare 5 Cocacole. Ti tornano i conti? – e nel dire questo indica il mio marsupio, che tutti attaccano a fissare manco fosse un filmino hard.
Cioè, neppure mi deruba: si fa consegnare il malloppo. Quanto ho in tasca? Non molto. Neppure il cellulare, l’ho dimenticato. Però non mi piace come la stanno mettendo: è troppo lavoro solo per fregarmi dei soldi. Con la paura come molla, posso saltare il fossato al volo e correre buttandomi in mezzo alla strada per fermare una macchina. Devo solo alzarmi fingendo di poter così aprire il marsupio più comodamente.
Mi sfilo piano le ciabattine perlinate.
– E statte femma, yo! Dove vuoi andare? Mettiti le scarpe! – e dà un altro ordine secco in swahili a uno degli scagnozzi, che parte verso il baracchino.
Adesso ce n’è uno in meno e io sono cinque volte incazzata di più. Mi seppelliranno nella magica terra d’Africa, ma giuro che mi porto dietro anche il cinese camorrista.
– Mi dai i soldi dopo, yo, che l’ho visto che non ti fidi. Sei giornalista, no? E allora scrivi! – e si mette comodo sulla sedia lercia, che ha pure un cuscino, lercio:
– Se vuoi prendere il risciò, intanto devi camminare dal lato della strada verso la direzione che vuoi andare. Non chiedere a quelli che sono fermi parcheggiati e che stanno mezzo durmenno: sono tutti insieme e non possono fare i prezzi bassi che l’altri sennò s’incazzano. Tanto ce ne sono migliaia, troppi, e nun accattano più. Perciò anche quelli che corrono in strada ci provano tutti: quelli sono soli, possono abbassare i prezzi. Tu non li chiamare, cammina come se abiti qui vicino. Loro si fermano ma non c’hanno tempo per contrattare che hanno le altre macchine dietro che gli fanno il clacson, che qui stanno tutti incazzati per il traffico. Tu non devi chiedere mai il prezzo: cammini e intanto gli dici il posto, non la via, che tanto nun la sanno mai, yo, manco sanno dove vivono chisti.
Devi dire il nome di uno Shopping Center o un hotel che ci sta lì vicino. E intanto gli devi fare vedere i soldi che tieni in mano, prendere o lasciare, questo è importante. Te li devi preparare prima, giusti. Tipo 3000 scellini, anche 2000 se non è troppo lontano. (1 euro : 2400 scellini tanzanesi circa). Quando ‘a gente vede i soldi non capisce più gnente, yo: li vogliono subito, mi capisci? Tutto il mondo è così. Tu gli mostri i soldi, sali in vettura veloce e sei a posto. Statti attenta che tanti non sanno guidare proprio. Quando ne trovi uno tranquillo dopo lo chiami al telefono quando ti serve, sempre a lui. E gli chiedi pure lo sconto. Hai capito?
Adesso ce li vuoi dare i 4000 scellini per le 5 Cocacole al guaglione, o ti pare che sono troppi? –
– Sì certo, scusi! –
Mi ero bevuta in trance la mia Cocacola, dimenticando di versarmene metà sulla testa.
– Ma lei non ha bevuto niente: posso offrirle qualcosa per ringraziarla dell’informazione? –
– Noyo. –
Silenzio. Non mi guarda più nessuno.
– Beh, grazie dell’info, è stato veramente gentile: ora testo subito! –
INFO? TESTO? Ma come parli?
Non mi risponde, sono diventata invisibile: il cinese ora si gratta le costole e contempla la strada. Mi alzo e me ne vado, ripassando sul ponticello. Attacco a camminare nella direzione da cui sono venuta, che è quella opposta a dove devo andare, ma è quella giusta per prendere il Bajaj al volo: piuttosto di fare il patetico balletto del tentato attraversamento stradale davanti a questi, mi butto sotto un camion.
Quando sono a distanza di sicurezza mi giro per salutare. Il cinese mi fa gesto di andare con la mano.
Comunque il suo sistema funziona: prendo il Bajai e gli faccio fare inversione a U, riuscendo finalmente a spostarmi dall’altro lato della strada. Ripassando davanti al gruppetto sventolo un saluto e il cinese mi fa un altro gesto con la mano, quello che significa: “Birbone, quante botte ti darei”.
Il guidatore di questo bajaj non ha sicuramente la patente e ignora comuni regole di comportamento stradale, ma sa guidare: lo sa fare così bene che quasi quasi lo presento al team di Holer Togni. Intollerante al traffico, si butta in ogni pertugio che vede aprirsi tra i numerosi Suv, facendo peli millimetrici. Passa sulle zone pedonali suonando ai passanti, che si spostano senza protestare; sale su un lungo marciapiede che è dalla parte opposta della nostra corsia e lo percorre a manetta, per poi tagliare seccamente la strada alle auto che viaggiano in senso contrario e inserirsi di nuovo nella fila con la direzione giusta. Esce dalla carreggiata per un pezzo di sterrato che rasenta un fosso e viaggiamo con un’inclinazione tale che sono certa che ci ribalteremo.
Sordo alle mie proteste, il driver, concentratissimo, infila il margine della strada puntando a massima velocità un palo della luce che si trova a poca distanza, superando tutti a destra: all’ultimo frena e rientra in corsia, tollerato dagli altri veicoli con una flemma che in Italia sarebbe inconcepibile. Forse è perché loro hanno i vetri oscurati e l’aria condizionata, mentre noi da fermi non abbiamo nulla se non l’ombra ammorbata dagli scarichi, l’afa e un sedile scomodo.
Il ritorno lo faccio su un altro bajaj, con un autista un po’ più tranquillo, forse perché il percorso all’inverso è meno trafficato.
Sono comunque contenta di essere arrivata a casa.
Lì ci sono due masai di guardia, timidi e ossuti, che girano silenziosi. Vestono solo di una stoffa colorata gettata su una spalla e stretta in vita con una cintura di cuoio. Non portano niente sotto: l’ho capito perché prima di sedersi raccolgono la stoffa in un certo modo preciso, e con cautela.
Devo ancora scoprire come mai siano così temuti, e perché siano considerati delle buone guardie: è vero che non dormono mai, sono veloci come gatti e praticamente invisibili di notte, ma fanno il bagno nel dopobarba e posso scovarli a fiuto anche quando si trovano sottovento.
La città di Dar es Salam non è Zanzibar: i turisti di solito stanno in centro, mentre Mikocheni è un’area residenziale mista. Qui nessuno parla italiano, a parte il cinese. Uno dei due Masai parla un po’ d’inglese e quando gli ho chiesto il suo nome ci ha pensato su, poi ha detto: K2*. Mi ha chiesto di dove sono e poi mi ha chiesto se l’Italia è in Africa. Allora ho detto Milan, Inter e Juventus, lui ha sorriso illuminato e siamo diventati amici.
Mi ha insegnato a dire Rafiki, che significa amico. Io gli ho insegnato a dire Ciao. Scambio culturale.
– Mambo, K2! Quanto la paghi tu una Cocacola al baracchino? –
– Mambo, Ciaociao –
– Ciao K2. Tu quanto la paghi la Cocacola? –
– No, io K2. Tu Ciaociao – e ride.
– No, Ciao vuol dire Mambo, o Jumbo. –
– Mambo Jumbo, Habari? –
– Bene grazie. Tu la vuoi una Cocacola? –
Non risponde, mi fissa incerto.
– Eddai, possibile che nessuno mi voglia dire quanto costa una Coca al baracchino, se a comprarla è un locale?-
Silenzio. Mi guarda. Ha gli occhi delle antilopi.
Va bene, oggi ho vinto un bonus vita, sento che posso fare tutto: gli mostro la bottiglietta di Coca vuota, gli indico il baracchino, gli do 2000 scellini e gli faccio 3 con la mano, indicando di nuovo la bottiglia.
Non si muove e mi guarda.
Va bene, ho sbagliato le dita, devo fare 3 mostrando il dorso della mano e alzando mignolo, anulare e medio, altrimenti me lo richiedono sempre.
K2 parte. Torna con 2 bottigliette e me le consegna, molto insicuro.
– Ah. Le hai pagate 1000 ciascuna. Va bene, ci rinuncio, era giusto per sapere, ma non importa, tieniti il segreto. Beviamoci ‘sta Coca. – e gli porgo una bottiglietta.
Lui la prende e me la regge, mentre io apro l’altra. Continua a guardarmi senza dire niente.
– Questa Cocacola è per te! Non vuoi bere? –
Lui ci pensa un po’, poi fa un cenno obliquo con la testa e la apre. Ci sediamo in silenzio, sotto l’albero.
K2 mi osserva di sottecchi mentre io mi scolo la mia tossicodipendenza. Lui ha dato solo due sorsate.
– Io non ho bevuto Cocacola, prima: non so quanto costa. –
Sei una povera imbecille, Ciaociao: ignorante, bifolca, stronza e imbecille! Se il cinese ti accoppava, faceva un favore all’umanità!
– Mi dispiace, scusami davvero, non lo sapevo. Scusa.
Mi guarda serio.
– Comunque sono contenta che ora tu l’abbia assaggiata: ti piace? –
– No. Veleno. Per questo, io, mai bevuta. –
https://it.wikipedia.org/wiki/Dar_es_Salaam
*Un’altra storia come protagonista K2 è QUI
Storie africane
La Curandera dei Bajaj (The Bajaj Healer)
Zanzibar
Compravendita di schiavi negli archivi di St. Lucia
È tutto così vero e vivo il tuo racconto e vi assicuro che il cinese ha gli occhi da ….. Cinese!ed è ancora vivo!!
Blavissima!
Ebbravo, io rischio le penne e tu invece fai una telefonata, tztz. Il cinese sta, venendo da Mikocheni e andando vero il centro, sul lato sinistro della strada, dopo il kfc. Vacce un po' a parlà che ti fa 'o sconto!
dal racconto capisco che in Tanzania hai provato robba buona…
mi dai il numero del cinese?
Bello leggerti, hai proprio un talento!
tu sei il PATRIMONIO DELL'UMANITA'. Andava detto