La Curandera dei Bajaj (The Bajaj Healer)
Chi mi assicurò che la Tanzania era terra d’opportunità, probabilmente si riferiva alle miniere di minerali preziosi, la cui ubicazione è finalmente nota a molti per via dell’arrivo dei cellulari anche in zone rurali. Un nuovo Klondike è nato in sordina e si setacciano i fiumi delle foreste con un certo successo.
Oppure è perché mancano decine di migliaia di insegnanti, e un corso locale per diventare esperto IT dura solo un mese.
Come italiana sono comunque lieta di scoprire che persino qui, non solo in America, posso lavorare. E posso farlo senza che qualcuno pretenda da me un pagamento a priori in lacrime, sangue, implorazioni e umiliazioni, stagismo a oltranza, una collezione di qualifiche inutili, esami di stato e un master in gestione delle nevrosi dei colleghi, oramai obbligatorio da noi anche per le commesse di supermercato.
Allora è proprio qui che uno, a lungo compresso, finalmente si scatena.
Quasi ogni mattina mi reco a fare un lavoretto. Per arrivarci m’incammino per lo stradino fino al punto di riunione dei Bajaj, i piccoli taxi a tre ruote guidati da personaggi multifantasia senza uno straccio di patente.
Oramai sono una veterana e ho rischiato la vita talmente tante volte che se il guidatore non fa almeno un chilometro contromano, non mette sotto un passante e non facciamo il pelo a un fosso smangiando la strada che vi si sbriciola dentro, mi pare che in questo Paese non mi sia rimasto più niente di eccitante da vivere.
Ogni volta che mi vedono arrivare, i guidatori di bajaj, che bivaccano perlopiù dormendo nel loro veicolo e che mi conoscono benissimo, fanno finta di non sapere dove io debba andare e ricominciano la trattativa da capo.
Oggi però è l’ora di punta e c’è un solo bajaj. Il suo proprietario lo sta lavando con alacrità insolita, lucidandolo a colpi di spugna insaponata e gran secchiate d’acqua del fosso.
So che non bisogna disturbare un bajaj-driver durate le sue abluzioni mattutine, inutile ritenere che questi assi del sorpasso senza visibilità abbiano bisogno di lavorare. Hanno bisogno di soldi, ma è un’altra cosa, e la connessione lavoro-soldi è un mio limite culturale, già l’ho capito.
Però è l’unico bajaj che c’è, e rischio di fare tardi. Così, timidamente, mi avvicino all’autista energumeno che ha una maglietta rossa con su scritto “bora-bora” e gli chiedo se mi può portare al Colosseum Hotel.
Non parlano mai inglese, ma lo sguardo è eloquente, e dice quello che mi aspettavo: “Donna, non vedi che sono occupato?”.
Io prontamente allestisco la faccia della mzungu (bianca) farcita di denaro, spersa nella giungla e incerta sul da farsi.
Un’ombra di colpevole senso del capitalismo s’insinua nell’animo di Bora-Bora e fiacca la sua volontà tutta d’un pezzo. Mi fa un cenno sconsolato di attendere, asciuga il sedile, ci mette un pezzettino di stoffa sul quale indica premurosamente di sedermi, si infila le cuffiette, ché il rumore del traffico inquina la rotta celeste verso la morte eroica, e cerca di avviare il bajaj tirando bruscamente verso l’alto la lunga leva che si trova vicino alla pedaliera.
E tira una volta e tira due, e tira trecento, il motore non dà cenni di vita e noi siamo sempre nella stessa pozzanghera insaponata.
Arriva un altro bajaj e i due uomini si mettono a trafficare con i pochi pulsanti presenti sul cruscotto: ce n’è uno rosso, che sembrerebbe (a me, ma son opinioni) quello dell’iniezione, e che viene premuto scaramanticamente più volte a ritmi e pressioni diverse: niente.
Il nuovo arrivato si sostituisce al mio autista con il braccio oramai paralizzato e tenta anche lui vigorose messe in moto tirando la leva: niente.
A quel punto si smonta tutti dal veicolo e si apre il piccolo portello posteriore in cerca di una risposta: il motore lì contenuto è grosso come un gattino ed è fradicio. Fa anche qualche bolla di sapone.
Lo fissiamo in silenzio con grande spremimento di meningi e poi io azzardo un: “Secondo me non parte perché è bagnato.”
Non che abbiano capito esattamente cosa ho detto, ma quando si tratta di guardare con sufficienza una donna che pretende di parlare di motori, tutto il mondo è paese.
Tentiamo un’ulteriore messa in moto a spinta che s’inchioda su un rumoraccio asmatico d’ingolfamento totale.
Affranto, e con il crescente sospetto che io non sia altro che una mzungu che porta sfiga, il mio ex autista in fieri mi fa segno di salire sull’altro bajaj, consegnandomi al guidatore concorrente.
A questo punto io però decido per una carriera nuova e mai tentata prima: si dice che certi impulsi che partono dal cuore debbano essere seguiti senza indugio. Chiedo un po’ di attenzione, impongo le mani sul motore bagnato, a circa dieci centimetri di distanza, chiudo gli occhi e mi concentro lasciando fluire l’energia guaritrice per un minutino di silenzio, durante il quale nessuno osa fiatare.
Apro gli occhi, guardo Bora-Bora e annuncio: “One hour, all good”, facendo pat-pat sulla cappottina del veicolo.
Mi avvio regale verso l’altro bajaj senza voltarmi. Ci sono trentatrè gradi, però è anche tanto umido: forse dovevo pronosticare due ore invece di una sola. Boh.
Quando torno indietro, manco a dirlo è l’ora della siesta. Sveglio tutti educatamente e m’informo presso Bora-Bora sullo stato di salute del suo bajaj. Quando mi mettono a fuoco e si rendono conto di chi sono, scatta un tripudio di strette di mano, sorrisi bianchissimi, entusiasmo incontenibile, quasi rispetto. Il bajaj è tutto ok. Grazie grazie.
Quando arrivo a casa lo sanno già tutti: ho miracolato un bajaj con il fluido magico. Sono la nuova speranza spinterogena del quartiere.
Io mi schermisco: la modestia innanzitutto.
Per oggi li lascio sognare.
Da domani, chiedo lo sconto.
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