Viaggio attraverso l’Impero Romano in treno, traghetto e bus
Dicono che l’Impero Romano, d’Oriente e d’Occidente, sia tramontato.
Si tratta sicuramente di una falsità storica che nasconde un complotto, volto a impedire che si scopra che tutto è rimasto uguale. Si fa presto a cambiare i colori su una cartina ma cultura e tradizioni sono un altro discorso.
Se anche l’Impero Romano fosse ufficialmente tramontato, comunque, vorrei far notare che è cosa recente nella misura in cui pochi secoli non sono granché, se paragonati agli anni della sua durata: un lungo periodo di tempo che ha quasi sempre visto protagonisti due territori, Italia e Grecia.
Perché Italia e Grecia? Perché hanno in comune valori fondamentali, come il pane, il vino, l’olio e il formaggio. A tavola si crescono le famiglie, da noi dell’Impero Romano. A tavola trasmettiamo le tradizioni, l’etica, il tono di voce. Insegniamo l’ordine creativo che ci contraddistingue, e il concetto di priorità. Quest’ultimo è importante, nonché causa di frequenti fraintendimenti da parte di chi vive ai margini dell’Impero. Non è vero che da noi domina il caos, sono le priorità dell’ordine creativo a essere diverse, e spesso l’osservatore straniero non ne è consapevole.
Qualunque cosa pensi il resto del mondo, comunque, la verità è che l’Impero è ancora vivo.
Se vuoi toccare questa realtà con mano basta che ne attraversi il cuore in sacco a pelo, come un viandante, e tieni occhi e orecchie aperti.
Vieni con me.
Partiamo dall’isola greca di Naxos per raggiungere la remota città italiana di Augusta Taurinorum. I luoghi di partenza e destinazione possono sembrare molto diversi: una è la godereccia isola di Bacco, quello che va in giro coi grappoli d’uva appesi alle orecchie ed è sempre alticcio; l’altra è l’estensione graticolare di un quadrilatero: un fulgido esempio di accampamento militare romano.
In mezzo c’è sempre Roma, ove portano tutte le strade. Una città talmente divertente che vent’anni prima della nascita di Cristo c’era già chi l’aveva definita Città Eterna: era Albio Tibullo, uno che scriveva romanzi erotici.Dal porto di Naxos salpiamo di notte a bordo di una grande nave: la Blue Star.
A prua, dove si vede quella specie di torretta con i finestrini quadrati, c’è la sala comando. Dentro vige un silenzio ovattato nel quale oscillano bussole e timoni, e di notte le luci dei radar gettano un’ombra livida sulle mascelle incolte dei condottieri, che non sorridono mai.
Per centinaia di anni il comandante di una nave se n’è stato in cabina, a bere e a gozzovigliare. C’erano solo tre motivi che lo spingevano a salire in coperta: maltempo, battaglia, e la cosa più emozionante: ‘Terra in vista!’ con relative manovre di attracco.
Se gli andava di accelerare lo sbarco dando fuoco alla nave, lo faceva¹.
Ora invece sulla fiancata di questa grande nave, quasi a pelo dell’acqua, c’è una porticina. Quando la nave è in vista del porto, da terra parte una piccola imbarcazione con sopra scritto PILOTA che si avvicina alla fiancata del traghetto, rischiando, soprattutto quando c’è mare mosso, di beccarsi una bottarella di qualche decina di migliaio di tonnellate.
Dalla barchetta sbuca un pilota, che facendo numeri da acrobata, sale la scaletta di corda che penzola nel vuoto lungo la fiancata del traghetto.
Tecnicamente questo è un un arrembaggio. Gente come il crociato veneziano Marco Sanudo¹ – che ha costruito il castello alle spalle del porto di Naxos – o il pirata François le Clerc detto Gambadilegno², non avrebbero mai permesso che un tizio salisse indisturbato fino al ponte di comando, si mettesse a dare ordini e addirittura a manovrare la nave in arrivo e in partenza, con la scusa che lui conosce i fondali della zona.
Ecco perché i nuovi condottieri dell’Impero sorridono poco.
Ora che siamo a bordo della Blue Star con il nostro sacco da viandante, basterà trovare un angolino ove distendere le membra, possibilmente riparato dal vento e dal quale si possano rimirare le stelle. Siamo gente frugale e dormiamo per terra, noi. Ci basta un tozzo di pane e una cervogia.
Peccato che qui nell’Impero Romano siano soprattutto i pastori a dormire per terra e a guardare il cielo con le mani dietro la testa. Ai marinai, che si sentono di ceto sociale più elevato, tanta semplicità da fastidio. Così, sulla Blue Star, per evitare che qualcuno si sdrai, hanno ricoperto ogni spazio disponibile con delle sedie sparse, e se ti azzardi a stendere il tuo sacco a pelo arriva un mozzo reclutato nelle provincie più remote che ti urla in aramaico di alzarti subito. Al massimo, puoi usare una sedia.
Le sedie sono talmente tante che superano anche il numero di passeggeri che la nave potrebbe trasportare, quindi ti chiederai innanzitutto perché non se ne trovi una libera. E così inizierai a scoprire una delle peculiarità degli abitanti del cuore dell’Impero: piuttosto che dormire stesi per terra, preferiscono dormire disarticolando il loro corpo a caso su quattro sedie con i braccioli, come la donna segata. Soprattutto, piuttosto che dormire, preferiscono sdraiarsi sulle sedie, piluccare qualunque cibo e bere litri di caffè.
Il caffè è una nuova pozione che ha recentemente conquistato molte province dell’Impero: prosciuga ogni mollezza e dona la sensazione di possedere un corpo fatto di sole ossa e occhi sporgenti. Oltre una certa dose, accelera i pensieri e rende invincibili; questo permette di non stare troppo a preoccuparsi di cosa potrebbe accadere ai naviganti in mezzo a centinaia di sedie non fissate al pavimento, nel caso si alzasse improvvisamente il vento e il mare diventasse molto mosso.
Approfitterò della lunga notte di viaggio che dobbiamo passare seduti in attesa di raggiungere la capitale della gloriosa Attica, per raccontarti una storia che meglio ti illustrerà le nostre regole di ordine e sicurezza riguardanti il mare:
Una volta al porto di Naxos c’era vento forte, come spesso capita nell’Egeo. Gli aerei non potevano lasciare l’isola e il porto si era riempito di una folla di viandanti disperati, in attesa della prima nave di passaggio.
Finalmente all’orizzonte apparve un grande traghetto.
I viandanti ansiosi si ammassarono ancor più sulla banchina, nel timore di non riuscire a salire tutti a bordo. Col fischio del vento nelle orecchie, osservarono il gigante avvicinarsi manovrato da un capitano alto e biondo, discendente di Attila e assunto da compagnie straniere perché all’apparenza più affidabile. Ma Attila era notoriamente un barbaro, e di vento, mare e fiancate di grandi navi, sapeva ben poco.
Così, avvicinatasi la nave alla banchina, dal ponte fu lanciata la prima cima – una corda lunga più di 20 metri e spessa 30 centimetri – che gli uomini a terra fissarono velocemente alla bitta. Fu lanciata la seconda cima, ma finì in mare, respinta dal forte vento che soffiava dritto contro la fiancata della nave e la sospingeva lontano dal molo, con una forza superiore ai suoi motori.
I viandanti assistettero ansiosi alla lotta tra il vento e la nave, tenendo stretti i loro piccoli fardelli, mentre il nodo dell’unica cima legata strozzava la bitta e la corda si tendeva sempre di più.
D’un tratto un marinaio del molo lanciò un grido angosciato e si buttò pancia a terra coprendosi la testa. La folla di viandanti lo fissò senza capire. Un attimo dopo la cima si spezzò e partì come una gigantesca frusta sibilante, tagliando l’aria sopra le teste della gente. Tagliò di netto anche uno dei piloni di cemento che sostenevano la tettoia degli imbarchi.
Compiuto il suo arco di percorso mortale si fletté come un elastico e tornò indietro con altrettanta forza, abbattendosi fortunatamente in mare e sollevando schizzi più alti della nave, che liberata del tutto, si stava oramai allontanando.
Nessuno si fece male, ma nessuno dimenticherà il suono sibilante di quella cima che troncò un pilone come se fosse stato burro, a un solo metro sopra le teste di centinaia di persone. Tutti riuscirono a immaginare vividamente cosa sarebbe successo se la corda avesse colpito la folla.
Da allora, a Naxos è stata istituita una nuova legge: le genti in attesa del traghetto hanno da stare un po’ più in là. Sul molo è stata piazzata una transenna che delimita “L’area di sicurezza”.
Ecco: le regole di sicurezza dell’Impero Romano non si basano sulle ipotesi, ma sui fatti. Se non è mai successo, vuol dire che non succederà. Se succede, allora poi ci si pensa.
Ma ora osserva quale spettacolo grandioso sia l’alba sul porto del Pireo. Dal ponte più alto della Blue Star si vede anche l’Acropoli.
Sotto quei milioni di costruzioni di cemento sbeccato ci sono migliaia di anni di storia. Sotto la nuvola di smog che rende l’alba così psichedelica, vive il popolo che inventò Democrazia e Filosofia.
Sulla E di Ecologia deve esserci stata una svista.
La zona dei taxi del Pireo è un fulgido esempio di ordine creativo inteso alla maniera dell’Impero Romano: ci sono i taxi gialli in fila, una pensilina, e delle transenne. I viaggiatori che sbarcano dal traghetto devono soltanto incolonnarsi e salire uno dietro l’altro sul primo taxi della fila.
Bravo. Così la prima famiglia con dieci bagagli ci impiega un quarto d’ora, mentre tu, che saresti molto più veloce, devi aspettare che questo taxi parta e che quello successivo metta la prima, faccia due metri e si fermi per caricare la prossima famigliola. Con questo ritmo, in Italia ci arriviamo alle calende greche.
Noi dell’Impero sappiamo quanto valga il tempo perso, perché sappiamo sempre come perderlo in modi migliori; quindi ci sparpagliamo lungo la fila di taxi in cerca del primo libero, che cerca di partire appena può, s’ingorga con quelli davanti, l’autista fa gestacci dal finestrino, e alle 5 di mattina al Pireo suonano tanti di quei clacson che sembra un matrimonio.
Qualcuno che avrebbe aspettato un’ora in fila, comunque, ce la fa: riesce ad allontanarsi dal Pireo in cinque minuti. E dai noi dell’Impero si dice che se qualcuno ce la fa, hanno diritto di provarci tutti.
Almeno fino a quando non arriva un legionario grosso e cattivo, di quelli che si trovano soltanto più nell’Impero Romano d’Oriente, col manganello pieno di bozze e l’espressione di un crociato incazzato. Con quelli è meglio evitare i discorsi sui diritti dei cittadini.
Giureresti che lui è proprio il tipo che non rispetta mai una fila, ma adesso è in servizio: acchiappa per le orecchie il primo che gli capita e lo rimette dove dovrebbe stare, facendolo seguire prontamente dagli altri rimasti.
Sì, ovviamente ha acchiappato noi. Ho scordato di dirti che la contemplazione delle dinamiche del viaggio in certi momenti non è bene farla da fermi.
Sappi comunque che il nostro compito di osservatore si svolge proprio nei momenti più difficili. Sotto lo sguardo assassino del legionario, posso assicurarti che nessuno si prende la briga di ragionare sul fatto che è sicuramente in servizio da prima che il traghetto attraccasse. Eppure è comparso soltanto dopo che le prime cinquanta persone l’avevano sfangata alla vecchia maniera.
Avrà ritardato di proposito per lasciare un po’ di respiro alle tradizioni? O voleva bersi il caffè con calma?
Da noi, una risposta non esclude l’altra. Siamo complicati, sfumati e misteriosamente filosofici. Soprattutto ci sono le famose, originali priorità. Tu che se suddito dell’Impero, prova a fare una scaletta di priorità tra a) iniziare all’alba una giornata lavorativa caldissima e caotica senza fare una colazione meditativa con calma. b) Il solito traghetto che vomita greggi di viandanti. c) I taxisti con la tanica di caffè sul cruscotto e gli occhi rossi che devono arrivare a sera. d) La regoletta delle transenne.
Vedi? Per questo i barbari non ci capiscono.
Dopo una notte insonne passata a prendere mozziconi e cenere in faccia a bordo della Blue Star, non c’è niente di meglio di una corsa in taxi con i finestrini abbassati fumandosi una sigaretta, tu e l’autista. Alla radio suona un motivetto mediorientale, allo specchietto retrovisore dondola un pon-pon luminoso; le strade di Atene, che è il perfetto anello di congiunzione tra Oriente e Occidente, sono ancora buie e sgombre. Se il taxista fa volare il taxi sopra i dossi in tangenziale mentre sorpassa a destra, non puoi fargliene una colpa: tra un’ora potrà viaggiare soltanto a passo d’uomo, ci sono già 32 gradi e l’aria condizionata non gli funziona.
La biglietteria della stazione dei bus di Kifisiou, ad Atene, apre alle 6 di mattina. Un gatto piccolo si aggira con occhi assonnati. Compriamo un biglietto per Patrasso, cerchiamo un bar e passiamo a salutare il cane del garage: un cane color gasolio.
Si mangia quello che c’è. Si beve pochissimo, poi ti spiego perché.
Alle 6,30 si parte. Se le precedenti ore di viaggio le abbiamo fatte col vento nei capelli, adesso sarà meglio mettersi una sciarpa: qui nell’Impero l’aria condizionata non ha mezze misure.
Sull’autobus finalmente si dorme. Seduti. E con gli occhi aperti. Perché il sogno, nello stato stuporoso della stanchezza, scorre dietro il finestrino.
La periferia di Atene, le fabbriche in sfacelo, i quartieri multietnici che assomigliano a favelas, cani randagi, bidoni sui tetti per l’acqua calda, fiori con le unghie conficcate nei muri sbiaditi. Il nastro lungo e dritto della strada per Patrasso, il mare punteggiato di insenature a sinistra, la roccia scavata a destra. Un gran botto come un colpo di fucile, e l’autobus si ferma sobbalzando.
È scoppiata una gomma. Ci fanno gesto di scendere. i nostri bagagli grattano la ghiaia della corsia d’emergenza. Il sole all’orizzonte è una pastiglia dai bordi taglienti e già brucia. Una volta, sotto quel sole a mezzogiorno, il catrame della strada si è sciolto e il mio zaino ci è sprofondato dentro per quattro centimetri, asfaltandosi in modo definitivo.
Arriva il bus sostitutivo; si riparte e si ricomincia a dormire.
Che stiamo entrando nella vecchia capitale commerciale dell’Impero Romano d’Oriente ce lo dice la luminosità dei posti che crescono sull’acqua, l’improvvisa eccitazione dei passeggeri e un grande cartello piantato alla stazione di rifornimento.
È un attimo, e stiamo già volando sopra il canale di Corinto, che fu progettato da Nerone in persona.
È il più stretto del mondo. Anche qui la parte del leone la fanno i piloti locali e il comandante della nave in questo caso suda freddo: se una fiancata tocca le pareti del canale, dovrà intervenire lui.
D’ora in poi il mare si troverà a destra e il bus farà deviazioni continue a causa della costruzione di una strada nuova, sopra quella che già c’era mille anni fa. Più passano gli anni, nell’Impero, più ci vuole tempo per costruire le strade. Nessuno ha ancora capito perché.
Il bus è di quelli grandi e moderni e ha un bagno, che è chiuso. Una volta c’era una fermata obbligata a Corinto, in una specie di ristoro dove si poteva usare un bagno e si poteva comprare l’uva passa. Ora la tappa è stata eliminata e il consiglio di non bere durante un pellegrinaggio, a meno che non sia strettamente necessario, è sempre valido.
La fine delle tre ore di viaggio in bus è preannunciata da un ponte che collega l’Achaea all’Aetolia e avvicina Patrasso a Igoumenitsa attraverso il golfo di Corinto. Questo ponte ha fatto molto ingelosire i siciliani, perché la sua realizzazione ha richiesto soltanto otto anni. Per l’Impero, questi sono attimi.
Il modo in cui i greci si riferiscono a questo ponte, è perfettamente bizantino. Poiché il ponte collega due città su rive opposte, che si chiamano Rion e Anti-Rion, il suo nome ufficiale è molto spartano: Rion Antirion. È stato progettato e costruito da dei francesi, di conseguenza di chiama anche Ponte dei Francesi. Siccome però i greci sono spiccatamente patriottici, ci tengono a chiamarlo Ponte Charilaos Trikoupis, in memoria del ministro greco che nel 1880 ebbe per primo l’idea di costruirlo.
Per mettere tutti d’accordo, comunque, è comunemente chiamato il Ponte di Poseidone, dio del mare, dei maremoti e dei terremoti: il ponte poggia su un fondale geologicamente instabile e noi dell’Impero ci proteggiamo sempre dalle disgrazie adulando i potenti innanzitutto.
Patrasso sembra una città delle coste pugliesi, appena un po’ più scassata. Si sta riprendendo però, e il suo centro è costellato di bar all’ultima moda con erba sintetica alle pareti. Aveva un porto bello e accogliente, da cui partiva una piccola ferrovia che lo collegava direttamente al porto del Pireo. Non c’è più niente. Il porto è stato spostato fuori città, in una zona industriale che aspettava il rilancio ed è finita diroccata.
I negozi aprono alle dieci, e siccome sono appena le nove e il traghetto per Ancona parte alle due del pomeriggio, c’è tutto il tempo per visitare l’anfiteatro romano, la fortezza bizantina e la Basilica di S. Andrea prima che faccia troppo caldo.
Finito il giro è tempo di stravaccarsi pigri a guardare il passeggio del centro pedonale, bevendo l’ennesimo cafè frappè: un affascinante beverone a base di Nescafè shakerato con acqua, ghiaccio e latte condensato.
Se i piccioni, ancora più invadenti di quelli di Venezia, si servono del nostro dolcetto con arroganza inaudita il motivo c’è: sono sudditi dell’Impero con diritto di cittadinanza, visto che i romani e i greci li hanno allevati per secoli. Senza di loro e le loro uova, forse non saremmo sopravvissuti.
All’agenzia viaggi del corso principale – che ora è semiaperta, nel senso che qualcuno ha alzato la saracinesca senza troppa convinzione e solo a metà – chiediamo un biglietto per Ancona. L’impiegata assonnata ci chiede di specificare quale compagnia di navigazione preferiamo e noi preferiamo la SuperFast Ferry, perché ha dei ponti larghi e coperti, con il pavimento rivestito di uno strato di gomma. Questo è un discreto vantaggio per le povere ossa di un viandante, e in caso di vento e mare mosso le sedie voleranno lo stesso, ma non scivoleranno sul pavimento bagnato piombandoci addosso come ghigliottine.
– Oggi la SuperFast non c’è. C’è solo la Anek. -.
– Scusi ma sul sito Web ufficiale della SuperFast c’è scritto che parte tutti i giorni e che oggi ce n’è una che parte alle quattordici. -.
– Ah, ma sul Web scrivono quello che vogliono. -.
La nascita del Web, nell’Impero Romano, è stata accolta con tripudio. Non che i racconti erotici di Albio Tibullo non fossero apprezzati, ma il Web ci ha aggiunto le figure animate e accessibili da ogni dove, risparmiando la lettura faticosa di particolari inutili. Mettici anche che se ti serve la ricetta del Garum lì ce la trovi anche in versione vegana, e che ci sono persino le storie per tenere buoni i bambini; sarai d’accordo anche tu che non si poteva inventare cosa migliore.
Purtroppo i soliti esibizionisti aprono siti di un po’ di tutto, e alla fine tutti sono obbligati ad aprire un sito per fare commercio. Ma è una cosa di vetrina: chi vuoi che vada a leggere cosa.
La Anek sostituisce la compagnia SuperFast in giorni random della settimana. Le due compagnie pare si siano associate e le navi scambiate come figurine.
Le navi della Anek sono piene di moquette infeltrita e sontuoso marmo di plastica, ma il ponte è considerato area pezzenti: le pensiline che lo coprono sono di plastica e vibrano rumorosamente. Se piove ci passa l’acqua. I menù del bar sono scritti in slavo e il personale è persino più arrogante, distratto e maleducato di quello della SuperFast. Peggio di così ci sono solo le navi della Minoan – Grimaldi, sulle quali il ponte non esiste e sembrano navi cargo dedicate al trasporto di turisti-camionisti.
Per raggiungere il nuovo porto di Patrasso, che è a cinque chilometri dal centro città, si può camminare, faticando un po’, oppure prendere un taxi. Ma volendo davvero entrare in contatto con la cultura locale e avendo anche tre ore buone da far passare, non c’è niente di meglio della fermata del bus, la cui pensilina si sta arroventando al sole.
Se nell’Impero del Sol Levante riescono a predire con precisione l’arrivo di un mezzo pubblico, è perché si tratta di popoli che non hanno il nostro retroterra culturale e tendono a semplificare le cose. Infatti poi, quando visitano l’Impero Romano, questi pellegrini non comprendono neppure come si attraversi una strada senza semafori.
Da noi il traffico stradale è soggetto a numerose varianti, e calcolare l’orario dell’arrivo di un bus richiede una capacità intellettiva superiore, atta a risolvere problemi di tipo matematico a più fattori:
Nel percorso stradale che ti porterà dal panettiere incroci un amico, anche lui in auto. Vi fermate e fate due chiacchiere dal finestrino, mentre gli altri automobilisti approfittano della pausa per parcheggiare anche loro in mezzo alla strada e comprare le sigarette.
Nello stesso momento il panettiere si mette a sistemare un cassetto del retrobottega chiedendo alla moglie di passargli le pinze. Quando arrivi al negozio non trovi nessuno e approfitti per passare un attimo a salutare il verduriere, che contento di vederti ti invita a bere un caffè.
Tornando alla tua automobile, scopri che la strada è stata appena deviata perché un mese fa si sono aperte delle buche a causa della pioggia, nelle quali sono state rinvenute delle ossa di uomini primitivi e anche lo spigolo di un bunker tedesco in cemento armato.
Ti rimetti alla guida della tua auto percorrendo un marciapiede al quale sei riuscito ad accedere spostando alcuni cassonetti, ma appena scorgi l’impiegata del comune che attraversa una strada parcheggi contro un albero e ne approfitti per acchiapparla e lamentarti del traffico ingorgato.
In base a questi elementi calcola il tempo di percorso del bus che hai superato in contromano quaranta minuti fa, dalla stazione di partenza a quella di arrivo, tenendo presente le fermate intermedie.
Stiamo aspettando a Patrasso il bus n. 10, quello che dovrebbe portarci al porto, da circa venti minuti. Dovrebbe passare ogni ora, più o meno. Un’ora dopo il precedente, che però non si sa a che ora sia passato.
La speranza – che si affievolisce con il graduale e costante aumento della temperatura – è che noi non si sia arrivati alla fermata proprio 30 secondi dopo il suo passaggio.
Poiché siamo viandanti dell’Impero e conosciamo i nostri polli, per sicurezza, a ogni bus di numero diverso che passa, chiediamo all’autista se per caso va verso il porto o lì vicino. Nell’Impero del Sol Levante non potrebbe mai succedere, ma qui ci sta anche che un autista decida di fare una piccola deviazione, giusto per movimentarsi la giornata. In caso di diniego, chiediamo quale sia il numero del bus che va al porto, tanto per conferma.
I numeri che collezioniamo sono tutti diversi: Il 5, il 7 bis, il 34. Nessuno di questi sta comunque passando.
Il bus che alla fine sopraggiunge, è nuovissimo e ha l’aria condizionata a palla. Come quelli enormi che circolano per le strade strette delle isole, e quello che ci ha trasportato da Atene a Patrasso, è stato acquistato con il contributo dell’Unione Europea. A un certo punto l’Unione Europea però ha iniziato a chiedere dei soldi indietro, dimenticandosi che l’Europa l’abbiamo creata noi. Mai fidarsi della gente a cui hai fatto dei favori.
Il traghetto della SuperFast, che però è Anek, e che dovrebbe essere ormeggiato a Patrasso in attesa di salpare per Ancona, non c’è. È in ritardo ed è ancora in navigazione. Così dice la signorina greca al desk della Anek in porto.
– Come mai? E di quanto in ritardo? –
– Non saprei. –
– Scusi, ma non ci sono delle radio a bordo? Saprete pure a quale punto del percorso è. O è successa una disgrazia? –
– Non so. –
– Anche all’andata era in ritardo di ore. Perché non lo fate sapere al momento dell’acquisto del biglietto? –
– Ci sono molti turisti, ci vuole tempo per caricarli. –
– Veramente no: siamo ai primi di luglio e la nave dell’andata era ai primi di giugno. È arrivata con quattro ore di ritardo, ha caricato i camion e i turisti ed è ripartita in un’ora, quando di solito sta ferma in porto tre ore. –
– Eh, ci sono molti turisti. Torni tra due ore, magari è arrivata. Il molo è quello là. –
Recentemente sono state scoperte nuove parti di mondo dove si crede che chi paga per avere un servizio possieda più diritti di chi è stato pagato per fornirglielo. Si tratta di una delle tante superstizioni dei popoli selvaggi: la storia insegna che tra chi paga e chi intasca i soldi, il pollo è il primo, e di conseguenza è inferiore. Inutile quindi prendersela con la signorina del desk, che sta alle informazioni per pura cortesia, ma esegue gli ordini di omertà di chi la paga. Inoltre non sa davvero nulla: non è tipo da fare o farsi domande, altrimenti non sarebbe stata assunta.
I ritardi dei mezzi di trasporto hanno reso l’Impero ricchissimo: guardati intorno, in trecento metri quadri di sala d’attesa ci sono di nuovo moltissime sedie, l’aria condizionata e dieci bar, con più cibo a disposizione di un intero campo profughi.
Infatti i profughi ci sono. Se i viandanti non fossero tutti così impegnati a scriverne dottamente sui loro papiri, seduti al chiuso della sala d’attesa con l’aria condizionata, li avrebbero già visti.
Appena oltre la nuova recinzione del porto di Patrasso, nascosti nelle fabbriche dismesse, bivaccano centinaia di persone di varia nazionalità. Basta stare fermi in un punto un po’ appartato del porto per vederli saltare la recinzione, correre e tentare di nascondersi tra i camion in attesa d’imbarco.
Prima ci hanno dato degli invasori ma ora che l’Impero si sta un po’ ritirando, almeno politicamente, le genti delle province esterne cercano in ogni modo di raggiungerne il cuore, per non venire escluse. Vedi a volte l’ironia della Storia.
Sono proprio queste genti a dimostrare quanto l’Impero abbia perduto la sua famosa efficienza in fatto di gestione dei popoli: non sappiamo più conquistare, non sappiamo più proteggere. Né loro, né noi.
Potrà sembrarti strano, ma nel fare l’osservatore di una guerra tra guardie e ladri, è più importante evitare di essere notati dalle guardie. Chi scappa è troppo impegnato per preoccuparsi d’altro, mentre chi insegue è più arrabbiato che impaurito, di conseguenza assai nervoso. Sarà bene stare vicini a un angolo che si può svoltare in fretta sparendo alla vista di tutti e fingersi intenti a fare qualcosa, come telefonare. Soprattutto, è importante usare un tipo di vista spesso raccomandato a chi pratica il Metodo Bates: morbido, che non fissa nulla in particolare. Meglio guardare lievemente verso il basso, fingersi assorti e distratti, e mai, mai inseguire un movimento con la testa. Molte creature della terra, a parte i felini, tendono a sottovalutare l’utilità della vista periferica.
Le persone che saltano la recinzione e corrono verso le navi – rendendo la vita impossibile ai camionisti che attendono di imbarcarsi per L’Italia – sono tutti maschi e giovanissimi. Tentano di infilarsi in un camion più volte al giorno, per mesi. Le guardie a volte li catturano, ma si limitano a controllare che non siano segnalati come terroristi e a respingerli oltre la recinzione. Non ci sono leggi applicabili.
Loro osservano attentamente l’andirivieni del porto al di là della recinzione prima di muoversi in modo agile e fulmineo. Alcuni di loro corrono così veloci che riescono a sfuggire alla motocicletta che li insegue.
Sembrano sufficientemente nutriti. Questo significa che qualcuno porta loro da mangiare e che hanno accesso a dell’acqua: non potrebbero vivere di spazzatura per mesi, e se fossero pescati a rubare la loro situazione di limbo legislativo cambierebbe bruscamente.
Non sembrano attratti dalle auto accessoriate dei turisti o dai loro oggetti. Sono completamente assorbiti dal movimento di carico e scarico merci che fissano aggrappati alla ringhiera.
A parte riuscire nel loro intento e avere un telefono connesso in qualche modo, queste persone spesso hanno un solo altro urgente desiderio: quello di fumarsi una sigaretta, lusso che raramente è fornito dalle associazioni umanitarie.
Noi ne abbiamo un pacchetto pieno, con tanto di accendino. L’altro lato della strada dista quattrocento metri. La Anek non è in vista, neppure al largo.
Che si fa? Ci mettiamo a pontificare sui Social riguardo la situazione dei migranti o andiamo a vederla da vicino?
Pericolo? Di cosa esattamente? Questa gente sta perseguendo un obiettivo ossessivamente, non ha altro per la testa. Improbabile che qualcuno rinunci al suo sogno per rubare uno zaino col quale poi dovrebbe scappare e che lo rallenterebbe nella corsa. Non hai visto che non trasportano nulla, se non mezza bottiglietta d’acqua, legata alla schiena?
Forse un giorno alcune di queste persone diventeranno pericolose. Ma non oggi, che hanno una grande avventura da affrontare e un sogno da realizzare.
Oggi sono più pericolosi quelli che parlano di loro usandoli come oggetti di proiezione dei loro sentimenti personali e che li considerano in ogni caso animali da sterminare o da salvare in massa. Tra le due tifoserie la più insidiosa è proprio quella virtuosa, che catechizza gli altri con superiorità, irritando e ottenendo l’effetto opposto. I virtuosi, quando viaggiano, invece di entrare in contatto con le realtà che santificano a tavolino cercano posti di pace e meditazione, per calmarsi l’animo. Sono quelli che amano molto gli animali buoni dei cartoni animati, ma se ricevono un morso cambiano subito idea.
Fidati: se portassimo con noi dall’altra parte della strada due persone con convinzioni opposte su questa gente, assisteremmo a un curioso avvicinamento di sentimenti; il “cattivo” perderebbe baldanza e il “buono” si inasprirebbe alla prima situazione non conforme alle sue aspettative.
Ma noi stiamo zitti e ci facciamo gli affari nostri. Siamo solo viandanti e il mondo è di tutti. Lo spazio pure, con le opportune cautele.
Raggiungiamo il lato di strada opposto al porto e ci sediamo sugli sgabelli rotti di un bar che anni fa probabilmente era aperto. Oggi, guarda che sfortuna, è chiuso; ma siamo troppo accaldati per tornare indietro e ci prendiamo una pausa sigaretta stando quieti, mentre diventiamo subito il centro di un’attenzione titubante.
Inizia una piccola processione di persone che chiedono una sigaretta. La porgiamo senza dire nulla, ma se ringraziano sorridiamo e diciamo ‘prego’. È questione di minuti e si forma un capannello ondeggiante: sappiamo tutti che un assembramento fisso attirerebbe l’attenzione delle guardie.
Molti ragazzi sono poco più che adolescenti. Sono curiosi ma non osano chiedere niente. Per tranquillizzarli domandiamo se a portare loro da mangiare ci pensa l’associazione X, nome inventato. Si rilassano e iniziano a spiegare: sono orgogliosi di sapere, una volta tanto, qualcosa in più dei loro interlocutori a cui non sanno neppure che domande fare, tante sono quelle che salgono confuse per essere subito ricacciate indietro.
Raccontano tutti la stessa identica storia, in inglese, usando anche gli stessi termini: arrivano dai campi profughi della Turchia, vogliono una vita migliore per se stessi e per la loro famiglia lontana, scappano da situazioni terribili, sognano un mondo di pace e la possibilità di lavorare onestamente. Preferiscono morire che tornare indietro. Si sentono ingiustamente discriminati.
Non si tratta veramente di una bugia, ma la verità sarebbe più sfumata e complessa, mentre la versione semplificata è quella consigliata all’interno della loro comunità, perché si è capito che è quello che noi, dall’altra parte, preferiamo ascoltare.
Quello che non quadra occorrerà osservarlo in silenzio.
I ragazzi che vengono a chiedere le sigarette sono tutti mediorientali. Gli africani ci sono, ma sono un gruppo a parte e ci osservano dalla loro zona: il punto più diroccato della fabbrica diroccata. Nell’aera dismessa della vecchia zona industriale di Patrasso mancano molte cose, ma un ghetto, a quanto pare, è già stato costituito. Un ragazzo africano cerca di avvicinarsi, ma un mediorientale si stacca da un gruppo e gli taglia la strada. Lui torna indietro. Non si sono guardati negli occhi.
Sarebbe interessante scoprire in quale modo e secondo quali precedenze gli africani sono ammessi ai tentativi di intrufolamento sui camion, ma queste sono cose complicate e i volontari sospinti da grande entusiasmo altruistico sembrano non accorgersi di nulla. Eppure, paradossalmente, questo sarebbe il contesto migliore nel quale, oltre a portare l’orchestrina del paese per la festa di Natale e due pasti caldi al giorno, si potrebbe iniziare a lavorare su una vera integrazione e accettazione culturale.
Per guadagnarsi l’unica simpatia a cui ritengono di avere diritto, questi ragazzi hanno anche imparato a enfatizzare in quali condizioni drammatiche siano costretti a vivere in attesa di riuscire nella loro impresa: nella fabbrica, che sta crollando, spesso manca l’elettricità; in inverno devono scaldarsi col fuoco e sono costretti a lavarsi con l’acqua di un unico rubinetto e a dormire nelle tende, per terra, senza neppure un tappeto.
Dopo avere detto questo osservano l’orrore dell’occidentale che teme la povertà più dell’infelicità, cercando di capire meglio di quali comodità lui invece goda. La maggior parte di loro arriva dalle montagne dell’Afganistan e del Pakistan, ben più fredde di Patrasso, e in molti casi un bagno, acqua corrente, riscaldamento ed elettricità, non li ha mai avuti.
In tutto questo si tende a perdere di vista un aspetto che forse non è il più importante, ma che ha un suo peso: i ragazzi che cercano di intrufolarsi nei tir a Patrasso per raggiungere l’Italia hanno molti problemi, ma sono anche ragazzi come tutti gli altri; vogliono conquistare il mondo, vogliono l’avventura, vogliono avere uno scopo. Non tutti sono reduci da guerre e persecuzioni politiche: alcuni sono perseguitati dall’inedia del villaggio, dalle tradizioni sterili e dalle culture che ne tarpano i talenti e l’idealismo. In qualche modo hanno qualcosa in comune con i ragazzi che partono dall’occidente per finire nelle stesse zone da cui loro scappano, e si cacciano anche loro in situazioni che non sapranno fronteggiare, diventando carne da macello.
Forse si potrebbe aiutare questi ragazzi anche evitando di classificarli unicamente come disperati o profittatori, accettando come legittimo il loro bisogno di cambiamento, senza pretendere storie drammatiche a tutti costi. Forse, dopo, una volta arrivati dove volevano arrivare, e spesso delusi, sarebbe più facile comprenderne i sentimenti misti di baldanza e frustrazione.
Ma queste sono tutte illazioni. Prima di farci sopraffare a nostra volta dai luoghi comuni di tifoseria sociale che giudica prima di capire, abbiamo ancora un sopralluogo da fare. E poi non si dica che al porto di Patrasso ci si annoia, mentre si aspetta una nave persa in qualche punto sconosciuto dell’Adriatico.
Dopo avere distribuito tutte le sigarette, torniamo in porto e ci dirigiamo a fare un formale reclamo per il ritardo della nave, entrando nell’ufficio delle guardie portuali con il piglio del vero cittadino dell’Impero. Ultimamente le cose hanno preso una piega troppo decadente e molti sudditi preferiscono sfogarsi in modo pigro su Tripadvisor senza concludere nulla e contribuendo a un lassismo che negli ultimi secoli è costato più vittime delle campagne di conquista. Anche le guardie ben rappresentano questo triste stato delle cose: sono grasse, bevono caffè e fumano annoiate, salvo poi avvelenarsi di adrenalina quando devono improvvisamente montare sulle motociclette e compiere vani inseguimenti.
La lingua di molte parti dell’Impero è ancora l’italico. A Patrasso, l’inglese non lo parla nessuno.
Le autorità portuali sono d’accordo sul fatto che le navi in ritardo siano uno scandalo: loro glielo dicono tutte le volte che non dovrebbero fare così. Però sono compagnie private e fanno quello che gli pare, sai com’è. Possiamo comunque scrivere un papiro di lamentele, in inglese però, e loro provvederanno a inoltrarlo a chi di dovere.
Lo facciamo, non senza notare un certo disappunto dietro la blanda sollecitudine: in quanto romani non è bello che noi si sappia scrivere anche in una lingua barbara.
La copia carbone del papiro, che ci viene consegnata a garanzia dell’ufficialità del documento, è illeggibile. Sarà seppellita in luogo ameno: riscoperta in un futuro lontano potrebbe mettere in discussione le teorie più accreditate sulla decifrazione del Papiro Tulli.
Per vendicarci di questo sgarbo della copia carbone ci premuriamo di avvisare le guardie, che indossano anfibi nonostante la temperatura che supera i 40 gradi, di avere visto alcuni migranti saltare la recinzione. Pur auspicando l’ordine, ci preoccupiamo di come stiano queste povere anime e confidiamo che la situazione sia sotto controllo.
Giusto per verificare che lo sguardo arrogante e spietato dei combattenti sia ancora lì, sotto la cenere dei panzerotti ardenti. Perché se c’è qualcuno che ha il polso preciso di cosa stia succedendo in quella zona e di come si stia evolvendo la situazione, sono ovviamente loro, anche se sembra che non si accorgano di nulla. Anche loro vivono in un limbo: devono coprire certe realtà, tacere, combatterne altre, ma con misura. Una misura che varia continuamente. Sono abbandonati a dibattersi in una situazione sulla quale hanno molte responsabilità, poche informazioni e nessun potere decisionale.
Il nostro intervento scatena un gelo risentito e siamo immediatamente ricacciati in sala d’attesa, dalla quale finalmente si intravede una nave in arrivo.
Quando la nave attracca, ci precipitiamo a salire superando anche i passeggeri in fila sulla scaletta mobile che porta alla reception, per tentare di arrivare per primi a bivaccare negli angoli migliori. Quando giungeremo al porto di destinazione dovremo sbarcare trascinando il nostri fardelli lungo la scala mobile che sarà immobile: i sudditi dell’impero sono gente elegante e al fondo di una scala mobile si fermano sempre per darsi un’aggiustata. Solo che nel caso di una scala mobile ripida e con decine di persone cariche di bagagli, il rischio che queste si accatastino sul primo imbecille che si blocca è talmente alto, che disattivare il funzionamento della la scala mobile in discesa è diventata la principale norma di sicurezza delle navi che trasportano passeggeri.
Il ponte è lercio e le operazioni sommarie di pulizia, fatte con un idrante e di corsa, non lasciano nulla di asciutto, neppure le numerose sedie e lettini accatastati alla belle e meglio.
Partiamo alla ricerca di un posto all’interno ricoperto di moquette puzzolente, ma la nave sta facendo rifornimento al volo da un’altra grande nave che le si è affiancata: l’odore di carburante è così forte che potrebbe far svenire qualcuno. Sul ponte, a cercare di respirare meno vapori possibile, c’è poca gente: camionisti, proprietari di grossi cani, famiglie nordiche con neonati che per qualche ragione hanno preferito evitare l’aereo, e ben tre famiglie romantiche con zaini e ragazzini appresso, che si guardano intorno sperdute. I genitori ricordavano questi passaggi ponte allegri degli anni novanta, dove c’era tanta gioventù a suonare le chitarre. Ma tempus fugit e panta rei. Ora scriveranno una brutta recensione su Tripadvisor, mentre cercano di distrarre i bambini facendo loro osservare le grandi dimensioni dei Tir che lentamente entrano nella pancia del traghetto. Una pancia vorace, come quella dell’Impero Romano.
Molti dei Tir che viaggiano tra Grecia e Italia sono frigoriferi ambulanti e trasportano cibo, in particolare pesce vivo. Quale motivo ci sia di scambiarsi pesce vivo tra due nazioni circondate praticamente dallo stesso mare è una di quelle domande che ha perso la risposta, ma che trova giustificazione negli scambi commerciali che hanno spinto il mondo intero verso il progresso tecnologico.
Questi Tir, quando sono fermi, necessitano di corrente per far funzionare i frigoriferi o pompare ossigeno nelle vasche. Quando sono all’interno di un traghetto dovrebbero avere delle prese di corrente da utilizzare ed essere saldamente bloccati al pavimento in caso di mare mosso, ma queste sono pedanterie eccessive che rallentano le operazioni. In fin dei conti non è mai successo niente in migliaia di traversate, o quasi. Giusto la Norman Atlantic ha avuto qualche problema, ma le cause dell’incendio sono ancora sconosciute. Potrebbero essere state, nell’ordine: uno dei camion col motore acceso per far funzionare gli impianti, perché la presa di corrente a cui avrebbe dovuto avere accesso non era ovviamente funzionante; un motore a scoppio interno a un altro camion, in funzione per tutta la traversata, per gli stessi motivi del primo; un profugo nascosto sotto un serbatoio che si è cucinato un’aragosta fresca; lo sfregamento del tetto di un camion contro le lamiere del soffitto, a causa del mare mosso e dell’aggancio al suolo inesistente, che ha causato la scintilla, che ha incendiato il camion che ha incendiato il resto.
L’ossigeno per tenere le anguille vive ha contribuito a sviluppare un incendio sulla Norman Atlantic che ha raggiunto i 1200 gradi e ha carbonizzato dei corpi tra cui quello di un adolescente, rendendoli irriconoscibili. Almeno tre di questi erano mediorientali e clandestini. Forse ce n’erano altri. Nessuno lo saprà mai.
Per scacciare via i brutti pensieri e predisporsi a dormire un po’, non c’è niente di meglio di un ouzo con ghiaccio e una sigaretta. Col vento che c’è, è inutile spegnerla nel posacenere; guarda i camionisti, che fumano come turchi anche se spesso sono bulgari: loro gettano i mozziconi accesi oltre il parapetto, sotto il quale ci sono le aperture ovali che arieggiano il garage dove sono parcheggiati i loro camion.
Partiti. L’orario di arrivo non è cosa educata da chiedere in reception. Si mangia un souvlaki e ci si sdraia a guardare le stelle, finalmente, avvolti dal fumo della ciminiera.
Il tentativo di sdraiarsi sui divanetti dei bar è stato sventato dal solito marinaio provinciale, ma sappi che il suo divieto vale quanto il ballo di Cenerentola: solo fino a mezzanotte.
Poi, a Igoumenitsa, arriveranno i sudditi più temuti dell’Impero e il caos bizantino prenderà il sopravvento.
Il porto di Igoumenista è l’ultima fermata della Grecia. Subito dopo iniziano le coste montagnose dell’Albania. Qui sbarcò mio nonno, durante la Seconda Guerra Mondiale. Mi domando in quale stato d’animo fosse il giorno che avvistò questa insenatura per la prima volta. Nel suo diario, non ne scrisse mai.
Da Igoumenitsa c’è un’antica strada che porta a Thessalonica e poi a Costantinopoli, sul mar di Marmara. Da là si muovo le genti dell’Impero d’Oriente verso la Germania Mania, attratte dalla sua barbara economia. Per non attraversare le strade dell’Impero più a nord, caricano in nave i loro carri colmi di parenti, materassi e libagioni, trasformando in fretta il ponte della nave in un accampamento. Parlano la lingua turca e tra loro e i greci crepita un odio millenario pronto a scoppiare in ogni momento. L’equipaggio greco quindi scompare, e da questo momento in poi sarà possibile trasferirsi a dormire in qualunque spazio libero della nave.
Salpiamo nuovamente. Il comandante è al lavoro: deve manovrare la nave a vista tra le insidiose insenature di questo tratto di mare che passa attraverso le Isole Ionie. Mancano ore infinite all’arrivo ad Ancona, ed è ancora notte fonda. I camionisti discutono animatamente, fumano e bevono caffè. Non dormono mai.
La sveglia all’alba è data dagli altoparlanti disseminati per la nave, che gracchiano in molte lingue che la colazione è pronta. A botte di annunci da spaccare i timpani, non lasceranno dormire più nessuno. Chi dorme non consuma, ma chi si annoia mangia, soprattutto quando il telefonino non prende. È la noia che ha creato tutti i manicaretti che hanno reso famoso il cuore dell’Impero e che a loro volta l’hanno inflaccidito.
L’affaccio dal parapetto in cerca di delfini è uno dei modi più facili per recuperare energie. Il vento intreccia i capelli, la salsedine fissa i nodi.
Ancora caffè.
L’arrivo ad Ancona era previsto per le ore 11.00, ma ora è slittato a un non ben identificato orario del primo pomeriggio. Ancora un poco di ritardo e sarà necessario passare la notte a Bologna in attesa del primo treno del mattino.
Dopo le città scrostate della Grecia, con le loro montagne bruciate alle spalle, Ancona sembra presentare degnamente il cambio di passo architettonico e naturale della penisola italica. Lo splendore di Roma si avvicina.
Il porto è ordinato, e c’è persino una navetta gratuita che porta dai moli d’imbarco al terminal delle biglietterie. Dal terminal delle biglietterie, sperduto in una zona remota del porto, ci si dovrà muovere con mezzi propri, cioè i piedi, per arrivare alla Stazione Ferroviaria. In realtà la navetta percorre un tratto di strada che si avvicina alla Stazione: basterà chiedere gentilmente all’autista di fare una fermata extra e lasciarci lì. Eccolo che arriva con la navetta vuota.
Certo che questi italici si vede che sono più romani degli altri: l’autista ha abbigliamento e capelli così curati, che neanche Giulio Cesare. A pochi metri dalla fermata dove lo attendiamo sotto il sole, incrocia la navetta che va in direzione opposta; si ferma e chiacchierare dal finestrino con l’altro autista, lasciandoci a fissarlo in attesa.
Te l’ho detto che il Tempo e la Distanza possono poco sulle tradizioni dell’Impero.
A bordo della navetta c’è un solo passeggero: è un barbone con problemi psichiatrici e ferite purulente. Siede tra i suoi sacchetti e parla da solo; probabilmente passa il pomeriggio sulla navetta, facendo avanti e indietro.
Chiediamo all’autista, il cui profilo si trova coniato sulle monete dell’Impero, se ci lascia scendere nel punto di percorso più vicino alla Stazione. Ci risponde piccato che le regole sono regole, e che lui si ferma all’unica fermata prevista, cioè quella del Terminal.
Potresti chiederti perché l’autista così umano da scarrozzare una persona che non dovrebbe trasportare, diventi così ligio alle regole tutto d’un tratto. Sappi che in questa zona dell’Impero le regole funzionano così: sono rispettate soltanto quando ad applicarle si fa un dispetto agli altri. Il trasporto del barbone non ha a che fare con l’umanità: si tratta di indolenza. Litigare con un matto è fatica, e non ci sono regole che lo impongano.
Ora sai che nel cuore dell’Impero Romano vigono le leggi più elastiche del mondo.
Dietro la facciata dall’architettura così di buon gusto, Ancona è più decadente di Patrasso. Camminando lungo il grande corso che porta alla Stazione si incontrano solo negozi sprangati. Non c’è traccia dei mediorientali clandestini, ma gruppi di africani senza scarpe si aggirano in branchi rabbiosi, minacciandosi a vicenda. Alla Stazione c’è un uomo anziano che chiede loro la carità.
Nell’unico bar aperto c’è lo stesso cibo dei traghetti e nulla di quello che ci aspetterebbe dal Paese dei Manicaretti.
I treni che vanno da sud a nord sono tutti in ritardo. Anche le vie ferroviarie sono trafficate, nell’Impero. Cerchiamo di acquistare un biglietto per il treno che doveva passare un’ora fa e che arriverà solo tra 40 minuti, ma non c’è più posto. Il successivo è in esaurimento e ha un ritardo apparentemente inferiore, ma le regole segrete del Regno Vassallo di Trenitalia dicono che il treno successivo non può superare il treno precedente, quindi accumulerà lo stesso ritardo, se non maggiore.
Acquistiamo un biglietto che costa carissimo e andiamo a soffrire il caldo al bar.
Se in altre parti dell’Impero la folla dei viandanti tiene a bada in qualche modo i fuorilegge, in molte Stazioni Ferroviarie italiane la situazione si è invertita. Ancona è una cittadina sonnolenta di provincia e manca di spirito battagliero. Bastano venti minuti di osservazione seduti al bar dei cinesi dall’altro lato della strada per accorgersi che certe aree della Stazione sono evitate da tutti e fanno parte oramai di un territorio conquistato dalle bande, con buona pace degli abitanti del quartiere. Passare di lì equivale a sfidare un potere in qualche modo riconosciuto, ed essere minacciati e provocati. È una situazione potenzialmente molto più pericolosa di quella di Patrasso, ma nessuno sembra accorgersene.
Se vogliamo evitare uno scontro con qualche tribù numida, faremo meglio a salire sul treno che è arrivato ora. Si tratta di quello in ritardo e per il quale non abbiamo biglietto perché non c’erano più posti. Ma ci sono sempre dei posti liberi sui treni pieni di Trenitalia.
Trenitalia è un fenomeno squisitamente imperiale. Le leggi che vigono in questo regno sono la quintessenza di tutto ciò che abbiamo già incontrato sul nostro percorso: leggi severissime unilaterali, nessun rispetto per chi paga. Per il resto vige l’anarchia più totale.
Sfuggire alle guardie del regno, salendo in carrozza senza biglietto, è virtualmente impossibile, a meno di non essere degli intoccabili. Per cavarcela, dovremo usare tutta la nostra esperienza di osservatori.
I guardiani sulle carrozze di Trenitalia hanno ampio margine decisionale. Questo è dovuto al fatto che sul mezzo in movimento sono poco controllabili e pertanto possono aggirare alcune regole in base alla loro convenienza, secondo i principi che già conosciamo. Per esempio: tendono a evitare il controllo biglietti nelle aree dei treni ove siano seduti i clienti più incazzati.
Su un treno a lunga percorrenza in ritardo, il rischio che molti passeggeri si vedano saltare le coincidenze senza ottenere alcun rimborso e siano costretti magari a pagarsi pure un albergo, è molto alto. Sul treno sul quale siamo saliti, pertanto, tutte le carrozze sono da considerarsi ad alto rischio sommosse e di conseguenza a basso rischio controllo, soprattutto quelle di prima classe. Ma a noi non basta: vogliamo viaggiare proprio indisturbati.
Se c’è un posto dove un controllore non passerà mai in un giorno d’afa, su un treno sigillato che ha accumulato 70 minuti di ritardo, è la carrozza dove l’aria condizionata non funziona.
C’è sempre una carrozza senza aria condizionata o senza riscaldamento, su un treno a lunga percorrenza di Trenitalia. Dirò di più: di solito è la carrozza 7, forse perché è al centro del treno, forse per misteriose statistiche karmiche.
Ci dirigiamo pertanto alla carrozza 7, che come previsto, ha una temperatura di circa 46 gradi e passeggeri in delirio. Ci sono due posti liberi nella fila da quattro sedili, la più sfigata. Anche questo è un classico.
Ci accomodiamo sereni.
In un luogo chiuso, surriscaldato e privo di ossigeno, la cosa migliore da fare è stare fermi, calmare i battiti cardiaci e concentrarsi sul proprio respiro. L’attitudine della sentinella, come consigliata nel libro Nerd Fitness, è raccomandata.
Non c’è timore d’annoiarsi: in una situazione così esplosiva qualcuno perde sempre il controllo e quindi è meglio appisolarsi per recuperare le forze fino al prossimo dramma.
Tutto il disagio della carrozza nasce di nuovo dalle regole imperiali, applicate con demenza imperiale: su questi treni, i finestrini sono un blocco unico non apribile a causa dell’alta velocità del mezzo. Però, come tra Anek e SuperFast, qualche volta il treno classificato in un modo appartiene in realtà a un modello più vecchio, che possiede ancora una parte superiore del finestrino apribile tramite chiave a brugola. Solo che è proibito aprirla, sempre a causa della velocità teorica che questi treni potrebbero avere, sempre che ci fossero dei binari adeguati che però al momento sono soltanto un progetto. Lo so, è complicato.
Sulla carrozza sui cui stiamo viaggiando c’è la vecchia versione dei finestrini, quella parzialmente apribile, ma a meno che un’orda di passeggeri con la bava alla bocca non sequestri il controllore, questi si atterrà alla regola generale della sigillatura, anche con temperature laviche e due passeggeri in coma. Nell’Impero, applicare le regole cum grano salis è faticoso e spesso non viene premiato, anzi.
Il controllore, comunque, non passa dalla carrozza in questione. Scende dal treno alle fermate e la supera a piedi per salire su quella successiva. Lo fa per due motivi: il primo è quello di evitare le richieste pressanti dei passeggeri che stanno cuocendo a fuoco lento; il secondo è perché passare dai 45 gradi di una carrozza ai 19 di quella successiva gli fa venire il mal di gola. Tanto lui scende a Bologna e poi saranno gatte da pelare del controllore successivo.
Se l’Impero fosse ancora quello di una volta, tra i passeggeri di un vagone ce ne sarebbe più di uno in possesso di una chiave inglese, di una brugola, o anche solo di pinze con becco sottile. Si aprirebbero i finestrini in un atto di ribellione popolare e tutti starebbero meglio senza inutili lungaggini. In effetti basterebbe anche rompere i vetri con il martello delle emergenze che è fissato alla parete del treno: più emergenza di così. O usare il nostro coltello svizzero che è provvisto di brugola e, a momenti, anche di sega elettrica.
Ma parliamoci chiaro: chi ce lo fa fare. Finiremmo nell’occhio del ciclone e siamo senza biglietto. Alla fine nessuno ci ringrazierebbe per l’azione eroica, perché così è diventato questo impero: un mondo in cui la gente assume importanza nella misura in cui ha da lamentarsi e da accusare gli altri all’infinito. La fratellanza non abita più qui.
Toh, spunta un controllore. Entra in carrozza con baldanza e si blocca non appena sente il calore. È giovane e ha gli occhi estremamente lucidi e arrossati. O è stanco, o ha preso una congiuntivite a causa degli sbalzi di temperatura. Oppure si droga, e questo potrebbe essere il motivo per cui è entrato in carrozza per sbaglio e si muove a scatti, senza riuscire a controllare bene la sua espressione.
Una signora del sud ben vestita lo aggredisce esibendo una tempra che oramai si trova soltanto più nell’Impero Romano d’Oriente. Il controllore tenta la solita manovra finta di aggiustamento del pannello, promettendo che tra poco farà più fresco. Prova a scappare, ma viene bloccato. La signora ha un catetere che sbuca dalla sua gonna e finisce in una valigia tenuta da un assistente. In piedi, e senza ascoltare le raccomandazioni preoccupate degli amici, inchioda il controllore dichiarando ad alta voce che è cardiopatica, i reni non le funzionano e domani dovrà essere operata a Bologna. Questo giochetto del “tutto a posto: tra un po’ farà più fresco” l’ha scocciata. No, non vuole essere spostata in un’altra carrozza, vuole sapere perché l’aria condizionata, in questo vagone i cui posti costano come gli altri, non funziona. Se fosse più in salute, dice con vigore, avrebbe già menato le mani.
Da quando nell’Impero si sono diffusi i Social Network, la moda del Bastian Contrario a Tutti i Costi, imperversa: un signore pelato aggredisce verbalmente la signora che sta protestando, perché secondo lui non dovrebbe alzare la voce con il controllore che starebbe facendo il suo lavoro.
In quella entra un mendicante, di quelli che circolano sui treni depositando sui tavolini oggetti assurdi e bigliettini. Un’altra signora pretende a gran voce che sia verificato il suo titolo di viaggio e il controllore ne approfitta per fuggire assieme al mendicante, con il quale è evidentemente in confidenza. Ad aprire i finestrini non ci pensa nessuno e si riprende a soffocare.
Questa è una perfetta rappresentazione delle complicate e irrisolvibili dinamiche autodistruttive dell’Impero.
A Bologna il controllore cambia turno e sale una brava collega che attacca il controllo delle carrozze. Se non militasse tra le fazioni nemiche avremmo pena per lei, quando entra nell’antro infernale. Non fa in tempo a controllare nessun titolo di viaggio, ovviamente. Incalzata da qualche facinoroso, arriva ad ammettere che la bombola dell’aria condizionata è scarica e sostituirla comporterebbe un ulteriore ritardo del treno. Omette di dire che il manovratore tenterà di lanciare il treno oltre la velocità consentita su alcuni tratti, per recuperare il ritardo entro i 25 minuti, affinché la compagnia non debba rimborsare nessuno. Le prossime tre ore di viaggio saranno sobbalzanti.
Messa con le spalle al muro, vessata dal problema che alla prossima fermata c’è da far scendere una persona con la carrozzella e bisognerà chiamare rinforzi, la controllora cede, e apre i finestrini con la chiave a brugola passepartout che poggerà distrattamente sul sedile vicino al nostro, giusto il tempo che noi la si faccia sparire. Serve anche sui bus e sui traghetti, fidati: la meccanica dell’Impero è tutta uguale.
A questo punto sarebbe anche ora di rilassarsi: sono quarantotto ore che dormiamo per un massimo di mezz’ora per volta e adesso la temperatura è scesa sotto i quaranta gradi. Ma nell’Impero la vita è frenetica, e lo show sempre dietro l’angolo. Nella carrozza 5 c’è un altro problema, una bambina è rimasta sola: suo fratello a Bologna le ha detto “vado a comprare le caramelle”, è sceso, e il treno è ripartito senza di lui.
La controllora coglie l’occasione del dramma umano per dileguarsi. Noi cogliamo l’occasione per fumarci una sigaretta alla fermata successiva, dove tra polizia che corre e carrelli per portare a terra una sedia a rotelle dal treno, potremmo anche allestire un falò sui binari che non ci baderebbe nessuno.
La bambina è straniera, forse albanese. Ha meno di dieci anni, è pallida come un morto e parla pochissimo. È salita a Lecce con suo fratello e dovevano arrivare ad Alessandria dove sarebbero stati accolti da alcuni parenti. Non vuole dire come si chiama e non ha un telefono.
In questi casi le regole direbbero che il minore va affidato alla prima stazione di polizia, cui spetta il compito di rintracciare i familiari. Ma l’Impero poggia su molteplici risorse e la polizia ferroviaria della prossima stazione è composta di soli due soggetti, impegnati a sorvegliare a vista una panchina. La bambina rimane sul treno affidata a una coppia di passeggeri sufficientemente anziani per risultare affidabili all’insindacabile giudizio dei pubblici ufficiali in viaggio.
Le risorse secondarie dell’Impero si attivano e la bambina è facilmente corrotta da un avanzo di pasta al forno, frutta e un goccino di vino. Sgancia a memoria una serie di numeri di telefono che vengono prontamente chiamati dai pensionati affidatari, ma lo scambio verbale risulta difficile, nella misura in cui gli interlocutori non parlano la lingua italica e nemanco il dialetto alessandrino.
Alla fermata successiva salgono sue guardie superando la nostra area fumatori che si è arricchita di numerosi adepti lungo il percorso. Nessuno ci chiede il biglietto, nessuno ci dice di spegnere le sigarette. Approfittiamo per lamentarci, inutilmente, del malfunzionamento della climatizzazione. Finita la sigaretta decidiamo di improvvisarci assistenti sociali qualificati e raccomandiamo la presa in carico della bambina, che viene di conseguenza spostata nel salottino del personale viaggiante, con un succo di frutta. Sarà consegnata ai colleghi di Alessandria.
Senza altri incidenti, senza regolare biglietto, dopo un viaggio complessivo di 51 ore, e su un treno in ritardo di 24 minuti e 50 secondi, facciamo il nostro ingresso vittoriosi nell’accampamento di Augusta Taurinorum.
Ad attenderci c’è la legione di benvenuto, che chiede giuliva: “Com’è andato il viaggio?”
Ricorda: questa è una domanda retorica. Noi viandanti si risponde sempre: “Tutto bene.”
¹Marco Sanudo, primo duca di Naxos. La sua storia è raccontata nel libro: Sull’isola di Naxos c’è un tesoro
²François le Clerc, pirata. Un accenno alla sua biografia e in questo racconto
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