Il ritratto perduto che Art Kane fece alla mafia. In ricordo di Giovanni Falcone
La prima settimana di Giugno del 1992, a Terrasini, piccola località costiera vicino a Capaci, si tenne l’annuale “Settimana della fotografia internazionale”.
Il residence Città del Mare e le sue stanze a picco sulla scogliera stavano per essere invasi da prestigiosi fotografi, allievi di ogni nazionalità e decine di nervosissime modelle destinate ai setting più strani.
Ero arrivata a Palermo in treno e un autista del residence venne a prelevarmi alla stazione.
Nella mattina profumata e piena di sole imboccammo l’autostrada, mentre io mi godevo il panorama dal finestrino. Sapevo cosa era successo a Giovanni Falcone pochi giorni prima, ma non sapevo che stavo per passare nel luogo esatto in cui era stato ucciso.
All’altezza di Capaci la strada si fece improvvisamente deserta e silenziosa: l’autista manovrò per passare sul pezzo d’asfalto a lato di un cratere enorme, che invadeva entrambe le corsie.
Non c’era nulla intorno: nessuna persona, nessun rottame, neppure un cartello. Solo un nastro da cantiere, solo rocce. E un fine pulviscolo giallo stagnante che faceva ombra su tutto.
Non saprei definire meglio il silenzio greve di disastro irreparabile che attraversammo scivolando via piano. L’autista non disse nulla e continuò a guardare la strada. Io guardai il cielo cercando un segno di vita, un gabbiano almeno, ma era tutto vuoto.
Era la seconda volta che andavo a Terrasini. La prima era stata nel 1987, quando tra i fotografi invitati a tenere i workshop c’erano Franco Fontana, Jean-François Bauret e Art Kane.
Io, giovanissima, ero una delle tre modelle assegnate a Jean-François Bauret.
Art Kane stava in disparte e leggeva Stephen King tutto il giorno. Stupiva con le sue sortite alla ricerca di posti non convenzionali, verso i quali partiva all’improvviso inseguito di corsa dai suoi allievi. A cena piegava i cucchiaini col pensiero come gli aveva insegnato il suo amico Uri Geller, e metteva sempre in agitazione il personale.
Un giorno si fece assegnare l’autobus grande del residence, sequestrò tutte le modelle che riuscì a trovare a colazione, e diresse la carovana proprio a Capaci, nella piazzetta principale. Lì fece scendere tutti e ordinò alle modelle di spogliarsi, attaccando a fotografare le espressioni basite dei vecchietti con la coppola, seduti sulle loro sedie di legno davanti alla porta di casa.
Ricordo che mi vergognai un po’ per loro e che mi irritò il fatto che questa gente, inconsapevolmente, stesse interpretando perfettamente lo scenario di una Sicilia che credevo persa nei film d’epoca.
Non so dove siano finite le centinaia di diapositive che ritraggono quel momento, ebbi occasione di vederne qualcuna al volo subito dopo lo sviluppo ed erano affascinanti.
Dopo questa sortita, che fu velocissima, tornammo al residence, sempre di corsa. Art Kane mi si avvicinò furtivo: – Tu, sei ballerina vero? Mi serve una ballerina per domani mattina, ci vediamo al parcheggio alle cinque. –
Ed era già sparito prima che potessi fare altre domande.
All’alba del giorno dopo, in un casale abbandonato della campagna siciliana, mi fece appendere con una corda al tetto di un fienile. I fotografi che bramavano la lezione sui segreti della potenza artistica di Art Kane si ritrovarono a fare le comparse: spingevano il mio corpo da impiccata affinché dondolasse in mezzo a loro, mentre camminavano senza meta dentro il fienile.
Anche di queste diapositive, che non potevo certo chiedere come souvenir, non ho mai conosciuto il destino.
Slegata e rimessa a terra dopo ore, Art Kane mi disse: – Mi servi ancora al tramonto: tu e l’autista. –
A bordo del piccolo pulmino blu del residence, con un autista in divisa e terrorizzato, ordinò che ci si dirigesse a caso sulle colline e poi si mise a leggere Stephen King sdraiato sui sedili. Io ero molto a disagio e iniziai a truccarmi con uno specchietto da cui ogni tanto controllavo i suoi movimenti.
Improvvisamente vide un campo pieno di fiori gialli: disse all’autista di fermarsi e gli ordinò sgarbatamente di togliersi dai piedi. Si mise a osservare, aspettando. Per la prima volta sembrò rendersi conto della mia presenza: – Non mi piace come ti trucchi: tu sei Cenerentola, non la Mafia. – E così dicendo mise le mani sulla mia faccia spalmando gli strati di trucco fino a trasformarmi in una maschera grottesca, per poi dichiarare che andava benissimo così.
La strada della collina era completamente deserta. Con la giacca scura dai bottoni dorati e il cappello con la visiera – che ora teneva in mano contro il petto – l’autista si era messo a raccogliere fiori nel campo, pochi metri più in là, tanto per tenersi occupato. Sembrava un becchino.
Art Kane lo guardò stringendo gli occhi e si mosse velocemente: montò un Fish Eye sulla macchina fotografica, scese dal pulmino, lasciò lo sportello del guidatore aperto e ordinò che mi incastrassi tra la leva del cambio e i sedili, con la testa sotto la pedaliera.
Entusiasta e saltellante, scattò immagini deformi di quello che sembrava uno strano incidente, con il corpo della vittima in una posizione innaturale e un autista-becchino sullo sfondo, intento a cogliere fiori nella luce rossa del tramonto.
Anche questo durò pochi minuti, poi lui volle tornare subito al residence.
Durante il tragitto del ritorno si mise ad ammirare la campagna ed era la prima volta che lo vedevo guardare fuori dai suoi libri. Senza voltarsi mi disse:
– Queste foto le dedico alla vostra tradizione della Mafia, Cinderella: qui io la sento. L’odio e il coraggio restano nei luoghi per tanto tempo, anche dopo la morte di chi li ha provati. –
Non ho mai visto quelle diapositive e non ho mai saputo che fine avessero fatto.
Art Kane si è sparato, il 3 Febbraio 1995.
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Su Art Kane: https://en.wikipedia.org/wiki/Art_Kane https://www.artkane.com/
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