La Tailandia non è un Paese particolarmente famoso per il rispetto dei cani. In molti posti dell’Asia, e non solo, i cani sono considerati come da noi i piccioni: stanno in strada, malconci, sopravvivono di spazzatura, finiscono sotto le auto, e quando danno troppo fastidio o crescono eccessivamente di numero, sono eliminati.
La Soi Dog
Fundation si prende cura di oltre 500 cani, ha più di un milione di followers su
Facebook e può contare su donazioni straordinarie, che non ho mai visto ricevere da nessun altro.
Il fondatore di Soi Dog è un signore inglese di una certa età con il gusto per la lotta sociale. Negli anni è riuscito a farsi rispettare dalle autorità tailandesi e a realizzare persino delle cliniche mobili che si spostano per il Paese, sterilizzando e curando migliaia di cani e gatti. Non contento, rischia la vita con una certa regolarità contrastando il commercio e il consumo illegale di carne di cane, che si svolge soprattutto al confine con la Cambogia.
Non è stato facile convincere il tassista a portarmi verso una zona priva di alberghi: non capiva dove volessi andare. Quando gli ho chiesto di girare seguendo l’indicazione “Soi Dog Shelter” si è agitato, tentando di spiegarmi che non si trattava di un hotel.
Con lui sempre più preoccupato siamo arrivati ai cancelli del canile, che si trova in un’area di terreno brullo e pieno di pozzanghere, sotto un ripetitore. Il cancello era aperto e l’abbaiare dei cani era assordante.
Un cane alto, grasso e nero, con un pelo molto strano, si è avvicinato fissandoci senza scodinzolare. Il tassista, terrorizzato, ha chiuso i finestrini e blindato le porte del taxi, chiedendomi per la seconda volta se ero proprio sicura di voler scendere lì.
Quando vedo il cane da vicino, che continua a fissarmi con i suoi occhi grigi attraverso il finestrino, mi accorgo che non è un cane nero: è abbronzato. Non ha pelo, e la pelle glabra, unta di crema solare ad alta protezione, è scurita dall’esposizione al sole. Si tratta di uno dei pochi cani che circolano liberamente nel piazzale, grazie al suo carattere pacifico e alla totale assenza di dentatura*, cose che comunque non gli hanno mai impedito di svolgere la sua funzione di portiere attento.
Pago il tassista e scendo. Lui, sempre più confuso, fissa a bocca aperta la Limousine con autista e vetri scuri che ha appena parcheggiato, e da cui scende una ragazza russa in vestito da sera viola e lucente. I suoi due aiutanti trascinano enormi sacchi di crocchette per cani verso le costruzioni al centro del piazzale.
Io seguo, non voglio perdermi la scena.
La russa calza stivaletti di raso con tacchi a spillo di metallo, e il suo vestito accarezza le pozzanghere. S’inchina a ogni cane che incrocia e va dritta verso la ragazza occidentale che è uscita da uno degli edifici del canile. Quando le arriva vicino, unisce le mani al petto e piega il busto in un saluto che più che tailandese mi pare degli hippy del Goa, ma non sento se le scappa anche un Namastè. Spiega in inglese che risiede all’hotel X, che ha saputo del canile, che benedice tutti per la loro bontà d’animo e che reca in dono oro, incenso, crocchette e un assegno.
Vorrei correre indietro a recuperare il tassista per le orecchie e filmare la sua espressione, ma è sgommato via. A questo punto ho la bocca spalancata anch’io.
La ragazza occidentale non fa una piega: è alta, serissima, un po’ robusta. Ha gli stivali infangati, un caschetto di capelli castani e due occhi verdi che tendono a soffermarsi nei tuoi un po’ troppo a lungo. Con un cenno chiama qualcuno dall’edificio e arrivano due ragazzi tailandesi che afferrano i sacchi di crocchette e invitano la signora a entrare.
Occhi Verdi sposta quindi lo sguardo su di me, e lì lo pianta, senza dire nulla. Balbetto che sono venuta per visitare il canile e… aiutare… se non… se serve… se non disturbo.
Lei mi dice di farmi un giro, appena finiscono con la russa mi manda qualcuno.
Io ho studiato la pagina Facebook di Soi Dog e il loro sito. A parte le foto di cani recuperati in condizioni spaventose, ho visto che dovrebbe esserci una clinica molto attrezzata dove lavorano veterinari tailandesi, un gattile, alcuni cani che sono diventati delle star per la loro triste storia finita bene, e uno stagno circondato da panchine di pietra.
Le panchine voglio proprio vederle, perché la pagina Social di Soi Dog ogni tanto pubblica un trafiletto a proposito di un vecchio cane deceduto lì al canile dopo una lunga vita, prima di stenti e poi di tanto amore: scrivono che gli hanno costruito una panchina alla memoria. Io lo devo ancora vedere un canile del terzo mondo che spreca soldi a far costruire panchine commemorative per cani intorno a uno stagnetto: secondo me raccontano un sacco di balle ai donatori.
Mi aggiro cauta sotto il cielo perlato e afoso dei tropici. In recinti enormi e con il pavimento di cemento, ci sono decine di cani. Ci sono pedane di giunco protette da tettoie dove possono ripararsi all’ombra e dove sostano a gruppetti. C’è uno scambio continuo di annusate, code alte, rincorse: sembra un’allegra piazza di paese. Quando mi avvicino alle reti alte oltre tre metri, molti ci si avventano contro abbaiando e scatenando un fracasso insopportabile.
Presto arriva un ragazzo tailandese timido, che parla un po’ d’inglese. Mi accompagna in ufficio, dove mi fa fare un piccolo tour: ci sono alcuni tailandesi seduti al computer che si occupano della contabilità e di aggiornare il sito e la pagina Facebook di Soi Dog. Poi ci sono veterinari e infermieri, personale che va e che viene. Lì mi spiegano le possibilità di lavoro dei volontari: portare a spasso i cani e far giocare i cuccioli, tanto per cominciare.
Posso anche pranzare lì: viene il catering da fuori, riso con pollo o riso con pesce, costa pochissimo ed è quello che mangiano tutti, seduti per terra all’aperto, nella loro pausa pranzo di 15 minuti.
Mi accorgo che i volontari sparsi per il canile sono numerosi. Parlo con una ragazza olandese che si è fatta il suo mese di vacanza lì dentro con un orario 8-19, pagando una stanza in città e andando al mare solo due volte, per portare a spasso dei cani.
Io una stanza la devo ancora trovare: sono arrivata a Phuket con l’autobus da Bangkok, ho fatto una doccia a casa di conoscenti e sono partita per il canile più figo del mondo. Non dormo da almeno 40 ore, ma dopo un po’ non te ne accorgi più, vivi solo in uno stato di liquorosità cerebrale.
Chiedo se posso portare a spasso qualche cane subito.
Con il ragazzo tailandese e due corde da roccia robuste partiamo verso i recinti passando davanti a una zona di gabbie singole. Lì ci sono i cani malati o in convalescenza che guaiscono di tristezza, e altri cani che sono stati isolati in attesa di essere spediti ai loro adottanti: è necessario che si abituino a stare fuori dal branco.
Le adozioni ammesse da Soi Dog si limitano ai Paesi di Canada, Stati Uniti e Nord Europa (no, in Italia, no). L’adottante deve presentare una serie di referenze ed è necessaria una catena di accompagnatori per il trasporto aereo dell’adottato. Traducendo: per adottare un cane, spesso malconcio come pochi, c’è gente che paga oltre 400 euro per il suo volo, e ci sono passeggeri accompagnatori volontari, trovati con un annuncio su Internet, che si occupano del suo trasferimento dalla Tailandia al Paese di destinazione. Non è un’impresa facile, ma Soi Dog ha un’organizzazione perfetta: fanno loro il check-in del cane e forniscono tutta la documentazione e la logistica necessarie.
Mi domando quanti cani, cresciuti nelle strade calde della Tailandia, abituati a territorio, lotte di branco e rifiuti, possano affrontare da adulti un cambio di vita che comporta guinzaglio, climi freddi, camini e sofà. Comincio a capire che chiunque si occupi di questi cani li conosce profondamente, uno per uno.
Quando io e il mio accompagnatore tailandese ci avviciniamo ai recinti con le nostre corde, molti cani si avventano contro la rete abbaiando eccitati: sanno che c’è in vista una passeggiata e sanno anche che è un onore che non si può tralasciare.
In ogni area recintata, che arriva a contenere oltre 50 cani, c’è un essere umano accucciato sul cemento. Sono tutti birmani, mi spiegano. Sembrano vecchi e non lo sono, hanno la pelle cotta dal sole, i piedi nudi, e vestono con tute larghe e scolorite. Abituati a essere la classe povera e sfruttata dei tailandesi, i birmani spesso vivono in baracche o per strada, proprio in mezzo ai cani. Parlano poco, chiedono nulla, ma vogliono essere lasciati in pace.
Scopro così che Soi Dog, oltre a dare lavoro qualificato a molta gente del posto, offre la possibilità ai clochard birmani di continuare a dormire all’aperto, se lo desiderano, e di stare con i loro amici, i cani, mentre sono comunque pagati e nutriti regolarmente.
Il tailandese dice poche parole alla donna birmana del recinto dove ci siamo fermati, che sedeva in un angolo all’ombra, apparentemente addormentata sotto il suo cappello. Il suo ruolo, nel mondo degli umani, è quello di controllare i cani e di pulire il pavimento di cemento con scopa, paletta e idrante. Il pavimento infatti è perfettamente pulito. Nel mondo dei cani però, il ruolo dell’essere umano nel recinto è quello del capo-branco assoluto: 60 cani di grossa taglia, abituati a difendersi e perlopiù discendenti da cani selvatici, si girano muti a fissare speranzosi la birmana in attesa del suo verdetto. Lei si alza agilmente e li osserva: ne indica due con cenni precisi della mano e mentre gli altri si allontanano in silenzio e delusi, i due cani prescelti attaccano ad abbaiare felici e a fare girotondi vorticosi, pavoneggiandosi.
Lanciamo le corde oltre la rete d’acciaio, lei gliele mette al collo e ce li passa scalpitanti aprendo il cancelletto di ferro, sulla soglia del quale si piazza risoluta, casomai qualcuno degli altri osasse sfidarla.
Capisco che dovrò avere polso fermo: questi non sono cagnolini che hanno perso la loro padroncina.
Il ragazzo tailandese mi consegna entrambi i cani e mi indica un percorso. Se ne va dicendomi: “Torna poi indietro passando da questo corridoio”. “Qua-ndo?” Dico io, strattonata dall’entusiasmo dei due energumeni e passando davanti a un centinaio di cani che si avventano contro le reti abbaiando ai miei, che non tardano a rispondere, cattivi e arroganti: loro hanno il premio, agli altri credo stiano urlando parolacce di scherno.
Il ragazzo mi sorride: “Te lo diranno i cani”, e mi lascia con le mie preoccupazioni.
Non ho molta scelta se non seguire le due bestiacce, a cui non importa nulla delle mie carezze e che mi annusano distrattamente. Tirano verso un percorso che conoscono bene e che è di poche centinaia di metri. Eccolo lì lo stagno artificiale con l’erba intorno che ho visto nelle foto. Non ci credo: ci sono davvero le panchine.
Mentre corro trascinata o vengo bloccata all’improvviso perché c’è un odore interessante, ho modo di leggere alcune targhe: “In loving memory of Nadine – data – gentilmente offerta da Mrs. Jones, Edimburgh, Scotland”.
Allora è vero: la signora Jones, adottante a distanza di Nadine, le ha regalato una panchina quando questa è morta senza mai avere avuto l’onore di dormire su uno dei suoi tappeti. Alcuni muratori tailandesi sono stati pagati per costruire una panchina su cui non si siede nessuno, in un posto pieno di cagnacci ringhiosi. Probabilmente raccontano ancora la storia al bar.
Ci sono molte panchine, ma i cani non mi permettono di soffermarmi su tutte. Anche sopra ogni recinto del canile c’è una targa, che dice: “Quest’area è stata costruita grazie alla generosa donazione di Miss Vattelapesca, Ontario”. Prima della passeggiata avevo visito la costruzione del gattile, anch’essa realizzata grazie alle donazioni, dentro la quale c’è una clinica con tavoli d’acciaio pulitissimi e l’attrezzatura di una sala operatoria. Ci sono alcune stanze piene di giochi per gatti, ponti, cuscini. Tutto pulito e curato.
I gatti tailandesi sono molto belli: sottili, con gli occhi allungati e grandi orecchie. A molti qui manca un pezzo, ma sono adottati anche loro oltreoceano con facilità, grazie ai modi cortesi e azzeccati del loro Patron, che li aiuta tramite una campagna web costante e ben congegnata.
I due cani che mi stanno trascinando in giro, entrambi con numerose cicatrici sul corpo, sono probabilmente dei bravissimi guardiani ma non sono certo abituati alle carezze, che non hanno mai ricevuto in vita loro. Non diventeranno mai cani da salotto. Sono puliti, però, e il loro capo birmano li conosce come nessun altro: al primo cenno di disagio fisico o psicologico scatta l’assistenza.
Mi hanno spiegato che l’introduzione in questi grossi gruppi di un nuovo arrivato è sempre una faccenda delicata: l’umano nel recinto è l’elemento che rende questo possibile senza incidenti, grazie alla sua posizione di privilegio all’interno del branco.
Finito il giro, i miei cani attaccano a tirare decisi per tornare indietro. Capisco che là c’è la loro famiglia, i loro amici, i nemici da sfidare, capi e sottoposti: un’intera società di cui fanno parte. E mi rendo conto che la vita ideale di un cane è questa: il branco, le sottili regole, le sfide, cibo assicurato e un premio extra ogni tanto per farsi belli.
Io che volevo riempirli delle coccole stucchevoli di cui nessuno qui ha bisogno, tranne me, li riconsegno al loro capo, guardandoli sostare orgogliosi al centro dell’attenzione di tutti gli altri, che si precipitano ad annusarli.
Mi dirigo penosamente verso il recinto dei cuccioli in cerca di quello che pretendevo di dare.
Il recinto dei cuccioli è festoso e finalmente tutti mi corrono incontro. Ci sono palloni, bastoni, giocattoli. C’è anche una donna inglese che ha fatto un salto in giornata, volando da Londra: li coccola per qualche ora e poi riparte. È tutto normale.
Annuncio in ufficio che se hanno una stanza nei dintorni mi fermerò qualche giorno. Non ce l’hanno, ma il ragazzo tailandese mi accompagnerà a Phuket in cerca di qualcosa, finito l’orario di lavoro. È una sua iniziativa: in questo posto hanno bisogno di volontari quanto io ho bisogno di un trattore. Faccio un calcolo a spanne delle donazioni che ricevono e ritengo che sia impressionante. Se lo meritano, comunque.
Prima di andare via scopro che Occhi Verdi vive nella casa che c’è lì dentro e che ci tiene comunque cinque o sei cani, che non riuscivano a stare in gruppo: sono cani abbandonati da occidentali che rientravano in patria. Non hanno l’istinto di branco o ne vengono sopraffatti psicologicamente. Si isolano, non instaurano rapporti, non mangiano e finisco per lasciarsi morire. Sono tenuti in casa quindi, come i cani dei paesi ricchi, e dormono sul divano, cosa che alla maggior parte dei loro colleghi – molti dei quali recuperati adulti dalle strade perché in condizioni di non potere più sopravviverci – forse non piacerebbe.
Passo a salutare i cani anziani e tranquilli, che sono in un recinto a parte, con l’erba, e poi salgo su uno dei furgoni con l’insegna di Soi Dog.
Il mio amico tailandese vive a Phuket con la sua ragazza e un paio di cani, naturalmente. È felice di lavorare lì, proprio felice: ama i cani e non è una cosa comune dalle sue parti.
Siccome io sono senza auto, se voglio mi passerà a prendere tutte le mattine alle 9 e mi riporterà in città alle 17.
Quando arriviamo dall’affittacamere tailandese vicino a casa sua, però, non ci sono più stanze libere: il mio accompagnatore rimane mortificato e incerto sul da farsi. L’affittacamere è scortese e non vuole fornire indirizzi alternativi.
Un occidentale, che ci ha osservato dalla veranda per tutto il tempo, si alza e mi viene incontro. È uno di quelli che ci tengono molto a definirsi Expat e che avrebbero girato il mondo, soprattutto quello del turismo sessuale. Sono tutti dei manager di non sanno bene cosa, hanno delle chiazze rosa sul cranio pelato e gli occhi lucidi degli insetti. Insomma, non mi piacciono, e non piacciono neppure al mio amico tailandese a quanto pare, perché arretra con la testa bassa facendomi cenno di andare.
L’Expat vuole sapere di dove sono e si rigira in bocca la parola “italiana” come se fosse cibo. Decide poi di concedermi l’informazione e mi da il nome di un altro affittacamere, “pulito, economico e senza gentaglia” in omaggio forse alla mia bellezza ora per lui esotica o forse al suo passato di essere vivente prima di diventare uno zombie dei vicoli.
Si rivolge al mio amico tailandese nella sua lingua, e con tono di comando gli spiega dove portarmi.
Risaliamo in furgone e il tailandese è molto imbarazzato. Lo rassicuro con quel poco di inglese che capisce e sistemiamo tutto con sorrisi e cenni. Sono certa che l’affittacamere è buono e in effetti lo è. Anche lì però non spiccicano una parola d’inglese, per fortuna che sono accompagnata.
Sono distrutta ma faccio un giro camminando verso il mare: motorini smarmittati ovunque e cani sul ciglio della strada. La spiaggia è coperta di lettini e il lungomare è pieno di bar e negozi. È Gennaio, ancora alta stagione: girano coppie di giovani russi tatuati in viaggio di nozze e vecchi occidentali con ragazzine del luogo. L’Italian Pizza e il Mojito sono ovunque.
Mangio un cocco e vado a nanna sognando i miei cani di Soi Dog. Chissà se la notte c’è silenzio o è tutto un ululare.
Il giorno dopo mi faccio trovare in strada puntale. Il mio amico passa a raccogliermi e trascorro il breve tragitto a farmi istruire sui mazzetti di foglie verdi appesi ovunque all’interno del furgone: è basilico tailandese, una pianta che porta fortuna e dal profumo buonissimo, mi spiega. Il profumo di quei mazzetti a me pare esattamente quello di una salsiccia: ai cani deve sembrare delizioso.
Al canile c’è fermento: sterilizzazioni in corso, nuovi arrivi di cani malconci e impauriti, walkie talkie che gracchiano, visitatori che affondano le loro ciabattine nel fango e comprano la maglietta di Soi Dog.
Allatto un po’ di gattini con un biberon e li rimetto nella cuccia con la loro mamma fasciata, reduce da una pentolata di acqua bollente: non può camminare e ha gridato per tutto il tempo in cui i suoi cuccioli sono stati lontani da lei.
Aiuto a cambiare la fasciatura di un grande bassotto randagio, che è stato aggredito al mercato da qualcuno che gli ha ripetutamente accoltellato gli occhi. Passo da Shiver, il famoso cucciolo recuperato tremante e ricoperto di croste, che ora è un giovane adulto argentato un po’ diffidente. È grazie alle donazioni ricevute per la sua storia che adesso esiste un recinto per i cuccioli con il suo nome, dove lui gira impettito, unico adulto seguito al trotto da tutti i piccoli. Non avevo mai visto un cane tirarsela in quel modo.
Quando gli operatori capiscono che non sono troppo schizzinosa, mi danno un paio di guanti di lattice e una garza pulita, promuovendomi ai cani con problemi di pelle. Non ne sono felicissima, perché so quanto soffrono e quanto possono essere nervosi: hanno tutti dei denti da squalo, ma nessuno lì sembra preoccuparsi e io nascondo la paura. Lo faccio così bene e sono così curiosa di tutto, che il mio amico tailandese decide di farmi un regalo speciale: nel pomeriggio accompagnerò l’accalappiacani, c’è una cattura da fare.
La gente di Phuket sa che il canile esiste, e dopo un’iniziale diffidenza, molti ora preferiscono chiamare Soi Dog piuttosto che uccidere un cane se lo vedono malato o ferito. Altri si offrono timidamente di tenere temporaneamente dei cuccioli da allattare. Si tratta solitamente di donne povere e sole a cui viene passato tutto l’occorrente per prendersi cura dei cuccioli, e con la scusa, anche qualche vettovaglia.
Monto sul furgone con un birmano dall’aria feroce e i modi sbrigativi. Ha le mani spesse e callose, e guida a piedi nudi. Non parla inglese, ma io mi ricordo ancora il nome del basilico alla salsiccia, e sul suo fantastico profumo ci facciamo grandi annusate e sorrisi compiaciuti.
Quando arriviamo al cortile dove è stato imprigionato il cane che dobbiamo catturare, però, smetto subito di sorridere: non avevo mai visto un cane idrofobo, prima. È grosso, ha gli occhi velati, la bava alla bocca, perde sangue dalle orecchie e continua a inciampare senza equilibrio. Urla e ringhia in modo così minaccioso da far accapponare la pelle.
Il birmano smonta dal furgone come se niente fosse e se ne frega se lo seguo o meno. Io scendo di riflesso, ma me ne pento subito: il cortile è di tre metri quadri e il tailandese che ci ha chiamati ci chiude dentro, fuggendo poi a gambe levate. Questa volta una vocina mi dice che se le agenzie turistiche ti piazzano nei resort e tutti si limitano ad andare in spiaggia, un motivo c’è.
Il birmano mette una mano in una tasca sdrucita, mentre si muove dondolando come un cobra davanti al cane idrofobo. Tira fuori una stringa di scarpa, tutta ciancicata, annodata a cappio. Con una mossa semplice, fluida e velocissima, avvicina la mano al muso del cane e lancia il suo piccolo lazo: ha un solo tentativo a disposizione per bloccargli le fauci, ma sono sicura che non sbaglia mai.
Messa la museruola di fortuna la tira forte, il cane perde l’equilibrio, crolla, e lui lo prende in braccio. È successo tutto in un minuto.
Il cane ringhia ma non riesce a opporsi e gli occhi roteano nelle orbite. Aiuto a trasportarlo: puzza come un cadavere e scotta per la febbre. Sul retro del furgone il birmano gli lega le zampe e gli bagna il muso.
Partiamo, e il tragitto si fa in silenzio, senza sorrisi. Ho la testa divisa a cubetti, tra l’ammirazione, l’allarme, l’offesa per il rischio che mi ha fatto correre, la voglia di raccontare questo a qualcuno, le domande sulla sorte di questo cane, sulla sua malattia. Per fortuna non parliamo la stessa lingua, sennò sono certa che nell’agitazione gli chiederei qualcosa di stupido, tipo: “Sei vaccinato?”.
Arriviamo a un garage: dentro ci sono gabbie di ferro che ospitano cani molto malati e infettivi. Capisco che il veterinario, uno tosto, passerà più tardi.
Il birmano slega il nuovo paziente, lo fa rotolare in una delle gabbie e con mossa magica gli toglie il laccio dal muso prima che lui abbia il tempo di morderlo. La povera bestia giace su un fianco, sfinita e vinta. Gli altri si muovono appena.
Il birmano apre una gabbia per volta e con mosse delicate ed efficienti cambia cibo e acqua, pulisce, mette un po’ di segatura.
Imparo così qual è l’atmosfera di un lazzaretto.
Però c’è un gatto. Bianco e rosso, libero e in salute, ci osserva accucciato sulla grata superiore di una delle gabbie. Il cane sotto di lui brontola minaccioso, ma il gatto è serafico. Lo indico al birmano, che lo guarda facendogli un cenno della testa, come se si trattasse di un vicino di casa. Lui stringe gli occhi un attimo. Niente cibo per lui: è lì per simpatia. Ce ne andiamo chiudendolo dentro, tanto esce dalla parte superiore che è aperta. Capisco che è in attesa dei topi attirati dal cibo nelle gabbie.
Il birmano ora è il mio nuovo mito. Mi riporta al canile senza una parola e quasi non mi saluta. Di lì a due mesi tornerà a vivere in strada, per sua scelta, rinunciando allo stipendio, a un tetto, ai pasti sicuri e a guidare un furgone.
Lo staff di Soi Dog lo saluterà regalandogli un cellulare per le segnalazioni e ringraziandolo per l’impagabile servizio con una sua foto e un post sulla pagina Facebook, che raccoglierà migliaia tra like, cuori e messaggi di affetto in molte lingue, che il loro destinatario non vedrà mai.
Non ha voluto denaro, e questa volta ci credo.
La pagina del sito di Soi Dog negli anni ha perso romanticismo, è diventata sbrigativa e ora assomiglia a quella di molte altre organizzazioni simili. Rimane però una realtà diversamente eccezionale: la quantità di aiuti, collaborazioni, pubblicità, eventi, donazioni e adozioni che queste persone riescono a concentrare è impressionante. Leggendo attentamente i link, guardando i video, le foto e le storie (qui il
film), credo che molti di coloro che vogliono aprire un’organizzazione simile troverebbero qualcosa da apprendere.
E se una volta dovesse capitare di passare da Phuket, per caso o apposta, com’è stato per me, questa gita può essere davvero interessante, non solo per chi ama gli animali.
I viaggiatori di ritorno in Occidente, disposti ad accompagnare cani che hanno avuto una vita in molti casi più avventurosa della loro, sono sempre i benvenuti. Il sito di Soi Dog è
QUI*La condizione glabra del cane dipende da una tara genetica, come spiegato in Ti presento il Cane Nudo, chiamato anche Chien de Fer, Viringo o Xoloitzcuintle
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