Un giardino tropicale, un Masai e una lezione sulla depressione
La cosa più bella, è potersi sedere comodamente in un giardino tropicale circondati da fiori e foglie grandi che oscillano delicatamente, senza neppure una zanzara nei dintorni. Sembra impossibile, invece in Tanzania certi giorni è così, nella stagione secca. Tutto è luminoso e il cielo di lì è più vasto e profondo, persino nelle città caotiche. Gli esseri viventi sono più piccoli in confronto al resto della natura, e lo sentono.
Qui è più facile dimenticare se stessi. Le urgenze scompaiono e la lettura di un libro, anche di argomento del tutto fuori contesto, diventa un’esperienza che nei ricordi futuri si porterà appresso un sottile profumo, tiepido e dolce.
Sono le dieci di mattina, nel giardino tropicale, e io ho sistemato i cuscini della mia poltrona dondolante. Ho portato con me il tè della colazione e mi sono messa a leggere una pubblicazione recente sulla depressione.
Intorno a me c’è un piacevole e frusciante via vai. Il giardiniere rastrella il terreno e fa cadere le foglie più pericolanti dalle palme, a volte salendo fino in cima alla pianta: si arrampica velocemente usando i piedi nudi e una corda, che avvolge intorno al tronco. Da lassù tira un colpo secco di machete e la foglia cade con un tonfo. Io ogni volta m’incanto a osservarlo.
Se in Italia avere il giardiniere è considerato uno status symbol e ce lo rappresentiamo come colui che zompetta tra le aiuole armato di forbicine, in questo Paese la prospettiva è molto diversa: ripulire costantemente i sentieri che portano all’ingresso di casa dal fogliame che si riproduce copioso è l’unico vero modo per allontanare i serpenti e altri animaletti pericolosi. Prevenire la caduta di frutti pesanti, di foglie lunghe oltre un metro, rigide e dai margini seghettati, è indispensabile. I giardinieri di qua sono atletici e fanno un mestiere rischioso. Curano i fiori come passatempo.
Il giardino è recintato da alti muri di cemento sui quali si srotolano spirali di filo spinato. Questa è la triste testimonianza del passato e del presente di una situazione politica e sociale difficile: difficile da capire, difficile da gestire, difficile da guarire.
In aggiunta a questo, in ogni vera casa, di bianchi o di neri che sia, ci sono quasi sempre dei guardiani, più o meno armati. La casa dove abito io è una vecchia villa che è stata parzialmente convertita in una scuola di musica per ragazzi di strada: dal lunedì al venerdì, dalle nove alle cinque, è tutto un frastuono di tamburi, tromboni e pianoforti. I ragazzi si aggirano sorridenti cantando stonati le loro canzoni preferite. In molti sognano di diventare celebrità della musica pop.
Se ho una bibita appoggiata da qualche parte, sparisce in un attimo. Non riesco neppure ad arrabbiarmi perché sono tutti così maledettamente allegri che non si può far altro che ridere.
Mentre gli studenti vanno e vengono, i guardiani della casa, che sono dei Masai e vivono in una casetta nel giardino, dormono. Al tramonto iniziano il loro lavoro di sorveglianza e il sabato e la domenica girano anche di giorno.
È proprio la mattina di quel sabato che K2*, uno dei guardiani Masai che parla un po’ d’inglese e che segue ogni mia attività con grande interesse, si ferma a un metro e mezzo da me con l’immobilità tesa di un cervo che fiuta l’aria, e mi fissa negli occhi.
Ho imparato che quando fa così è perché vuole parlarmi e questo è un suo modo rispettoso di chiedere udienza. Lo invito vicino a me con un gesto, fermo il dondolo e ci accucciamo entrambi a terra.
– Cosa guardi nel tuo telefono? È un video? —
– No, sto leggendo un libro: guarda! — Gli mostro le pagine scritte che scorrono sullo schermo del telefono fino a tornare alla copertina colorata sulla quale si legge il titolo.
– Chi è Depression? –
– Depression è una malattia, questo è un libro che parla di questa malattia e di come curarla. –
K2 sorride paziente: ha capito che io sono una specie di dottore e ha provato più volte a spiegarmi che i Masai hanno delle pozioni per la cura di molte malattie. In particolare mi ha rassicurato sulla malaria, che secondo lui si guarisce bevendo il latte di cocco fresco.
La sua gente vive sugli altopiani al confine tra Kenya e Tanzania e alcune associazioni umanitarie distribuiscono zanzariere intrise di insetticida, ma loro hanno notato che quando le usano trovano molte zanzare morte intorno al giaciglio, la mattina. Questo li spaventa: non si può dormire circondati da un velo che dà la morte. I bambini potrebbero morire anche loro.
Così fingono di accettarle, sennò quelli si offendono e non portano più neppure altre cose utili, ma poi le bruciano.
K2 ha un sospetto che lo rode: i bianchi, con le loro stregonerie come le zanzariere avvelenate, stanno cercando di sterminare la sua gente. Di me si fida, perché secondo lui sono buona, quindi me l’ha detto. Ho cercato di spiegargli che le zanzariere purtroppo non bastano per gli elicotteri che girano da quelle parti, che anch’io spruzzo l’insetticida sulla zanzariera e che la malaria se non è curata è mortale, ma lui mi ha risposto serafico che questo è quello che crediamo noi bianchi. Basta bere latte di cocco.
Anche per l’AIDS gli stregoni hanno una pozione fatta con delle foglie segrete della foresta; quando lui torna a casa beve questa pozione per tre giorni, non mangia e non beve nient’altro. Questa pozione procura vomito, diarrea e fa sudare. In questo modo si espellono tutte le malattie.
Quando ascolto cose simili sono pervasa da molte sensazioni, non ultime la disperazione e l’impotenza: chiunque pensi che aiutare l’Africa sia solo questione di denaro o buona volontà non sa quanta gente, decisamente eroica, si sia schiantata sfinita contro una cultura così ingenua e al tempo stesso così radicata e potente. Se una donna ha l’AIDS, basta “prenderla da dietro” e il pericolo è scongiurato. I bambini devono mangiare solo riso bollito fino a quando non mettono i denti. L’Ugali, una polenta bianca molto povera, è il cibo più nutriente. Negli ospedali si muore. Quando ti fanno l’esame del sangue ti iniettano le malattie, infatti dopo ti senti debole. In America vendono i bambini nei negozi. Il preservativo fa venire le malattie: basta metterlo al sole che cambia colore, e questo è male. Se un bambino ha la diarrea bisogna non dargli più da bere. La mano mozzata di un albino è il più potente portafortuna che esista. Le persone possedute dal demonio (epilettiche o con convulsioni) è meglio che siano uccise, perché se riescono a fiatare in bocca a un bambino glielo passano.
Le credenze sono infinite e aprono scenari d’orrore che non voglio più ascoltare.
Osservo K2, che mangia soltanto un piccolo piatto di polenta la sera, guarda con sospetto e rifiuta qualunque altro cibo o bevanda, è secco e muscoloso e sopravvive a un avvelenamento periodico a cui si sottopone volontariamente per “scacciare tutte le malattie”.
Ha il corpo ricoperto da cicatrici di tagli profondi e bruciature, che lui porta come medaglie al valore virile, e che gli sono stati inferti dai capi della sua tribù come iniziazione, a partire dagli undici anni, assieme alla circoncisione, praticata con lo stesso machete usato per aprire varchi nella foresta e macellare le bestie.
Mi domando quanti occidentali, pur provvisti di assistenza sanitaria, sopravvivrebbero a queste prove, anche solo fino alla sua età.
Lui invece è lì, ha più di venticinque anni ed è scattante come un ghepardo, il suo alito e il suo sudore profumano di terra fresca, ha la pelle liscia e denti bianchi e robusti.
Gli mancano i due incisivi inferiori: mi ha spiegato che glieli hanno strappati da bambino, così i demoni sapevano a quale comunità apparteneva e non lo rapivano.
– Com’è questa malattia Depression? –
– Le persone, a volte, senza che sia morto nessuno o che sia successo niente di brutto, si sentono molto stanche, tristi, sempre di cattivo umore. Sempre voglia di piangere, oppure sempre arrabbiate. –
K2 annuisce e guarda in basso, giocherellando con un rametto: pensa.
Intorno ai polsi snelli ha qualche braccialetto e un orologio col cinturino di metallo scintillante, fermo. Per lui è soltanto una decorazione.
Ho provato a insegnargli a leggere l’ora, ma lui sa sempre esattamente che ora è, come i miei gatti, e trova ridicolo servirsi di un oggetto per capire quello che per lui è evidente.
Ogni tanto, alle undici meno cinque della mattina, sbuca all’improvviso e mi chiede: - Che ora è? –
Io guardo l’orologio ogni volta, e abbrevio: - Le undici. –
Lui ride e mi dice: – Non ancora! –
Dopo cinque minuti si diffonde puntuale nell’aria la preghiera delle moschee e lui da lontano mi fa il segno del pollice alzato, e ride.
Ho cercato di vendicarmi di questa sua insolenza: una sera, a mezzanotte, sono apparsa all’improvviso in giardino, al bivacco dei guardiani Masai, spaventandoli e guadagnandomi un sospettoso e stupito rispetto per la mia capacità di muovermi senza fare rumore.
Ho strillato: - Che ora è? –
Mi hanno fissato a lungo immobili e senza espressione, con le mani ancora ferme sull’impugnatura del machete che tengono appeso alla cintura.
Hanno guardato alle mie spalle e si sono guardati intorno, cercando di capire dove fosse quello di loro in turno di ronda, che infine è sbucato silenziosamente dall’altro angolo della casa.
Siccome io continuavo ad avere l’espressione sciocca di chi crede di avere fatto una domanda intelligente, alla fine uno di loro mi ha risposto:
– Mancano sei ore all’alba. –
K2 ha visto la mia faccia sconfitta e ha cominciato a sghignazzare spiegando la faccenda ai suoi compagni.
A turno hanno voluto vedere il mio orologio, che secondo me diceva che ora era. Ho così potuto osservare quest’oggetto con i loro occhi: una piastrina tonda con un piccolo segnetto, uno solo, verticale. Nei loro orologi, più grossi, ce n’erano almeno due, e nelle posizioni più fantasiose.
Non ho potuto fare a meno di sentirmi ridicola.
K2 sta ancora ragionando su questa malattia che gli ho descritto. Io aspetto. I silenzi sono più lunghi, in Africa.
Quando inizia a parlare lo fa continuando a disegnare ghirigori sulla terra rossa:
– Depression è per colpa di un verme che entra nella testa. Passa dal naso o dalle orecchie o anche dalla bocca, se dormi con la bocca aperta. Una volta che è nella testa si muove sempre, mangia la tua forza e tu non puoi smettere di pensare a cosa brutte.
A volte ci sono dei nemici che pagano qualcuno perché te lo metta apposta: ti dicono parole cattive e insistono a parlare male di te, tu ti distrai e qualcuno ti mette il verme. Quando hai il verme non puoi stare con gli altri, nessuno ti vuole, così devi andare nella foresta finché il verme non esce.-
– Come si fa a far uscire il verme? –
– Bisogna ritrovare il corpo. Il verme ti separa dal corpo: hai solo pensieri e non senti più il corpo. Ti muovi, ma è come se non fosse più tuo: se ti fai male, non puoi dire al dolore di smettere; se vuoi correre, il corpo diventa pesante. Quando vuoi ridere o cantare, ti manca il fiato perché il corpo non ubbidisce e non respira. Vuoi stare in piedi e il corpo vuole sdraiarsi.
Bisogna andare nell’acqua fredda, così i pensieri smettono per forza, perché se non stai attento a cosa fai col corpo, anneghi.
Devi fare cose pericolose, come cercare i leoni: questo ti aiuta a non pensare a cose che non ci sono. Quando hai un leone davanti, tutto il resto non conta: se il corpo ubbidisce a te, combatte e forse si salva. Sennò muore. Allora il corpo deve scegliere: se sceglie te, tu ridiventi il padrone e ti calmi, la rabbia passa e le energie buone ritornano. Allora il verme non potrà più fare niente, potrà solo andarsene nella testa di qualcun altro e tu non avrai più pensieri.
Hakuna Matata. –
* Un’altra avventura con il masai K2 è raccontata in “Lezioni di vita a Dar Es Salam“
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