La mia amica Edith Wharton e il Vizio della lettura
– Lore, come stai? Ti andrebbe di tradurre The vice of reading di Edith Wharton? È un pezzo molto carino ed è corto. Come traduzione del titolo siamo indecisi tra Il vizio di leggere e Il vizio della lettura. –
– Soldi? –
– Pochi. Però ti lasciamo tutti i diritti, noi lo facciamo come iniziativa culturale. –
– I diritti di essere povera, mi lasciate. –
– Dai, voglio fare una cosa speciale, non la solita traduzione piatta. Tu e la Wharton avete lo stesso modo di scrivere, siete pure snob uguali! –
– Mi sto già dedicando alla traduzione dei messaggi ambivalenti, come quelli che nella stessa frase prima ti si lusingano in modo ignobile e poi ti dicono che sei stronza col punto esclamativo. –
– Te lo mando, tu guardalo e poi mi dici. È corto, ci metteresti un attimo! Baci! –
Nel corso degli ultimi anni sono diventata progressivamente allergica alle forme di comunicazione anche solo vagamente seduttive e/o manipolatorie. Sento sempre puzza di bruciato, e nel timore di averne fatto una mania, finisco per andare in confusione, reagendo spesso in modo brusco o dissonante a qualunque messaggio che non sia chiaro e diretto, come “passami il sale, grazie”.
E se avessi la sindrome di Asperger? Si spiegherebbero molte cose.
Alla fine, comunque, non è la paranoia a fregarmi, ma la curiosità: un difetto transgenico acquisito per via transdermica dai miei gatti, che si appiattiscono come sogliole per scongiurare il pericolo di una carezza sconosciuta, ma infilano il naso in qualunque presa di corrente trovino sul loro cammino.
Perciò, ho dato un’occhiata veloce a The vice of reading.
Poi, sono andata a cercare Edith Wharton su Wikipedia.
Su Wikipedia in italiano c’è scritto che Edith Wharton era figlia unica, ma nella versione inglese c’è scritto che aveva due fratelli. Così sono andata a cercare altre biografie, tanto per sapere. In alcune si dice che a quarantacinque anni è diventata l’amante di Henry James, ma nelle biografie di Henry James si dice che lui era omosessuale e sostanzialmente platonico.
Quindi sono tornata a The vice of reading, un articolo scritto nel 1903. Ho cercato di calarmi nell’atmosfera dell’epoca, nei salotti bene di New York. Una signora di oltre quarant’anni, ricca, conservatrice, ovviamente molto istruita, innegabilmente arrogante, di quell’arroganza che probabilmente ai tempi era uno status sociale, non un difetto. Nell’articolo se la prende con quella nuova moda che aveva iniziato a diffondersi tra i borghesucci, di leggere e fare gli intellettuali a tutti i costi, anche in assenza di vera vocazione.
L’articolo è facile da comprendere, ma leggendolo meglio mi accorgo che non è così facile da tradurre in italiano: ci sono frasi troppo sintetiche e poco collegate tra loro, termini a cui non saprei trovare un corrispondente preciso. È un articolo scritto da una scrittrice indiscutibilmente talentuosa, non da un giornalista: dovrebbe filare come l’olio e invece ha passaggi che mi suonano fessi, come i tasti di un pianoforte che necessita di riparazioni, e non saprei dire se questa sensazione dipenda dal fatto che non conosco l’inglese come credevo, oppure dal fatto che si tratta di roba scritta più di 100 anni fa.
Per esempio, ci sono frasi dal tono melodiosamente scientifico, come: Il valore dei libri è proporzionale a ciò che può essere definito come la loro plasticità, la loro capacità di essere… Subito dopo io mi aspetterei un termine solenne, che vada d’accordo con “plasticità”, che in inglese suona ancora più chic che in italiano.
E invece no: Il valore dei libri è proporzionale a ciò che può essere definito come la loro plasticità, la loro capacità di essere… all things for all men.
Il senso si coglie, ma l’insieme suona malissimo.
Non poteva trovare una metafora meno generica e un po’ più agile? È forse un modo di dire? Sarebbe comunque poco adatto, dopo termini come proporzionale e plasticità. Dovrei informarmi, e questo già mi smonta: non posso tarmare tutti gli amici di lingua inglese che ho, solo perché una frase non mi convince stilisticamente.
E che dire dei paragoni tra una certa tipologia di lettore e quell’altra, che vede nella conformazione a spicchi del melone il segno che è stato creato per essere condiviso en famille ?
Ma ‘sta qua, per chi stava scrivendo? Non per il “vasto pubblico”, a questo punto. E che razza di meloni avevano, a quei tempi, a New York?
Ho cercato di immaginare come sarebbe stato Il vizio della lettura in italiano, tradotto da me: strambo, a dir poco, perché un premio Pulitzer non puoi tradurlo mettendo giù i concetti con parole tue. E poi: quali concetti? Che un analfabeta funzionale è dannoso alla società? Argomento attuale, per carità, ma era necessario complicare tutto con una tale esibizione di bizzarria stilistica ed esempi fantasiosi, non sempre efficacissimi, per dirlo?
Poi, sono arrivata a questa frase: Delle delizie del vagabondaggio intellettuale, della caccia improvvisata dopo un accenno fugace, suggerito a volte da un cambio di frase o dalla semplice sfumatura di una parola, egli è serenamente inconsapevole. (Si riferisce al lettore “meccanico”. N.d.R)
– ‘A Edith: me stai a pijà pe ‘r culo? –
– Vedi un po’ tu! Ti ho appena spiegato che in letteratura non conta il soggetto, ma l’uso che ne fa lo scrittore!-
È stato così che Edith Wharton ha cominciato a parlarmi.
Grande come un parrocchetto, siede sulla seggiolina delle bambole di mia nonna, che io uso come comodino. Solo che è sospesa in aria, avvolta in una nuvola di sottile nebbia color seppia, con un pomposo vestito lungo plissettato e un buffo cappello con la piuma.
Mi parla in italiano. Se è per questo, parlava anche il tedesco. In inglese non le ho ancora sentito dire una parola, e sì che avrebbe potuto essermi utile, ma nada, niente, nichts.
Nel corso di questa traduzione – che si è portata via parecchie nottate della mia vita e mi ha trasformata in un paranoico detective “degli accenni fugaci”, persino quelli suggeriti dai cambi di frase del bancomat – siamo diventate inseparabili.
Lei mi segue al supermercato, commentando sarcasticamente su qualunque cosa, e sempre quando siamo in fila alla cassa, che la gente ci ascolta. Mi appare in sogno: ha in mano un foglietto che immagino sia la mia traduzione, e fa delle smorfie indecifrabili.
Si sostituisce a me mentre digito un messaggio e cambia la costruzione delle frasi creandomi una tale confusione linguistica, che sono stata costretta a telefonare a mia madre per chiederle la declinazione di un congiuntivo, scandalizzandola oltremodo.
Quando arrivavo a certe parti del suo articolo e alzavo la testa a guardarla in cerca di una risposta, lei stava lì a dondolarsi in aria con quella faccetta saputa e rispondeva solo con delle alzate di sopracciglio. Aspettava la passeggiata delle cinque per insinuarmi dubbi mefistofelici anche sui brani che a me parevano del tutto limpidi.
Ho avuto la netta sensazione che non ricordasse minimamente ciò che aveva scritto ne Il vizio della lettura, ma che sapesse perché lo aveva scritto e soprattutto per chi. Non ha mai voluto dirmelo, ma secondo me si tratta di una cosa scritta con una certa irritazione, e per dare una lezione a qualche sedicente intellettuale pomposo che l’aveva provocata.
Adesso è un’opera che racchiude insegnamenti preziosi per chiunque voglia scoprire come si dovrebbero davvero leggere i libri, e come bisognerebbe scriverli; ma dubito che ai tempi lei abbia avuto una qualsivoglia intenzione didattica.
No, questo è un guanto di sfida tirato in faccia a qualcuno. Chissà se è mai stato raccolto, e lo sfidato ha intercettato le colte e disparate allusions del testo, oppure è passato oltre senza fare una piega, bollandosi da solo come lettore inutile.
Lei non racconta mai niente della sua vita passata, come se le azioni fossero corpuscoli insignificanti che vagano nel cosmo infinito e rarefatto del pensiero.
La mia amica Edith è una che sa che cos’è la cultura. Soprattutto, sa perfettamente a cosa serve la cultura; particolare che invece oggi, a distanza di un secolo, risulta sfuggente. La cultura tiene compagnia, sconfigge la tristezza e crea rapporti di amicizia che superano le barriere dello spazio e del tempo.
Lei oggi mi accompagna dallo psichiatra, ma quando ha scritto il Vizio della lettura c’erano Shakespeare e Verlaine seduti alla sua scrivania e insieme devono avere fatto un sacco di battutacce sui trascendentalisti e sul Libro di Mormon.
Serate memorabili, riservate a chi si perde per anni in biblioteche grandi come il Paese delle Meraviglie (a proposito, Edith, io me lo sento che tu, nel Vizio della lettura, ci hai cacciato anche un riferimento a Carrol, e se ti conosco abbastanza, è da Alice allo specchio; ma non lo trovo) e ne esce come se avesse vissuto mille vite.
Certo, con soggetti così, il rapporto è sbilanciato e a volte estremamente difficile. Lei, per esempio, non le manda a dire: “Se nessuno sapesse leggere, tranne chi sa farlo, nessuno scriverebbe, eccetto chi sa scrivere.”.
Fine della comunicazione. Nessuna mediazione, niente premio di consolazione.
E io zitta e imparo.
Ci vuol pazienza.
Edith Wharton – Il vizio della lettura, cartaceo e ebook in vendita su Amazon
Il vizio della lettura, di Edith Wharton
Anteprima di altri libri:
Caro Stephen King, io sono Nerd Fitness
Dal libro: Lettere da Londra underground
Sull’isola di Naxos c’è un tesoro. Anteprima
Le allusions non lo so, ma non lo escluderei. Altri testi, sì: ce ne sono alcuni minori non tradotti, altri inediti e altri ancora pubblicati con pseudonimo, scritti in giovane età.
Ciao Loredana, questo post è molto interessante: ci sono altri testi di Edith Warthon non ancora tradotti in italiano? E questo cosa delle allusions è anche in altre sue opere?
Signora, io farei volentieri un post con gli screenshot più rappresentativi delle sue opinioni su di me, anonime e non anonime, che lei, da quasi due anni, mi fa pervenire con ogni mezzo telematico: ne verrebbe fuori un collage di un certo interesse artistico. Purtroppo però insistono a dirmi che rendere pubblici messaggi privati è contro non uno, ma ben due articoli di legge, penale e civile. E il blog ha l'aggravante del "a mezzo stampa". Le prometto comunque di andare a fondo alla questione e se dovessi scoprire che ciò può essere fatto impunemente, lei avrà tutta la popolarità che sembra cercare con tanta incrollabile energia.
So bene che lei va dallo psichiatra, e che si rivolge a molte altre "figure terapeutiche" (quasi tutte donne e con pubblicazioni all'attivo, come me), riuscendo brillantemente a farle fesse, soprattutto all'inizio. Però mi consenta di ricordarle che, benché i terapeuti siano manipolabili come chiunque altro, se è il loro paziente a farlo, più che "inculare" loro sta "inculando" se stesso, per ovvie ragioni.
Te che vai dallo psichiatra?A pigliarlo per il culo?Passano gli anni,ma la tua passione di far fessa la gente resta sempre viva e ardente.Qualcuno avvisi questo povero uomo che sta per prendere la peggior inculata della sua vita professionale.