E io smetto di fumare
Smettere di fumare.
Non è per un fatto di salute. Neppure di risparmio.
È che ho letto quel libro famoso, del tizio che continua a ripeterti che fumare fa schifo e che se riesci ad arrivare alla fine del suo libro, smetterai certamente.
Credo che sia il libro più lasciato a metà della storia.
A me dispiaceva fare un torto simile all’autore, così ho finito il libro e adesso devo smettere di fumare.
Solo che ho un problema: non vado in ufficio, lavoro davanti al mio computer quasi sempre e posso fumare liberamente. Quando scrivo sono una ciminiera e neppure mi accorgo di accendere una sigaretta dopo l’altra.
Ci sono soltanto due cose che mi piacciono più del fumare, e una è la radice di liquirizia. Siccome l’altra è il Pernod, vado a comprarmi un mazzetto di radici legnose, che è meglio.
A fine giornata ho consumato un campo di radici di liquirizia calabrese biologica, ho mal di stomaco, la saliva spessa come catrame e ho speso una cifra corrispondente a tre pacchetti di sigarette. Non è conveniente.
Quando mi accorgo che sono anche uscita senza lavarmi i denti e adesso sorrido con dei pezzi di corteccia incastonati negli incisivi, mi dico: non va bene, ripensa.
Ci ripenso davanti allo specchio, mentre cerco di svellere i pezzi di radice giallastra dalle gengive con un grosso ago da cucito: in fin dei conti fumare non è altro che un riflesso infantile, un antico bisogno orale legato al ricordo della suzione. Se volessi veramente essere onesta con me stessa dovrei comprami un ciuccio, ecco.
Solo che la farmacista mi chiede: – Per che età? –
Io sono sempre stata una taglia Small, mai che mi vada bene un vestito. Di riflesso rispondo: – La più piccola – e torno a casa con il mio succhiotto per neonati, rosa.
Nel ragionamento raffinato sul complesso orale, approfondito da eminenti studiosi, tutti si sono dimenticati di un aspetto fondamentale: nell’adulto con turbe neonatali è presente una dentizione completa. Il mio ciuccio, che costa come un pacchetto di sigarette, finisce sbranato dopo mezza cartella e mi ritrovo a sputare pezzi di silicone triturato.
Prima di farmi prendere dallo scoramento torno in farmacia di corsa e chiedo un ciuccio per bambini grandi, robusto. La farmacista mi fissa qualche secondo interdetta: il neonato a cui era destinato il ciuccio più piccolo di prima non può certo essere cresciuto di trentasei mesi in un’ora, così m’invento che ha un fratello a cui non voglio fare torto e di cui mi ero dimenticata, e no, non sono figli miei, figurarsi se mi dimenticavo di averne due, sennò, deheheh.
La farmacista non ride. Il giorno dopo, alla richiesta di un pacchetto da cinque di ciucci, mi guarda minacciosa e capisco che se non voglio che mi denunci devo cambiare aria.
Va bene: al supermercato dell’infanzia vendono i pacchetti da dieci, più economici, più resistenti e anche decorati a pallini.
Finalmente posso piazzarmi al mio computer completamente attrezzata: vestaglione, grosso bigodo per la frangia, ciuccio.
Abito al terzo piano e davanti alla mia finestra senza tende c’è un albero la cui cima cresce di un piano all’anno, e in primavera rischia di allungare i suoi rami fino a toccare i vetri. Al di là dell’albero ci sarebbero anche dei dirimpettai, che hanno poco da guardarmi straniti: loro tengono sul balcone una specie di collana di pesci appesi a essiccare. Io scrivo col ciuccio e il bigodo in testa, loro fumano a gennaio in mutande sul balcone, con lo sfondo dei pesci essiccati. Siamo pari.
È con un certo sgomento quindi che registro un movimento inaspettato, come di uno sbucare improvviso. Sollevo la testa dal PC e fuori dalla finestra c’è un omino che mi fissa terrorizzato con una sega in mano: si è arrampicato silenziosamente sull’albero per potarlo, e ora è lì che guarda sospeso nella sua imbracatura.
La vestaglia è meglio che non me la tolga, con tutta sta cinematografia di bassa lega che gira. Fingo un colpo di tosse e sputo il ciuccio, mentre con il movimento della testa lancio contemporaneamente il bigodo a rotolare in un angolo. Mi alzo sorridente e nella mattina brumosa apro la finestra: l’omino con la sega è un po’ rattrappito e continua a fissarmi come un lemure paralizzato avvinghiato al suo tronco.
Io faccio la mondana: – Buongiorno! (Sorrisone). Lo vuole un caffè? –
Mi pare abbia squittito un sì. Mi avvio elegantemente verso la cucina facendo ondeggiare la mia lunga vestaglia da pugile.
Io non bevo caffè, ho una vecchia caffettiera e della polvere di caffè in frigo, che tengo per gli amici, che non lo vogliono mai, perché ha un sapore orribile. Dovrei buttare via il fondo del caffè e non lasciarlo per mesi dentro la caffettiera, dicono, perché ammuffisce. Ma io non me lo ricordo mai.
Butto via la coltura che trovo nella caffettiera e faccio un bel caffè. Torno indietro a chiedere all’imbragato quanto zucchero vuole e se vuole latte. Per fortuna il latte non lo vuole, perché mica ce l’ho.
Ritorno con la tazzina fumante e gliela allungo dalla finestra con occhietto complice: è una bella trovata quella di bersi il caffè appesi a un albero a dieci metri da terra. Anche l’omino ci ha pensato, glielo leggo in faccia.
Poi assaggia il caffè e mi fissa preoccupato. Io sorrido incoraggiante.
Lui finisce il caffè in un sorso solo, deglutisce e mi porge la tazzina senza una parola. Mentre riporto tutto in cucina e lavo, lui scende dall’albero e sparisce senza averlo potato.
Io mi rimetto al mio PC e mi servo di un nuovo ciuccio dalla scatolina. Se ho deciso che smetto, smetto: non mi lascio distogliere da niente e da nessuno.
Questo racconto fa parte del libro OFFSET, gratuito su Amazon e su questo sito
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Trattasi di pesce di canale di scarico cittadino, ricco di spine, dal delicato sapore di cartone. Viene essiccato in forno ricoperto di sale. Successivamente appeso all'esterno d'inverno per la conservazione e per non impuzzare l'appartamento.
Ricetta: marinare il pesce essiccato per qualche giorno in olio aglio aglio aglio rosmarino e limone, cuocere in brodaglia di pomodoro concentrato con le patate.
Segreto per digerirlo: il caffè finale.
Mi colpisce molto questa cosa dei pesci appesi. Si tratta di aringhe, o merluzzi? Sono stati precedentemente affumicati, o messi sotto sale?
E poi cosa ne fanno, usano la pelle per farne scarpe, borse e portafogli?