Compravendita di schiavi nei registri degli Archivi di St. Lucia, intervista a un colono di Guadeloupe e gite in auto con un’amica carib
Saint Lucia è un’isola delle Piccole Antille – in inglese chiamate West Indies, Indie occidentali – molto vicina alla Martinica. In passato, inglesi e francesi se la sono rubata e rivenduta a vicenda per ben sette volte nel corso di tre secoli. Dal 1979 è uno stato indipendente e la sua lingua ufficiale è l’inglese. I nomi delle città però sono ancora in francese e la lingua più diffusa è il Patois, un idioma creolo derivato dal francese e che si parla anche nelle vicine isole di St. Vincent, Barbados, Dominica, Martinica e Guadeloupe.
La popolazione di St. Lucia è costituita per oltre il 90% da discendenti di schiavi africani, portati ai Caraibi tra il 1650 e il 1830 circa per lavorare nelle piantagioni, in particolare quelle della canna da zucchero. È proprio in cerca di testimonianze di questo passato che un giorno decido di percorrere a piedi tutta la spiaggia di Vigie, costeggiando il variopinto cimitero e la pista d’atterraggio dell’aeroporto per piccoli velivoli fino a raggiungere l’ufficio degli Archivi Nazionali che si trova sul promontorio, tra vegetazione curata e belle ville con vista panoramica.
Vivo a St. Lucia da oltre un mese, e in quegli archivi, più che altre nozioni sulla storia dello schiavismo, vorrei trovare risposte a delle mie curiosità nate dall’osservazione di piccole stranezze locali, sulle quali nessuno è riuscito a fornirmi una spiegazione esauriente:
- Perché la maggioranza degli abitanti qui, a differenza dei caraibici di altre isole come Cuba, Giamaica e Martinica, sembra avere conservato attitudini più spiccatamente africane e non essersi mescolata con gli europei?
- A St. Lucia non ho incontrato nessuno che dica di avere un europeo tra i suoi antenati, ma molti amano vantare una discendenza Carib, come se questo significasse appartenere a una classe sociale superiore. I tratti carib sono visibili in alcuni di loro: più bassi e massicci, hanno zigomi pronunciati, pelle più chiara e a volte capelli meno crespi. I pochi carib “puri” rimasti, però, vivono in comunità isolate, nei luoghi più remoti e poveri dell’isola.
- La gente qui si rapporta a europei e nordamericani senza astio, soltanto con un po’ di timidezza. I grossi proprietari terrieri sono scomparsi da tempo così come le piantagioni. La gestione inglese dell’ultimo secolo sembra avere contribuito a creare una società priva di tensioni razziali evidenti. Ho notato però che i gruppi di ragazzi, così come le coppie, non sembrano assortiti a caso: i più chiari di pelle frequentano i più chiari, quelli con tratti carib si accompagnano a persone dello stesso aspetto. Se incontro un mendicante o una persona evidentemente povera, si tratta immancabilmente di qualcuno con la pelle molto scura e caratteristiche africane più evidenti.
Il promontorio di Vigie era un avamposto militare per controllare l’accesso al porto di Castries. I militari francesi vi hanno lasciato costruzioni robuste e spartane, tra cui le stanzette della gendarmeria, che ora sono la sede degli Archivi Nazionali.
Mi aspettavo una biblioteca con scaffali di libri in vista, invece c’è solo una piccola sala da lettura vuota, un’impiegata seduta a un computer e una ragazza che gioca con lo smartphone.
Nessuno mi chiede cosa voglio, così inizio ad aggirarmi indisturbata osservando sostanzialmente i muri e le locandine appese. Si tratta di un archivio soprattutto anagrafico, istituito nel secolo scorso per consentire agli abitanti di rintracciare i propri familiari, portati magari in altre parti dell’isola o dispersi. Osservo file di piccole fotografie in bianco e nero dei primi del 1900, che ritraggono persone sfuocate con lo sguardo incerto. Molti di loro hanno nomi di battesimo fantasiosi, ma i “cognomi” sono spesso tristemente gli stessi: Negro, Negre, Negrette, Black.
Su un tavolo trovo un libretto gualcito, scritto per le scuole, che accenna alla storia di St. Lucia e allo schiavismo. Più che altro riporta le statistiche di alcuni questionari che sono stati fatti agli studenti di St. Lucia nell’anno 1986:
- Hai mai sentito parlare di schiavismo? Il 20% degli alunni risponde di no.
- Vorresti sapere di più sullo schiavismo? Molti rispondono di no.
- Come ti senti a proposito dello schiavismo? Non fa a tutti lo stesso effetto: alcuni dichiarano di sentirsi bene, forse in virtù del fatto che non devono più subirlo.
In generale sembra confermata una mia sensazione: alla gente di St. Lucia, sapere qualcosa di più sulle generazioni passate, da dove venissero, come vivessero e perché, non interessa molto. Non sembra interessare neppure agli autori di questo libretto, nel quale l’unica testimonianza storica riportata è la descrizione de Il Negro di Saint Lucia di Henry H. Breen, sindaco inglese di Casties, che nel 1844, poco dopo la fine legale della schiavitù, scrisse:
Il carattere generale del Negro di St. Lucia può essere descritto in poche parole: fisicamente ben proporzionato, si muove scioltamente, senza segni di fatica o rigidità. Ha un’attitudine incredibilmente allegra e canta o fischietta se questo è compatibile con la sua attività. È umile, ma non ossequioso, e sebbene sia nato e cresciuto in schiavitù, non c’è in lui traccia di servilismo. Contrariamente al contadino europeo, che raramente riesce a stare davanti a un’autorità senza profondersi in strisciante sottomissione, il Negro di St. Lucia è educato, ma fino a un certo punto. Si tocca il cappello nel salutare tutti, ma difficilmente se lo toglie, fosse anche di fronte al governatore della Colonia. È docile, intelligente e sobrio. Attivo, ma non laborioso. Superstizioso, ma non religioso. Uso al furto senza essere un mascalzone. Avverso al matrimonio, ma devoto alle numerose compagne e, sebbene non creda in nulla, difficilmente lo si può definire un debosciato. La sua amicizia e la sua gratitudine sono sincere, la sua generosità verso tutti superata soltanto dall’affetto verso i suoi figli. In lui il carattere indisciplinato dell’africano è temperato dal luogo di nascita, è un insieme di selvaticità e civilizzazione, il grezzo frutto di un deserto trapiantato in un terreno più ricco e lucidato esteriormente grazie al contatto con la civiltà inglese e francese. È più pulito del contadino europeo.
Non mi rimane che chiedere alla ragazza dietro al computer, che chiacchierava con l’altra in un inglese dal pesante accento caraibico, ma che adesso con me fa sfoggio di un accento più britannico e termini più ricercati, nonché di un’omertà degna del mafioso più incallito. Alla fine, tutto quello che riesco a ottenere è un registro di compravendite datato 1833, anno in cui, dopo la dichiarazione formale di liberazione degli schiavi, si cercò di istituire un’anagrafe di queste persone invitando tutti i proprietari terrieri a denunciarne l’esistenza.
Il registro, fragile e incartapecorito, viene piazzato su un leggio e io sono libera di sfogliarlo. Anche di strapparne le pagine, volendo, come ha già fatto qualcuno. Sul dorso c’è il numero 5 scritto a pennarello: chiedo dove siano i registri precedenti, ma la ragazza non lo sa. Forse a Londra, forse ammuffiti.
Questa è la prima pagina, firmata dal sindaco Henry H. Breen in persona:
Si apre con la vendita di un negre chiamato Bastien. La lingua usata è il francese e il nome del compratore è anch’esso francese, nonostante l’isola all’epoca fosse sotto dominio inglese. Il resto del registro, redatto a volte in inglese e a volte in francese, prosegue con una serie di vendite di case, terreni, bestiame, altri schiavi, matrimoni e ipoteche, fino alla parte centrale, nella quale inizia la registrazione degli schiavi di pertinenza delle singole piantagioni.
Le colonne si riferiscono a: nome, cognome, colore, impiego, età, taglia, provenienza, segni particolari, parentela.
Pochi schiavi provengono direttamente dall’Africa, nel 1833: molti erano già nati ai Caraibi da generazioni, spostati da un’isola all’altra, da una proprietà all’altra. Uno soltanto risulta provenire dal Congo. Degli altri si scrive Africa generico, altre isole, non si sa.
Ci sono molte donne e bambini, ma i maschi giovani sono pochi. Dopo i 50 anni queste persone scompaiono dalle liste, con poche eccezioni. I segni particolari sono sempre: cicatrici, ulcere, denti e arti mancanti.
Un’attenzione estrema è volta alla descrizione del colore della loro pelle: le sfumature citate vanno dal nero africano a nero semplice, per passare a negretto, mulatto, capresse o capra – di cui non ho trovato traduzione – fino a colori come rosso, oppure giallo, che ho scoperto successivamente riferirsi a rispettivamente a bianco e mulatto chiaro.
La maggior parte di loro lavorava nei campi (field) (Ditto significa: come sopra). Anche i nomi degli schiavi fuggitivi (runaway) sono comunque registrati.
Da liste private che non ho potuto fotografare, scopro che gli schiavi erano anche classificati in basse alla loro utilità: i maschi giovani e sani erano di categoria A, con l’aggiunta di un’altra A se anche alti e robusti, in grado di sopportare lavori molto pesanti. A St. Lucia però, gli schiavi di categoria AA furono pochi: troppo costosi per piantagioni piccole e povere se paragonate a quelle della Giamaica o della Louisiana.
Pare che i Caraibi in generale, e le Piccole Antille in particolare, fossero campi di “addomesticamento”: si usava sbarcare gli africani su queste isole per farli acclimatare ed eventualmente morire, se già malati o non resistenti alle malattie tropicali, senza infettare altri. Messi in quarantena in zone recintate, successivamente erano consegnati come apprendisti agli schiavi già residenti che, lungi dall’essere solidali, non risparmiarono loro abusi e maltrattamenti di ogni genere. Una volta imparato ciò che dovevano fare, gli schiavi di maggior valore erano trasportati altrove e venduti al migliore offerente. A St. Lucia rimanevano quelli più anziani, meno robusti e meno belli.
C’era un altro motivo per il quale la prima fermata degli schiavi freschi d’Africa erano spesso le Antille: i temibili carib, un popolo di amerindi provenienti forse dal Venezuela che si era stabilito lì sterminando gli indigeni precedenti, gli arawak. Si narra che i carib fossero particolarmente aggressivi e che abbiano ucciso i maschi arawak accaparrandosi le loro donne. Di certo si sa che gli europei faticarono a lungo per conquistare St. Lucia, proprio a causa della resistenza carib. Furono gli africani più intraprendenti, quelli che appena sbarcati fuggivano nella boscaglia cercando di sopravvivere, a doversi scontrare con loro, aiutando involontariamente i loro aguzzini. Al centro di St. Lucia, dove la foresta pluviale è fitta e i sentieri impervi, c’è ancora una comunità di Maroons, cioè di schiavi ribelli e fuggitivi, che avrebbero conservato le loro tradizioni africane. Oggi è un’attrazione turistica.
La faccenda dei carib era spinosa. Non che i primi conquistatori non avessero provato a farne degli schiavi dopo averli decimati, ma loro si opponevano in modo feroce e alla fine era intervenuta anche la Chiesa condannando la riduzione in schiavitù delle popolazioni locali, e di fatto favorendo la ben più costosa deportazione di schiavi da altri paesi, purché non fossero cristiani. Si era finito per spingere lentamente i carib a un ritiro graduale verso i luoghi meno fertili, aspettando che morissero d’inedia e reclutandoli periodicamente come mercenari per sedare le rivolte degli schiavi, in cambio di terreni.
Dal registro vengo anche a sapere che nel 1834 a St. Lucia esisteva una sorta di sindacato degli schiavi e che c’era un responsabile inglese incaricato di raccoglierne le lagnanze: una madame, dal cognome francese e proprietaria di una piantagione, risulta sottoposta a regolare processo per avere frustato uno schiavo che si era rifiutato di lavorare all’ora di pranzo, poiché doveva occuparsi della sua famiglia.
In generale capisco che nel diciannovesimo secolo gli schiavi di St. Lucia erano trattati meglio che in altre isole. Dopo una certa età potevano ritirarsi a vivere in qualche capanna ai margini della piantagione, a loro rischio e pericolo. Erano formalmente liberi, ma se volevano mangiare e soprattutto essere protetti dalle incursioni di pirati, di disperati che si erano dati alla macchia e di bande di carib, conveniva loro vivere all’interno di una piantagione e lavorare in cambio. Nelle statistiche del libretto scolastico si nota che dopo la liberazione dalla condizione di schiavitù e la chiusura di alcune piantagioni, a St. Lucia molti ex schiavi si spostarono in zone dove le piantagioni erano ancora attive, probabilmente in cerca di sostentamento e protezione.
Dopo questa ricerca, le mie domande sulla discendenza carib si fanno più mirate. Mi pare di capire che oltre al fatto di sentirsi almeno in parte indigeni e non figli di schiavi senza nome, ci sia l’orgoglio di discendere da una stirpe di prodi combattenti, e soprattutto, di piccoli proprietari terrieri. In un momento di grande espansione turistica come quello attuale, possedere un terreno a St. Lucia assicura un salto economico e sociale notevole, sempre che il terreno sia nel posto giusto e non sia stato suddiviso tra un numero eccessivo di eredi fino a ridursi alle dimensioni di un orticello.
La continua compravendita di terreni sembra essere l’hobby preferito degli abitanti di St. Lucia da molto tempo, e agli Archivi Nazionali non riesco a trovare altro. Per capire qualcosa di più devo spostarmi nelle isole francesi, dove ci sono ancora i coloni che da generazioni possiedono vaste aree di territorio, e dove le differenze sociali e le tensioni razziali sono marcate. Guadeloupe sembra interessante: è più povera e pericolosa della Martinica, e ci sono forti movimenti indipendentisti.
Ho solo un problema: praticamente nessuno là parla inglese e io non parlo né il francese né il patois. Mi serve un contatto.
Frederique mi aspetta sulla sua auto al porto di Pointe a Pitre, a Guadeloupe. Il viaggio in traghetto da St. Lucia è stato un incubo e sono riuscita a malapena a intravedere la piccola isola di Marie Galante, covo degli indipendentisti più estremi che tutti mi hanno consigliato di evitare, soprattutto se intendo andare in giro a fare domande.
Frederique è una donna alta e robusta, con i capelli rasati e gli zigomi dei carib. Vive avvolta in una nuvola d’incenso, medita, digiuna nutrendosi della luce del sole, ma si ritiene una principiante di questa pratica, visto che non riesce ancora a stare senza bere per più di una settimana di seguito.
Il suo inglese è eccellente, ha studiato a Parigi e Amsterdam, e i suoi modi, così come le stranezze new age, fanno pensare che provenga da una famiglia borghese e benestante.
– Sì, sono andata a scuola dalle suore e mi hanno instillato ‘sti modi dei bianchi. Tutti mi accusano di parlare come una bianca e io mi trovo meglio con i bianchi, in effetti. Mio fratello è l’opposto: lui sembra un bianco ma si sente nero dentro e questo gli crea dei bei problemi. –
Cerco di figurarmi chi a St. Lucia avrebbe potuto pronunciare un discorso simile: non mi viene in mente nessuno. Questo è proprio un altro mondo.
Pointe a Pitre è una piccola città caotica con una brutta periferia di baracche. La “via dello shopping”, frequentata soprattutto dai turisti che scendono per poche ore dalle navi da crociera, si trova a ridosso del porto ed è sorvegliata da guardie armate. C’è un museo dedicato alla memoria dello schiavismo, ma Frederique esclude che io possa avventurarmi lì da sola: anche di giorno la strada è frequentata soprattutto da spacciatori e prostitute. La zona dove mi sta portando invece, Le Gosier, è turistica e “abbastanza” tranquilla, dice. Ci sono i lampioni, e lei a volte cammina di sera senza che le sia mai successo nulla.
Non è la prima volta che mi ritrovo in posti dove, a sensazione, le misure di sicurezza sono sproporzionate rispetto alla reale pericolosità del luogo: a Guadeloupe alcuni negozi, anche semplici fast food, sono blindati da un cancello che si apre solo dall’interno, e i pagamenti, anche di pochi euro, avvengono attraverso una cassa automatica. In realtà l’intera isola conta meno eventi criminosi della sola periferia di Parigi e tutto questo blindare e paventare, a mio parere non fa che esacerbare gli animi e rendere tutti più nervosi. Camminando per le strade noto però che gli abitanti qui sono meno sorridenti e molti uomini mi fissano con uno sguardo rapace e lascivo che a St. Lucia è sconosciuto, mentre lo ritrovo più frequentemente in Europa.
Frederique abbatte in un sol colpo le mie romantiche teorie sui carib:
– I neri odiano i carib: erano loro che facevano i guardiani degli schiavi per i bianchi. Loro si sentono superiori ai neri, ma sono sempre stati una minoranza di mezzo, guardata con sospetto da tutti. Col tempo si sono mescolati, perché le donne nere qui badano soprattutto al denaro, ma in genere chi ha fattezze carib cerca di sposarsi qualcuno più bianco di lui, per pulire la razza. –
Io intanto ho fatto un po’ di domande in giro sulle antiche famiglie di francesi che ancora si dice possiedano lande sconfinate e sembrano controllare l’intera economia delle isole. Tutti ne parlano come di aristocratici arroganti e schiavisti, che vivono defilati. Il loro nome è legato soprattutto alle numerose distillerie di rum di Guadeloupe e Martinica, che si possono visitare ammirando le piantagioni e le grandi case d’epoca.
Nessuno sembra però conoscere qualche ex colono di persona e quando accenno all’argomento, Frederique si scalda subito: gli ex coloni hanno dei rappresentanti nel parlamento francese, dove fanno soltanto i loro interessi. In passato avrebbero ottenuto di poter continuare a usare per altri vent’anni un pesticida già proibito in Europa, per mantenere alta la produzione di banane. Il risultato è stato l’inquinamento permanente di interi territori e delle falde d’acqua dell’isola, che avrebbero a loro volta causato un aumento di certi tipi di tumore e anche la morte lenta e dolorosa di suo padre, a cui lei era particolarmente legata.
Ci sono molti “sentito dire” sui coloni, che sembrano in ogni caso circondati da un’aura leggendaria, per quanto negativa.
Io non so dove trovarli: non è gente che si gode le spiagge e va in barca a vela, questo l’ho capito. Un giro all’aeroporto in cerca di velivoli privati, con la paranoia che c’è in giro è fuori discussione, e in ogni caso ho il problema della lingua.
Nei ristoranti prestigiosi non trovo nessun proprietario terriero produttore di rum, ma noto la stessa situazione dei ristoranti di St. Lucia: ci sono turisti europei, in questo caso quasi esclusivamente francesi, e uomini d’affari orientali. Sicuramente esistono dei caraibici benestanti, specie adesso che queste isole sono così turistiche, ma le uniche persone di colore che vedo sono quelle che servono ai tavoli.
Nel frattempo vado in giro in cerca di belle spiagge, e uscendo da casa passo tutti i giorni davanti a una specie di self service, dove i pasti costano poco e sono consumati su lunghi tavoli di legno. All’ora di pranzo c’è sempre un francese biondo con gli occhi azzurri, che mangia da solo. Ha il colorito di chi vive in posti soleggiati tutto l’anno senza curarsi dell’abbronzatura, e veste con abiti europei, di quelli un po’ opachi che da noi si mettono per andare in ufficio e che non ci porteremmo mai in vacanza. Parla patois e si rivolge alle cameriere senza guardarle.
Chiedo a Frederique di entrare nel bar per dare un’occhiata a quest’uomo, mentre io aspetto dietro l’angolo e comincio a sentirmi ridicola, ma non abbastanza per non indossare dei grossi occhiali da sole scuri. Lei sta dentro pochi secondi e poi esce a grandi passi:
– È un colono. Sfigato. Ci scommetto. –
– Gli hai parlato? Parla inglese, secondo te? –
– Figurati se parla inglese! Questi sono degli ignoranti che neanche te l’immagini, te l’ho detto. –
In effetti Frederique mi ha spiegato una cosa interessante: la cultura scolastica, persino oggi, a Guadeloupe è prerogativa dei mulatti. I proprietari terrieri e i loro eredi non avevano né tempo, né necessità di studiare: erano già ricchi e dovevano dedicarsi a mandare avanti la proprietà. Avevano però bisogno di medici, avvocati, notai, e questo ruolo era affidato alla figliolanza illegittima. In tal modo fornivano comunque un reddito ai discendenti che non potevano ricevere un’eredità, e al tempo stesso si garantivano collaboratori fidati. Il padre di Frederique, figlio di un carib e di una mulatta, a sua volta figlia illegittima di un colono francese di cui si è perso il nome, faceva il dentista. Anche qualche antenato di sua madre era europeo: infatti, dice Frederique, lei è una mulatta molto chiara, che non le ha mai perdonato di essere nata così scura, di camminare come le donne nere e di non cercare di sembrare diversa da loro, mentre suo fratello ha persino gli occhi azzurri.
Questi continui discorsi di Frederique sulle sfumature di colore delle persone mi fanno ripensare alle liste del registro degli Archivi di St. Lucia, ma non riesco bene a immedesimarmi in quello che per lei sembra essere un problema doloroso, almeno fino a quando non andiamo a trovare questa sua madre, descritta come fredda ed egocentrica, che vive in una grande casa sulle colline di Le Gosier.
Mai avrei pensato di entrare in un soggiorno la cui atmosfera pare quella descritta nei libri di Garcia Marquez o Isabel Allende, e invece, beh, eccolo lì. Sul pavimento di legno scuro e lucido poggiano un pianoforte e un delicato tavolino da tè, circondato da poltrone di giunco con grandi cuscini a fiori. Altre poltrone, di velluto e con le gambe di legno scolpito, sono vicine alla libreria che occupa due delle tre pareti della grande stanza. La quarta parete non esiste: al suo posto c’è il tramonto e la vista infinita sul mare dei Caraibi. La brezza entra libera e sfiora gli oggetti, che vibrano di ricordi così intensi da farmi sentire il bisogno di tappami le orecchie per attenuare il ronzio.
La grande fotografia appesa in alto ritrae una coppia di giovani in primo piano che ridono abbracciati: lui ha il collo forte e i denti bianchi spiccano sulla barba scura. Potrebbe essere un italiano. Lei indossa un cappello a tesa larga che le protegge la pelle chiara, cosparsa di lentiggini, e ha una spessa treccia di capelli rossi.
La stessa ragazza, invecchiata e avvolta in un accappatoio bianco, mi sta ora porgendo la mano senza ombra di sorriso negli occhi azzurro chiaro. Se avessi dovuto scommettere, avrei sicuramente detto che è irlandese.
Ha i piedi nudi e bagnati, si scusa perché era in doccia. Le guardo i capelli, ancora rossi, probabilmente tinti: sono gonfi e crespi come possono essere soltanto i capelli africani, fitti al punto da essere impenetrabili dall’acqua, che si è dispersa sulla loro superficie in piccole goccioline scintillanti. Non ci invita a sedere e ascolta il chiacchiericcio di sua figlia senza guardarla, con una leggera espressione di fastidio. Forse è per tutto quello che mi ha raccontato Frederique, ma anche a me sembra che questa donna consideri sua figlia la prova imbarazzante di una realtà che vorrebbe ignorare il più possibile.
Si anima per un momento quando le dico che l’ho riconosciuta subito dalla fotografia, ma è evidente che non le abbiamo fatto una sorpresa gradita e che ha voglia di restare sola, forse per sempre.
Frederique al ritorno mi racconta la storia della famiglia di sua madre, che discenderebbe da una bambina africana di pochi giorni arrivata su una nave tra le braccia della madre morente. Adottata da una famiglia di coloni francesi, la bambina era stata chiamata Eliza e cresciuta assieme all’erede legittimo, con il quale a un certo punto era inevitabilmente sbocciato il grande amore. Costretto a sposare una donna francese per preservare la purezza della discendenza, l’uomo, sul letto di morte, aveva fatto in modo di intestare a Eliza una collina intera, affinché i loro figli, e i figli dei loro figli, potessero avere un posto dove vivere.
La storia è commovente e non sarò certo io a svelare a Frederique che c’è una collina che si chiama Eliza anche in Martinica, e che la leggenda che si narra è esattamente la stessa. Le chiedo invece se è disposta ad accompagnarmi a parlare con l’uomo che lei dice essere un colono.
– Impossibile: con me presente non parlerebbe mai. E poi io finirei per insultarlo appena apre bocca. –
– Ma se non parla inglese come faccio? –
– Hai un bel fisico: mettiti tacchi e minigonna. Quelli sono dei maiali nati, vedrai che il modo di comunicare lo trova. –
Non ho tacchi nel mio bagaglio e neppure una minigonna. Sono anche reduce da un incidente e ho appena dismesso il tutore che mi fasciava una caviglia, però, stando attenta a come cammino, zoppico appena. Potrei provare a truccarmi, se non fosse che non ho cosmetici con me ed è domenica, quindi i negozi sono chiusi. Peccato, perché avrei potuto togliermi lo sfizio di comprarmi le ciglia finte e una parrucca bionda: le solite occasioni mancate della vita.
Arrivo al bar molto prima dell’ora di pranzo e mi siedo vicino al muro. Ho già ingurgitato una tonnellata di riso al ragù di pollo quando finalmente la mia preda ignara sopraggiunge. Non lo guardo, fisso il mio piatto sconsolata e ordino una birra ad alta voce, tanto perché capisca che sono una turista che non parla francese.
Lui mi lancia occhiate incuriosite per tutto il pasto e questa è una situazione che io in genere detesto: sono capace di stare ore a guardare con la coda dell’occhio gente che si sbraccia senza muovere un muscolo in risposta, ma questa volta, lasciato passare un periodo di indifferenza accettabile, mi impongo un sorriso, che lo so già che assomiglia di più a una crepa nel cemento, ma non so fare di meglio e lo faccio per la scienza mi dico, la mia, che è una scienza non ancora riconosciuta, ma nel futuro, chi lo sa.
Finito di mangiare il signore m’invita a unirmi a lui per un’ultima birra. Si sente che non è abituato a parlare inglese e deve pensarci un po’ prima di trovare i termini, ma sembra avere voglia di chiacchierare. Mi sposto sulla panca di fronte a lui e dopo i primi convenevoli e qualche balla da parte mia, riesco finalmente a chiedergli se è proprio di Guadeloupe. Lo è, da generazioni. Conosce i nomi di ogni suo singolo antenato nato sull’isola, fino a risalire alla famiglia francese d’origine:
– Era una famiglia di aristocratici, ma ai tempi andava tutto ai primogeniti. Il mio avo era un cadetto, non aveva diritto a nulla. Non è come si crede: verso la metà del 1600 il Re di Francia mandò su quest’isola cinquecento disperati che non avevano niente da perdere: cadetti, avventurieri, carcerati. Più o meno come hanno fatto gli inglesi in Australia. Disse loro che se dopo un anno fossero stati ancora vivi avrebbe mandato le donne e assegnato a ciascuno un pezzo di terra. Dopo un anno erano rimasti soltanto in cinquanta e il mio avo era tra questi. Molti erano morti di stenti, ma altri erano stati rapiti o uccisi dai negrieri: non godevano di nessuna protezione da parte della Francia, erano carne da macello senza patria. Si parla tanto dello schiavismo dei neri, ma c’era anche lo schiavismo bianco: noi eravamo schiavi. –
So a cosa si riferisce il colono, ho letto qualcosa. I criminali di vario tipo che si occupavano di rapire schiavi da vendere nel nuovo mondo non erano diversi da quelli che oggi si occupano degli stessi traffici, e non si perdevano certo in minuzie razziali o religiose: chiunque fosse, di qualunque colore fosse, bastava che potesse essere smerciato. Se una nave era fatta prigioniera, i bianchi a bordo sopravvissuti erano spesso rivenduti come schiavi, e se sapevano scrivere, tanto meglio. Contabili, segretari, piccoli burocrati – anche quelli reclutati in Europa – erano messi in vendita quando la piantagione falliva o quando non servivano più. Non avevano molta scelta: non guadagnavano abbastanza per potersi pagare un viaggio di ritorno.
Migliaia di adolescenti di pelle bianca e tenera, che vagavano orfani per i porti del vecchio mondo in cerca di cibo, furono imbarcati come mozzi sulle navi corsare, con la promessa di diventare pirati. Su queste navi era proibito imbarcare donne, e i ragazzi erano il passatempo sessuale della ciurma fino a quando diventavano inservibili, morivano o si suicidavano, scomparendo per sempre. È una storia amara e poco documentata che nessuno ama rivangare.
Alla fine dell’anno di “prova” il Re aveva assegnato i terreni ai sopravvissuti, e le donne, francesi d.o.c., erano state spedite come promesso. Anche in questo caso si trattava di persone non proprio ai vertici della società: prostitute, carcerate. Il mio interlocutore però non lo specifica.
– Tutti credono che noi coloni avessimo eserciti di schiavi, ma gli schiavi costavano. Noi era tanto che riuscissimo a mangiare con quello che coltivavamo. Erano i rappresentanti del Re, quelli mandati a riscuotere le tasse da noi, che avevano schiavi e valletti. Noi neppure le bestie per arare, avevamo. Gli schiavi finivano nelle piantagioni della Guyana, del Brasile e dell’America, che erano enormi, non nelle nostre. All’inizio coltivavamo tabacco, caffè. Poi verso la fine del 1700 c’è stato il boom della canna da zucchero e allora qualcuno ha iniziato ad arricchirsi e a comprare più schiavi, ma non erano che qualche migliaio su tutta l’isola. Adesso i negri qua sono tutti convinti di avere fatto gli schiavi nelle piantagioni della Guadeloupe, e questi quando si convincono di qualcosa non c’è modo di toglierglielo dalla testa, ma oggi sono mezzo milione: dove li avremmo messi? Sono tutti arrivati dopo la liberazione: in America non sapevano più cosa farne e ce li hanno scaricati qua, tanto questa è sempre terra di nessuno. Molti sono persino arrivati dall’Africa dopo lo schiavismo, come quelli che adesso arrivano da voi, a cercare un posto dove stare senza fare fatica. Ma adesso si sentono tutti vittime. Il problema è che qui sono il 90% della popolazione e non capiscono niente: non vogliono lavorare, passano il tempo a bere e a rubare, convinti pure di essere i proprietari dell’isola. Se fosse stato per loro non avremmo neppure le strade. Tutto quello che vede è stato costruito e pagato dai francesi. Siamo poche migliaia di persone e siamo gli unici a pagare le tasse. –
– Di cosa si occupa? –
– Vendo piastrelle. (Ride) No, non ce l’ho più la piantagione: quasi tutti sono falliti e hanno venduto alle multinazionali. –
– Ma questa cosa delle distillerie di rum, delle grandi famiglie… –
– Balle! Le famiglie ci sono ancora, i nomi sono quelli, ma non hanno più terra. C’è solo un colono qui che ha ancora un po’ di roba, ma non l’ha ereditata: è uno che dopo che la famiglia aveva perso tutto si era ridotto a fare il gelataio per strada. Ha fatto i soldi così, e un po’ per volta ha comprato alcune delle piantagioni degli altri che nel frattempo stavano fallendo a loro volta. Il suo cognome lo trova dappertutto, ora sta investendo nei supermercati. È il più ricco dell’isola ed è un colono francese, ma non è l’erede di un impero, è un gelataio. –
– Quindi lei non ha più terre. –
– Solo il terreno della casa, la piantagione l’abbiamo venduta: dopo la guerra le importazioni sono molto diminuite e comunque era già difficile prima. I negri non lavorano neanche se li paghi. Abbiamo dovuto fare arrivare gli indiani, e i negri se la sono pure presa: non volevano lavorare, ma non volevano neppure che arrivasse qualcuno per fare il lavoro al posto loro. Se vuole vedere cos’è il vero razzismo chieda un po’ in giro che rapporto c’è tra indiani e negri qui. Poi, visto che le piace indagare, chieda un po’ di più: chieda dei siriani. Sa quanti siriani ci sono su quest’isola? Più dei bianchi. Sono tutti pieni di soldi, non fanno altro che aprire centri commerciali e casinò. Quanti profughi siriani, di quelli che ora tutta l’Europa accoglie, pensa che siano stati accolti qui, dai loro cari compaesani? Nessuno! –
Meno male che non mi sono presentata con la parrucca e gli occhialoni da grande spia internazionale: quest’uomo ha capito subito cosa volevo da lui. Per mia fortuna ha voglia di raccontarsi, al di là del mio eventuale giudizio. Mi chiedo perché.
Con l’accenno a indiani e siriani mi ha tirato un colpo basso: ora tace fissandomi e ha capito che lo so. Sorride sornione.
A St. Lucia, nella zona di Rodney Bay, c’è un nuovo centro commerciale e due supermercati, uno dei quali gourmet con vini e formaggi pregiati, un casinò nuovo di zecca, grandi magazzini con vestiti a basso prezzo, parrucche sintetiche e set da centinaia di unghie finte. È tutto dei siriani. Sono arrivati vendendo scope e rosari, brontolano i locali, e poi hanno fatto clan tra famiglie e ora stanno comprando tutto, costruiscono ovunque, fanno il business con gli stranieri. Alla gente locale arrivano le briciole. Il problema imbarazzante è che evidentemente i siriani corrompono i governanti, che sono caraibici. Ora i cinesi stanno seguendo lo stesso percorso e il loro numero aumenta ogni anno.
– Non si riesce a fermare questo andazzo, in qualche modo? – Avevo chiesto io una sera, al quinto bicchierino di rum con il burro di noccioline.
– A qualcuno di loro gli hanno sparato, ma mica possiamo ammazzarli tutti. – Aveva risposto Apache, che si chiama Jason, ma tutti lo chiamano Apache, perché parte della sua famiglia è di origine indiana, ma non indiana delle Americhe, indiana proprio dell’India. È una presa in giro e lui detesta essere chiamato così, preferisce dire di essere di discendenza carib e forse un po’ lo è.
Anche a St. Lucia si era provato a impiegare mano d’opera indiana, negli ultimi anni delle piantagioni. Gli indiani poi erano rimasti, dedicandosi con successo al piccolo commercio. E anche a St. Lucia, tra i caraibici e le comunità orientali regna una tensione silenziosa, che rischia sempre di sfociare in tragedia. Ecco perché nei ristoranti di lusso, tra i tavoli rigorosamente separati di indiani e siriani vestiti secondo la loro moda tradizionale, non ci sono caraibici ricchi che cenano.
Va bene, amico colono aristocratico francese di seconda scelta che vendi piastrelle: giochiamo a carte scoperte.
– Lei ha un aspetto incredibilmente europeo per provenire da una famiglia che vive qui da generazioni: in tutti questi secoli nessuno dei suoi predecessori si è mai sposato con una persona di origini africane? –
– Sposati, assolutamente no. Se vuole sapere se ci sono stati figli illegittimi con qualche serva, posso dirle che probabilmente ho molti parenti in giro. –
– Mi scusi, ma lei parla sempre al maschile. Immagino che ci fossero anche donne francesi sposate con uomini francesi che avevano relazioni extraconiugali, vista la libertà dei loro consorti. O no? –
La mia domanda è una vendetta per essere stata scoperta, e non è una mossa intelligente. Non ci ho resistito. Rischio che chiuda i comunicati per nulla, dato che so già anche la risposta.
– Sta parlando di donne bianche che hanno fatto figli con negri? Se erano puttane, forse, ma non si è mai sentito di una bianca sposata a un bianco che abbia partorito un negro. Se è successo, il bambino è sparito subito. –
– Ma i tempi sono cambiati: lei è sposato con una donna francese? –
– Certo, ho due figli di tredici e di quindici anni, viviamo nell’interno. Non è questione di tempi che cambiano: bianchi e negri sono due razze incompatibili, non ci capiamo. I negri sono sensuali, ma è inutile provare a fare qualunque discorso con loro, non hanno la nostra forma d’intelligenza. È brutto da dire, ma è la verità. Io non ho niente contro questa gente: i miei figli vanno a scuola con loro, ci giocano a pallone. Ma un giorno succederà che i miei figli li sentiranno dire delle assurdità senza senso, cercheranno di discuterne e si renderanno conto che non c’è niente da fare. Possiamo pure cercare di mandarli nelle nostre scuole, ma non c’è modo di cambiare la loro mentalità. –
Il mio interlocutore se ne frega di quello che io posso pensare. D’altro canto io ho cercato appositamente, e con grande dispendio di energie, di parlare di questi argomenti con una persona che immaginavo già avesse posizioni estreme. Trovo sciocco, e anche disonesto intellettualmente, manifestare ora fastidio, superiorità o infervorarmi in una crociata moralista che non avrebbe il minimo effetto e forse non farebbe altro che irrigidire ancora di più le sue posizioni, senza vantaggio per nessuno. Posso solo cercare di capire com’è strutturata questa sua mentalità, quali sono le convinzioni alla base di tutto questo, se ci sono.
– Beh, immagino che si tratti di due mondi completamente diversi, con storie e culture molto lontane l’una dall’altra. Non mi stupisce che ci siano grossi problemi di comunicazione. Mi chiedevo invece in quale situazione si trovino i mulatti, cresciuti da due persone che possono avere mentalità opposte e in contraddizione. –
– Stessa cosa: i mulatti sono dei neri. –
Per la prima volta usa la parola black invece di negro. Faccio fatica a non sorridere. Il mainstream, le ripetizioni costanti, hanno il loro effetto inconscio su chiunque, persino su di lui. Chiama negro un africano, ma per un mulatto, pur dichiarando di considerarlo alla stessa stregua, non ce la fa già più. In passato sarebbe stato diverso, ma lui non ne è consapevole.
– Intende dire che siccome di solito è la madre a essere nera ed è lei che si occupa dell’educazione dei figli, questi tendono comunque ad acquisire la sua mentalità piuttosto che quella del padre? –
In realtà, la situazione nelle Antille Francesi oggi è completamente rovesciata: la maggior parte dei bambini mulatti ha una madre francese, che è emigrata alle Antille in cerca di una vita diversa, sposando un locale, da cui, nella stragrande maggioranza dei casi, si è separata presto. Sono queste donne che si occupano dell’educazione dei mulatti di nuova generazione, e li mantengono. I padri sono esclusi da tutto, spesso completamente assenti. Immagino però che nella bolla di fasti coloniali del mio interlocutore il mulatto sia ancora il figlio di un bianco ricco e di una schiavetta povera.
– No, è questione di colore. Se hanno sangue nero, prima o poi il nero salta fuori, anche dopo generazioni. Perché – lasci che glielo dica, anche se le sembrerà strano che a dirlo sia proprio io – il nero è dominante, e sul sangue bianco vince. E non parlo solo del colore, parlo della testa. Se non stiamo attenti, diventeremo tutti come loro. –
Va bene. Ringrazio, prendo e porto a casa. Abito a qualche centinaio di metri e devo rientrare in fretta per scrivere degli appunti prima di dimenticare. Lungo il tragitto, che percorro a piedi, l’uomo mi affianca con l’automobile e mi chiede di accompagnarlo nella sua stanza d’albergo. Lo liquido con un no distratto e lui immediatamente si profonde in scuse e poi ancora scuse. Poi me lo ripropone subito dopo, e mi segue in attesa di risposta finché non svolto l’angolo della strada perdendolo di vista.
– Te l’avevo detto che sono dei maiali maschilisti, si o no? – Urla Frederique mentre vaghiamo per l’isola in auto, ci fermiamo su spiagge nere e lucenti a cercare mandorle che per aprirle ci vuole uno schiacciasassi, annusiamo i frutti di noni per cercare di capire meglio se puzzano più di piedi o di formaggio, e contempliamo mute la statua di Colombo che sta cadendo a pezzi in un giardinetto dimenticato.
– Questi sono dei disperati: hanno vissuto secoli con il mito della Francia e dell’essere francesi, ma la Francia non li vuole, si vergogna di loro! Se vanno in Francia a fare discorsi così gli ridono tutti in faccia! Sono prigionieri qui e possono vivere solo tra di loro e nel passato: sono dei fantasmi, dei morti viventi! Comunque scusami, ma io non ne voglio parlare, per me non esistono. Questa gente ha insegnato ai neri a odiare se stessi. Voglio pensare che ora il mondo altrove sia diverso e la gente abbia capito che non si devono fare discriminazioni. Non siamo più nel 1700. –
So che Frederique è preoccupata anche per suo figlio, che ora ha 18 anni e studia legge all’università di Pointe a Pitre. Il padre, un nero, vive in Francia, non si sa neppure dove. Non ha mai mandato soldi e la madre di Frederique ha provveduto al mantenimento di questo nipote con rabbia, incontrandolo il meno possibile. Ora lui vive alla casa dello studente: finito il biennio, per continuare gli studi dovrà andare all’estero. Frederique vuole mandarlo a studiare negli Stati Uniti, ma lui si oppone perché non vuole imparare l’inglese.
– Mandalo a Parigi, per lui sarebbe tutto più facile e non dovrebbe neppure fare un passaporto! –
– Lo so, ma ho paura: l’Europa oramai è un posto troppo pericoloso, non so tu come fai a viverci, con tutti quegli attacchi terroristici. Parigi non è più quella di quando la frequentavo io: troppa gente disperata, troppi arabi. Non so cosa aspettiate a mandare indietro di tutta quella gentaglia che vi arriva sulle barche. Io là non ce lo mando -.
Tropici:
Il destino era già scritto per me, all’isola di St. Lucia
Un giardino tropicale, un Masai e una lezione sulla depressione
Zanzibar