Da Anguilla alla Martinica in catamarano
Sono tornati gli Alisei e la luce acceca. Il silenzio di un mese di navigazione ha riempito le orecchie d’aria spessa. Sono fitte dolorose le strida degli uccelli che anticipano il pericolo delle scogliere, e lo fanno meglio di un eco-scandaglio.
Si possono misurare molte distanze, sul ritorno di un eco.
Gli umori del cielo li leggi nel riflesso della luce sull’acqua. La marea te la raccontano i dorsi argentati di certi grossi pesci che appaiono e scompaiono secondo un ritmo che s’impara. L’orologio non serve: ti dice un numero che non significa nulla, quando, al momento esatto del tramonto, il sole tira una tenda di invisibilità totale tra te e gli abissi su cui galleggi. Ora ti guardano loro, ma tu vedi soltanto una superficie.
Lo spazio è così vuoto e rimbomba di piccoli segnali. Inutile cercare di registrare suoni o immagini: non è così che si riesce poi a spiegare come sia accaduto che a un certo punto hai scoperto di sapere tante cose e di percepirne ancora di più.
Per riposarsi dall’essere diventato un animale con così tanti organi di senso, ci si può fingere umani di ritorno. I porti furono creati appositamente per ricordare a chi avvista terra ferma che lì sopra vige una legge diversa, d’immobilità.
I Carib non abitano più qui. Ora è il tempo degli yacht club e degli americani con le magnum di champagne.
Si può ancora fingere di essere antichi pirati, l’architettura dei porti rimane quella delle conquiste inglesi, olandesi e francesi: funzionale, con poche concessioni alla gloria e molta fretta di fare commercio. Le banane. La canna da zucchero. I raggruppamenti stretti delle case e quel senso di abbandono che rimane, quando gli abitanti di un posto non gli appartengono davvero.
Osservandola all’orizzonte, la terra appare un posto troppo immobile, troppo complicato. Ci sono montagne difficili da aggirare e che bloccano la visuale. Sembra un posto riposante, ma non è così: tira sempre un’aria di disgrazia incombente, tra il fruscio delle palme e la nebbiolina che impregna colline verdi e spugnose.
La terra è una brutta bestia e il profumo delle Antille è quello del pesce salato misto al caramello. Ti assale alla gola come fumo e ti fiacca le membra di nostalgia.
Si scioglie soltanto con il rum.
Auguste Cyparis era uno schiavo e aveva accoltellato un uomo durante una rissa. L’8 Maggio 1902 si trovava rinchiuso in cella di pietra, nella prigione di Saint Pierre in Martinica.
Il vulcano La Pelée, poco distante dalla città, esplose quella mattina sprigionando gas roventi e lava che viaggiava a cento chilometri l’ora. La lava si inghiottì Saint Pierre, la Parigi delle Antille che aveva anche un teatro. Tutti i suoi trentamila abitanti morirono in pochi minuti, fatta eccezione per un uomo che si trovava al margine del paese e per Auguste, che fu protetto proprio dai muri della sua cella. Lo trovarono qualche giorno dopo, che urlava di dolore per le ustioni.
Fu liberato perché a molti la sua sopravvivenza era sembrata un segno divino, assieme al fatto che la lava si fosse improvvisamente fermata davanti alla chiesa di St. Anne.
Auguste, ricoperto di cicatrici, finì a lavorare per il circo Barnum negli Stati Uniti, come “Unica cosa vivente emersa dalle ceneri della città morta”. Fu anche uno dei primi uomini di colore ad esibirsi pubblicamente.
La risonanza che ebbe l’eruzione di Saint Pierre associata a questa incredibile vicenda, fu tale da impressionare profondamente persino Giovanni Pascoli, che volle scriverci sopra una lunga poesia:
IL NEGRO DI SAINT-PIERRE
Io stavo qui nella mia tomba, vivo.
Era gran tempo che ogni giorno, ogni ora,
tra me e me la mia morte morivo.
Oh! il negro avrebbe uccisa anche l’aurora!
perchè sapea che l’uomo rosso appunto
al rosseggiar del cielo esce, e lavora.
Tutte le notti sopra lo strapunto…
oh! freddo come il ferro, come il mio
coltello nudo, un uomo nudo e smunto
sentivo accanto a me: l’altro; quel ch’io
avea freddato. E io sbalzavo anelo
dal sonno, ed ecco che quell’altro ero io!M’aveva, sì, tutto attaccato il gelo
della sua morte. Ed ero vivo, e fissi
tenevo gli occhi al rosseggiar del cielo;
se un fiato, un passo, un moto, un crollo udissi
su la mia testa, uno stridio leggiero
di chiavi, uguale ad un fragor d’abissi…
Oh! tutti i giorni! E tutti i giorni invero
sentivo qualche scossa, qualche rombo,
e tremar volte, e brandir porte… E il nero
della mia pelle si facea di piombo.Un mattino, io credei morto il domani!
Io non sapevo, avvinto alla catena,
che sfregar lento, su e giù, le mani;
dove parea fosforeggiar la vena
od una macchia. Dalle quattro oscure
pareti io vidi la gran piazza, piena.
Col viso giallo al sole eran figure
nere attorno ad un palco: erano attente
a un uomo assòrto nel provar la scure.
Tra il ceppo e il filo, sì sottil, no, niente
c’era per anche. E già quel colpo ghiaccio
succhiava il sangue a tutta quella gente.Ecco… risonar passi, un catenaccio
stridere, aprire un poco l’uscio, a un poco
di luce entrar la lunga ombra d’un braccio…
quando uno scroscio, un lampo udii di fuoco,
un crollare, un girar tutto in un’onda,
gli urli di tutti in un sol urlo, fioco
come d’un solo… E, come fosse fionda,
la mia catena mi rotò con sè,
e scagliò. Nella oscurità profonda
intesi: — Negro, lascia fare a me!Io sono, negro, la Montagna Calva,
io sono il caso, io sono il dio più forte,
che gli altri uccide, ma che te, ti salva.
L’ebbero, negro, l’ebbero la morte!
O negro, uccisi il giustizier sul palco,
uccisi il carcerier dietro le porte.
Il cuor t’alia nel petto come un falco
inchiodato. Sta su! Guarda, se vuoi:
le genti armate col mio piede io calco.La tua sentenza… la bruciai co’ tuoi
giudici. Il tuo delitto, io lo soppressi.
Non lo sappiamo ch’io e tu: tra noi.
Non temer più. Perchè più non temessi
de’ tuoi nemici, negro, uccisi tutti:
se avevi amici, negro, uccisi anch’essi.
Coi sassi intorno li inseguii: con flutti
di fango, fiati di veleno, fiumi
di fuoco: altri sepolti, altri distrutti.Non c’è più sangue, se non arso, in grumi.
Di tanti cuori batte ancor sol uno.
Non c’è, di bocche, che la tua, che fumi.
E la mia. Negro, non c’è più nessuno —Parlò con nella gran voce i tripudi
del fuoco interno. E tacque. Io gli occhi affissi,
su, nella taciturna solitudine:
all’alta notte appesi il cuor, se udissi
più voce d’uomo, urlo di fiera, volo
di mosca. Tutto, se tacean gli abissi,
taceva. E il monte riprendea: — Figliuolo,
è morto il mondo, l’uomo, il topo, il ragno,
il tempo, tutto. Siamo in due. Sei solo.
Non c’è più palco, più città, più bagno;
la scure io fusi, io fransi le catene —
Io risposi: — Oh! se avessi uno a compagno! —
E il monte: — Non hai me? — Quel dalle vene
vuote, il mio uomo, accetterei pur quello —
E il monte: — Quello, non fui io, sai bene! —
— Oh! basterebbe al negro ora sol quello —
— Ma… stava in te! Se aprivi un po’ le dita… —
— Oh! che il negro non vuole altri che quello! —
— Io do la morte, non ridò la vita —
— E dà la morte ancora a me! — Ben sai
che pur fo questo, se non mi s’invita;
ma non, per questo, egli vivrà più mai! —Io, sì, vivevo; ma sol io, confuso
del mio strisciare, io solo, ancora; io ero
l’unico verme d’un sepolcro chiuso.
E il sonno della morte era leggiero
agli altri, più che a me la vita. O peso
di due morti, non una, entro il pensiero!
Quello a cui prima il sangue avevo io preso,
era il più queto. Egli tra l’erba folta
fu, prima dell’atroce ora, disteso.
Avrei voluto sussurrargli: — Ascolta:
io t’ho rubato qualche giorno appena! —
Ma sì! per fin la tomba era sepolta!
E la Montagna Calva, con la lena
continua del suo polso indifferente,
sperdeva in aria un alito di rena;
pioveva giù le sue ceneri lente:
male che segue lento la sua sorte,
quand’anche il cuore donde uscì, si pente:
pioveva giù le sue ceneri morte:
male che avanza al triste odio che fu:
male che mena strazio oltre la morte,
quando quel cuore non palpita più.Diceva: — Avete tra la notte e il vento
un lumicino d’anima che brilla
per gli altri e voi, ma ch’ad un soffio è spento.
Avete, dentro, qualche calda stilla
di sangue, che, per nulla, ecco, agghiacciato
vi serra il cuore e ferma la pupilla.
E prevenite il turbine del fato!?
La vita che spengesti, si freddava,
tu lo vedi, da sè, senza il tuo fiato…
O negro, soffia sopra la mia lava!
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